di Mario Braconi

Perfino quando si ha il privilegio di vivere in un paese occidentale relativamente aperto e tollerante, ci vuole coraggio a fare “coming out”; ma per essere gay in Uganda, scegliendo l’impervia strada dell’attivismo, occorre la stoffa dell’eroe. E David Kato, ammazzato a martellate lo scorso mercoledì nel suo appartamento in una zona malfamata di Kampala, ha pagato con la vita il suo grido di libertà. A dispetto della frettolosa ricostruzione della polizia locale, che ha escluso un crimine d’odio legato all’orientamento sessuale della vittima, Kato è stato ucciso per come aveva deciso di vivere e amare e per come aveva deciso di darne testimonianza.

Dopo la laurea, conseguita in una delle migliori scuole del suo paese, Kato era emigrato in Sud Africa, dove aveva fatto coming out: qualche anno fa organizzò la prima conferenza sui diritti degli omosessuali in Uganda (conclusasi con un bel pugno in faccia da parte di un poliziotto); in seguito, divenne membro di spicco della Sexual Minorities Uganda (o SM-UG), un’organizzazione che si propone di conseguire la piena eguaglianza sociale e giuridica della persone GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e transessuali) nel paese africano.

E proprio in qualità di rappresentante di SM-UG, Kato aveva recentemente ottenuto un’importante vittoria contro un giornaletto locale con 2.000 copie di tiratura, il Rolling Stone (nulla a che vedere con l’omonima rivista americana) che, nell’ottobre dello scorso anno, aveva concepito la brillante iniziativa di pubblicare in prima pagina foto, generalità e indirizzi di omosessuali dichiarati (tra cui quello di Kato), accompagnati da un simpatico banner giallo con la frase “impicchiamoli”, o “impiccateli” (a seconda di come si voglia interpretare).

Le foto erano accompagnate da un pezzo altrettanto ripugnante, nel quale comparivano alcune delle tante favole dark divenute popolari in Uganda negli ultimi anni, tra cui quella secondo cui gli omosessuali battono le scuole al fine di corrompere i giovinetti, convincendoli ad abbandonarsi all’odioso ed innominabile peccato di Sodoma. Orbene, il 3 gennaio scorso una corte ugandese aveva dato ragione a Kato e agli altri due ricorrenti, obbligando il giornale a un risarcimento monetario e diffidandolo per il futuro a diffondere dati personali di omosessuali.

In generale, la vita degli omosessuali in Africa è particolarmente agra: come ricorda il New York Times, infatti, negli Stati del Nord della Nigeria i gay rischiano di essere condannati alla lapidazione, mentre in Kenya possono finire in carcere per anni, se scoperti. Tuttavia, l’omofobia paranoica dell’Uganda è sui generis, dato che è stata rafforzata e resa particolarmente violenta da elementi esogeni alla cultura locale.

Ne è convinta Val Kalende, lesbica e attivista di “Freedom and Roam Uganda”, che sul New York Times ha commentato così la morte dell’amico David Kato: “Il governo ugandese e i cosiddetti evangelici americani devono assumersi la responsabilità del suo assassinio”. Kalende, che ha dichiarato pubblicamente la sua omosessualità in un paese dove alle giovani lesbiche è costume somministrare uno “stupro rieducativo”, si riferisce a Scott Lively e Dan Schmierer, e Caleb Lee Brundidge, che tra il 5 e l’8 marzo del 2009 organizzarono a Kampala un seguitissimo “seminario”, il cui obiettivo era infettare l’Uganda con le loro ridicole e pericolosissime “teorie” omofobe.

Qualche flash sulla biografia dei tre “luminari” americani in terra d’Africa può aiutare a farsi un’idea delle loro idee: Scott Lively è autore (assieme a Kevin E. Abrams) di “Svastica Rosa”, un “saggio” secondo cui “gli omosessuali sono stati i veri inventori del nazismo, mentre l’omosessualità è stata la forza trainante di molte atrocità commesse dai nazisti”; Dan Schmierer è uno dei responsabili di Exodus International, un gruppo di ex-omosessuali; mentre Brundidge è un ex-gay che tiene “seminari di cura” finalizzati alla riconversione dei peccatori.

Ad organizzare l’incredibile adunata, Stephen Langa, un soggetto che nei suoi seminari sostiene che l’omosessualità è assimilabile alla pedofilia e alla bestialità; nella sua prolusione, ha citato in lungo e in largo una serie di dati statistici basati sulle ricerche di un certo Paul Cameron, psicologo anti-omosessuale, doverosamente radiato dalla Associazione degli Psicologi Americani.

Per quanto possa sembrare incredibile, il seminario è stato frequentato da migliaia di ugandesi, inclusi politici, rappresentanti delle forze dell’ordine e politici. Questi ultimi, soprattutto, sono apparsi particolarmente sensibili alle demenziali parole pronunciate da quella farsesca assemblea di falsi religiosi e veri odiatori; il reverendo Kapya Kaoma, voce critica e progressista della chiesa anglicana, che per sei mesi ha seguito in incognito i rapporti tra evangelici americani e politici ugandesi, riporta il seguente intervento: “Il Parlamento ritiene sia necessario stendere una nuova legge che affronti la questione omosessuale in modo completo, considerando anche il pericolo rappresentato dall’agenda gay internazionale”.

Detto fatto, ad Aprile del 2009 il Parlamento ugandese realizza una bozza di legge che prevede la pena di morte per gli omosessuali “recidivi”, malati di HIV o che abbiano rapporti con ragazzi minorenni. A dispetto dello sdegno europeo e degli Stati Uniti (!), che hanno ricattato il governo ugandese minacciando di chiudere il rubinetto degli aiuti se la proposta dovesse divenire legge, essa giace ancora in un limbo amministrativo, anche se potrebbe essere approvata a febbraio, a valle della presumibile rielezione di Museveni, al potere da 25 anni.

Secondo Kaoma, i rappresentanti puri e duri della destra reazionaria americana, che hanno trovato nella rurale e bigotta Uganda il loro Eldorado, stanno scherzando con il fuoco: non hanno capito, o hanno finto di non capire, che cosa “vuol dire per degli africani sentire parlare di un certo gruppo di persone che tenta di annientare i loro figli e le loro famiglie: quando si parla in questi termini, gli africani lotteranno fino alla morte”. Ora, per quanto gli odiatori a stelle e strisce si affannino a versare inutili lacrime di coccodrillo a mezzo stampa, la miccia è accesa: David Kato è stato assassinato, mentre l’Uganda si prepara a una possibile nuova pulizia etnica. In nome di Dio.

 

 

di Carlo Musilli

Alla fine è arrivata. Dopo quattro giorni dall'inizio delle proteste, venerdì l'Egitto ha conosciuto la vera guerriglia, in tutto il paese. E' stato imposto il coprifuoco, ma i manifestanti non lo hanno rispettato. Mubarak ha deciso quindi di schierare l'esercito affianco alla polizia. Almeno 20 persone sono morte e quasi 1.000 sono rimaste ferite, più di 400 gli arrestati. Numeri assolutamente provvisori e quasi impossibili da verificare, data la nube di fumo che il regime ha fatto calare sul sistema di comunicazioni. Difficile anche ricostruire cosa sia successo a El Baradei, oppositore del rais e premio Nobel per la Pace 2005, rientrato in patria da pochi giorni. Secondo alcune voci era stato arrestato. Poi la notizia è stata edulcorata e si è cominciato a parlare di arresti domiciliari.

Intanto, gli scontri non si sono fermati. Ieri al Cairo i manifestanti si sono riuniti in piazza Tahrir, cuore della rivoluzione. Hanno cercato di convincere le forze dell'ordine delle loro intenzioni pacifiche, ma alcuni poliziotti hanno sparato sulla folla. Non è chiaro se fossero munizioni di gomma o vere pallottole. Di certo erano veri i proiettili sparati contro i rivoltosi che hanno tentato di assaltare il ministero degli Interni. Nel frattempo, la violenza è dilagata anche ad Alessandria, Suez, Porto Said. Ovunque. Nel pomeriggio un altro coprifuoco, anch'esso violato da decine di migliaia di persone.

Di fronte a uno scenario che mai avrebbe immaginato, Mubarak ha parlato alla nazione. Invocando lo stop alla violenza, il dittatore ha promesso un nuovo governo e riforme politiche, economiche e sociali. Peccato che in pochi siano stati disposti a credergli. Quantomeno, l'offerta deve essere sembrata insufficiente. E' vero, l'esecutivo si è dimesso, ma quello che arriverà non sembra essere altro che un rimpasto. E non si fa una rivoluzione per ottenere un rimpasto. Per ora, Mubarak ha nominato vicepresidente il generale Omar Soleiman, capo dei servizi segreti, mentre, Ahmed Shafik, ex ministro dell'Aviazione civile, è diventato il nuovo premier. Difficile pensare di placare la rivolta dando il potere ai militari.

In ogni caso, per i rivoltosi una buona notizia c'è già: tutta la famiglia del rais è scappata all'estero. Londra, per la precisione. Poco importa della moglie e dei nipoti, a suscitare interesse è la fuga di Jamal, figlio del presidente egiziano e da sempre considerato suo naturale successore. Il vuoto che si è creato potrebbe essere riempito da El Baradei, come vorrebbe quasi tutto il paese, o, più verosimilmente, da Suleiman. Il potere del generale è immenso: in quanto capo dell'intelligence, da anni svolge una cruciale attività di mediazione fra palestinesi e israeliani ed è il più diretto interlocutore che gli Stati Uniti abbiano in Egitto. I rapporti con Washington non sono mai secondari.

Obama, intanto, ha detto di aver "parlato con Mubarak", che "ha assicurato maggiore democrazia e dovrà onorare questo impegno". Per il futuro "ci aspettiamo giorni difficili - ha concluso il presidente - ma sosteniamo il diritto del popolo egiziano a decidere del suo futuro". A quanto pare, si tratta di qualcosa di più che un semplice sostegno morale. Stando a quanto pubblicato sul sito del giornale inglese The Telegraph, infatti, gli Usa, pur essendo formalmente alleati di Mubarak, da almeno tre anni appoggiano in segreto i grandi burattinai che muovono i fili della recente sollevazione.

Il quotidiano britannico cita un documento datato 30 dicembre 2008 e proveniente dall'ambasciata americana al Cairo. La fonte, nemmeno a dirlo, è Wikileaks. Nelle carte l'ambasciatrice Margaret Scobey parla di un non meglio identificato "giovane dissidente egiziano", membro del movimento "6 aprile", che è stato aiutato dagli stessi diplomatici Usa a prender parte a un incontro a Washington con altri dissidenti suoi connazionali e vari funzionari americani. Una volta tornato in patria, il "giovane dissidente" ha comunicato alla Scobey l'esistenza di un'alleanza fra gruppi d'opposizione, il cui obiettivo era di rovesciare il regime di Mubarak nel 2011 e traghettare il paese verso la democrazia parlamentare. Rivolgendosi ai suoi capi, l'ambasciatrice ha definito il piano "non realistico". Chissà cosa ne pensa adesso.
  

 

di Eugenio Roscini Vitali

Il 17 gennaio scorso è stato arrestato in Israele Aleksander Cvetkovic, serbo-bosniaco accusato di aver partecipato nel luglio 1995 al massacro di Srebrenica, la strage conosciuta come il più violento assassinio di massa consumatosi in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Fermato in Galilea dalla polizia israeliana che ha dato seguito al un mandato di cattura spiccato da quella bosniaca, Cvetkovic è tuttora trattenuto in carcere in attesa che la giustizia si pronunci sull’estradizione richiesta nell’agosto 2010 dalla Bosnia Erzegovina.

Sposato con una donna ebrea e padre di tre figli, Cvetkovic viveva a Karmiel, nella Galilea occidentale; si era trasferito in Israele nel 2006, grazie alla possibilità data alla moglie dalla Legge sul Ritorno, norma che permette ad ogni ebreo del mondo di chiedere per se e i suoi familiari la cittadinanza israeliana. A quindici anni dal massacro perpetrato dalle truppe di Ratko Mladic, lo zelante soldato Aleksander era ormai certo di averla fatta franca, soprattutto perché - e questo lascia per lo meno perplessi - era riuscito a sfuggire alla fitta rete di controlli imposta dall’ufficio immigrazioni israeliano; ora dovrà difendersi dall’accusa di aver personalmente preso parte alla fucilazione di quasi mille bosniaci e di essere stato così “zelante” da aver utilizzato una mitragliatrice M-84 per velocizzare le operazioni.

Mercoledì scorso il giudice Ben-Zion Greenberger, della Corte distrettuale di Gerusalemme, ha confermato l’arresto di Cvetkovic e ha disposto che rimanga sotto custodia preventiva per almeno 30 giorni, tempo entro il quale gli organi competenti dovranno valutare la richiesta di estradizione avanzata dal governo di Sarajevo. L’accusa di genocidio a carico di Cvetkovic, reato previsto dall’art. 171 del codice penale della Bosnia Erzegovina, è relativa ai fatti accaduti nel luglio 1995 a Branjevo, fattoria nei pressi di Srebrenica dove Cvetkovic ed altri sette militari del 10° battaglione sabotatori dell’esercito della Repubblica Srpska (VRS) avrebbero fucilato, a gruppi di 10, circa mille musulmani, uomini e ragazzi di età compresa tra i 14 e i 65 anni, separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani per apparenti procedere relative allo sfollamento.

Cvetkovic è difeso dall’avvocato Nick Kaufman, ex pubblico ministero per il tribunale penale delle Nazioni Unite nei casi istituiti contro gli ex generali serbi coinvolti nel conflitto balcanico e rappresentante legale dell’ex vice presidente congolese Jean-Pierre Bemba, anche lui accusato per crimini di guerra.

Secondo la convenzione europea sull’estradizione, accordo sottoscritto da Israele nel 1967 e dalla Bosnia Erzegovina nel 2005, Tel Aviv è obbligata ad estradare Aleksander Cvetkovic; il serbo bosniaco è infatti ricercato per aver commesso un fatto considerato illegale in entrambe le nazioni e punibile con una pena superiore ad anni uno (art.1) e non per un fatto considerato quale reato politico (art.3). Robbie Sabel, professore di diritto internazionale all’università ebraica di Gerusalemme, é comunque convinto che se la difesa dovesse opporsi all’estradizione, cosa alquanto probabile, ci potrebbero volere mesi prima di portare Cvetkovic di fronte alla giustizia bosniaca.

Tecnicamente la Corte israeliana dovrà innanzi tutto pronunciarsi circa l’estradabilità dell’imputato, decisione che in caso positivo potrebbe dar luogo ad un ricorso alla Corte Suprema; superato questo scoglio la pratica passerà quindi al vaglio del  il ministro israeliano della Giustizia, Ya’akov Ne’eman, che dovrà pronunciarsi sull’approvazione ed applicare tutti gli strumenti necessari alla consegna dell’individuo alle autorità bosniache.

Per il professor Sabel non è esclude che la difesa provi comunque a far passare la tesi del crimine politico; questo anche se per il massacro di Branjevo la Corte bosniaca sui crimini di guerra ha già processato altri quattro membri del 10° battaglione. L’avvocato Kaufman potrebbe inoltre guadagnare tempo basandosi sul fatto che al momento dell’arresto la Bosnia Erzegovina non avrebbe presentato prove evidenti di colpevolezza e appellarsi a quanto già accertato dal Tribunale Internazionale di Giustizia: cioè che il suo cliente avrebbe gia testimoniato di fronte ai magistrati dell’Aja senza peraltro nascondere la sua identità e senza che in quella sede nessuno abbia mai preso provvedimenti a suo carico.

Di tutt’altro avviso Vadim Shuv, magistrato al quale è stato assegnato il caso, e Gal Levertov, direttore del Dipartimento internazionale presso l’Ufficio della procura generale israeliana, che hanno parlato di notevole quantità di prove a carico dell’indiziato ed hanno sottolineato come Israele abbia dato alla pratica la massima priorità. La giustizia bosniaca sarebbe arrivata a Cvetkovic grazie alle informazioni ricevute dagli uffici investigativi dell’Interpol di Lione; la caccia ai membri del 10° battaglione, sospettati di aver partecipato al massacro di Branjevo, non si è mai interrotta e Vlastimir Golijan, Zoran Goronja, Stanko Savanovic e Franc Kos, ex commilitoni di Cvetkovic, sono già stati arrestati e sono attualmente sotto processo.

 

di Michele Paris 

L’assegnazione dell’incarico per la formazione di un nuovo governo a Najib Mikati costituisce una svolta storica per il Libano. Nonostante il 55enne neo-primo ministro non sia esattamente un uomo di Hezbollah, come vorrebbero far credere l’ormai ex premier Saad Hariri e i suoi sponsor occidentali, il governo che si appresta a far nascere rappresenta un chiaro spostamento degli equilibri di potere nel “paese dei cedri” dall’asse USA/Arabia Saudita a quella formata da Siria e Iran. Con il rischio, come di consueto per il Libano, di far riesplodere le violenze settarie, per non parlare di un nuovo devastante intervento militare di Israele.

L’ennesima crisi politica libanese era scoppiata un paio di settimane fa in seguito al ritiro della delegazione ministeriale di Hezbollah e dei suoi alleati dal governo di unità nazionale, guidato dal leader sunnita Saad Hariri e dalla sua coalizione “14 Marzo”. La caduta del governo era stata innescata dalla prolungata contesa tra lo stesso premier ed Hezbollah intorno alla legittimità del cosiddetto Tribunale Speciale per il Libano (STL), istituito dall’ONU per indagare le responsabilità nell’assassinio avvenuto nel febbraio 2005 dell’allora primo ministro Rafik Hariri.

Da tempo Hezbollah denuncia infatti il Tribunale come uno strumento nelle mani di Stati Uniti e Israele per mettere all’angolo il “Partito di Dio” e promuovere i loro interessi in Libano. Da quando, la scorsa estate, il leader Sayyed Hassan Nasrallah ha annunciato che l’STL avrebbe messo formalmente sotto accusa membri del suo movimento per la morte di Hariri, Hezbollah ha insistentemente chiesto il ripudio di un organo le cui indagini sono state segnate da svariate scorrettezze. A cercare di risolvere lo stallo provocato dalla contesa tra le due anime del governo libanese ci avevano provato i governi di Siria e Arabia Saudita, ma la loro proposta di accordo è stata in sostanza rifiutata, sotto le pressioni di Washington, dallo stesso Saad Hariri, condannando inevitabilmente al fallimento il proprio già fragile governo.

Mentre Hariri e gli Stati Uniti auspicavano di veder sopravvivere indefinitamente il governo di unità nazionale in attesa di un accordo che sembrava piuttosto difficile da raggiungere tra le varie forze politiche, la crisi in Libano ha trovato invece una rapida soluzione. La svolta è giunta quando il candidato premier proposto da Hezbollah ha ottenuto l’appoggio di un ex alleato di Hariri, il leader druso Walid Jumblatt, il quale ha così suggellato, per la sua stessa sopravvivenza politica, un ritorno alle origini dopo un periodo di allineamento alle forze filo-occidentali del paese. Grazie al sostegno dei deputati di Jumblatt, l’imprenditore miliardario Najib Mikati avrà ora in Parlamento una maggioranza di 68 voti su 128.

Dopo che martedì scorso il presidente libanese, Michel Suleiman, gli ha affidato l’incarico, Mikati ha immediatamente avviato le sue consultazioni per la formazione del nuovo governo. La decisione ha scatenato le proteste nelle strade di Beirut e di Tripoli, roccaforte dei sostenitori sunniti di Saad Hariri. Quest’ultimo, pur condannando le violenze, ha duramente accusato alcuni suoi ex sostenitori di tradimento ed Hezbollah di aver portato a termine un colpo di stato “soft”. Da parte sua, Mikati ha invece chiesto all’ex premier di entrare nel nuovo gabinetto, ricevendo però un netto rifiuto.

Uomo d’affari nel settore delle telecomunicazioni e di religione sunnita, Najib Mikati aveva già assunto un incarico ministeriale nel 1998, mentre nel 2005 aveva occupato brevemente la carica di primo ministro durante i tumultuosi giorni seguiti all’assassinio di Rafik Hariri. In quell’occasione, anche allora accusato di essere un fantoccio di Damasco (con cui intrattiene buoni rapporti) Mikati traghettò il Libano verso le elezioni, per essere poi sostituito dall’alleato di Hariri, Fouad Siniora.

Nelle sue prime dichiarazioni dopo aver ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo, Mikati ha detto di voler essere un premier “di consenso” e di non essere agli ordini di Hezbollah. Malgrado nel governo che sta per nascere in Libano Hezbollah avrà un peso notevole, quest’ultima accusa non appare verosimile, tanto che la prima scelta alla carica di primo ministro del movimento sciita era per un altro ex- premier, il 77enne Omar Karameh. Mikati, inoltre, ha lasciato intendere che, in caso la coalizione di Hariri confermasse di non voler entrare nel suo Gabinetto, sarebbe pronto a valutare la formazione di un governo di tecnici.

Nonostante le inquietudini interne e a livello internazionale per un governo che avrà Hezbollah come propria forza trainante, la condotta della “Resistenza” nel corso della crisi ha rispettato pienamente le regole costituzionali libanesi. La proposta di un candidato premier sunnita ha rispecchiato poi le regole della spartizione del potere lungo linee settarie prevista in Libano. Mentre la guida del governo deve andare a un rappresentante dei sunniti, la presidenza spetta a un cristiano e la carica di speaker del Parlamento a uno sciita.

Come dimostrano gli scontri che sono avvenuti in questi giorni, il governo di Mikati dovrà in ogni caso fare i conti con il fatto che Saad Hariri rimane di gran lunga il politico sunnita più popolare del Libano. Se Hariri, com’è probabile, dovesse rimanere fermo nel suo proposito di non prendere parte al nuovo governo, il rischio per Hezbollah e la neonata maggioranza è di ritrovarsi alla guida di un paese isolato sul piano internazionale, con l’Occidente e una parte del mondo arabo pronto a voltare le spalle a Beirut e la possibilità concreta di un conflitto con Israele. A conferma di ciò, il vice-premier israeliano, Silvan Shalom, ha già affermato che con la caduta di Hariri il suo paese si ritrova praticamente con un “governo iraniano oltre il confine settentrionale”.

Ben consapevole degli ostacoli che lo attendono, Mikati si è affrettato a lanciare messaggi distensivi agli Stati Uniti, pur ribadendo che, com’è ovvio, i rapporti con la Siria rimarranno cordiali; lo stesso Hariri, d’altra parte, aveva operato un riavvicinamento al regime di Damasco. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, non ha tuttavia nascosto le preoccupazioni di Washington, ammonendo che il nuovo ruolo di Hezbollah avrà delle “conseguenze sui rapporti tra gli USA e il Libano”.

Le dichiarazioni ufficiali della Clinton e di altri diplomatici del Dipartimento di Stato hanno a malapena nascosto i malumori statunitensi per l’avanzata di Hezbollah, un’organizzazione che l’America definisce “terroristica” e per combattere la quale ha contribuito con centinaia di milioni di dollari, destinati al rafforzamento delle forze di sicurezza libanesi.

La partita più importante nelle prossime settimane si giocherà comunque nuovamente attorno alla questione del Tribunale speciale, vero crocevia degli equilibri di potere interni al Libano, così come delle influenze esterne. Quando Hillary Clinton dice di voler attendere i primi atti del governo per esprimere una valutazione, avverte in realtà Mikati ed Hezbollah delle conseguenze delle decisioni che verranno prese a Beirut sul Tribunale. Il neo-premier ha per il momento fatto sapere che la grana dell’STL sarà risolta solo tramite il dialogo, ma è difficile pensare che a breve non arrivi un provvedimento che taglierà i cordoni del governo libanese con l’organo creato dalle Nazioni Unite.

Questo è ciò che da mesi chiede precisamente Hezbollah e l’iniziativa del governo potrebbe giungere con l’adesione alla proposta siriana-saudita. Come ha spiegato lo stesso Mikati, “il tribunale non può essere fermato da una decisione presa in Libano”, ma interrompere la cooperazione libanese con il tribunale è tutta un’altra cosa. Questo è il passo che si chiedeva in definitiva a Saad Hariri e che l’ex premier non ha avuto la forza politica di fare, soprattutto perché neutralizzare l’attività del Tribunale avrebbe tolto a USA e Israele lo strumento principale per avanzare i loro interessi in Libano.

di Luca Mazzucato 

NEW YORK. L'effetto Wikileaks arriva in Medioriente e questa volta è Al Jazeera a lanciare il sasso. L'emittente del Qatar pubblica 1700 documenti segreti sul conflitto israelo-palestinese e l'infinita girandola di negoziati di pace cominciati e poi abbandonati negli ultimi anni dal trio Stati Uniti-ANP-Israele. Portando scompiglio, come c'era da aspettarsi, soprattutto nel campo palestinese, proprio ora che molti Paesi finalmente riconoscono ufficialmente lo Stato Palestinese...

Il Presidente Abbas e il suo team negoziatore, guidato da Saeb Erekat, non ne esce di sicuro a testa alta. Si parla dello stato di Gerusalemme Est, di scambi di terre tra West Bank, Gaza e Israele, di’insediamenti, di quanti profughi del '48 potranno tornare in Israele, insomma di tutti i nodi più scottanti. Abbiamo deciso di raccontare due degli infiniti episodi. Il lettore avido può andare a spulciare l'intero malloppo (tutto in inglese) sul sito web di Al Jazeera.

La rivelazione forse più drammatica riguarda un incontro del Giugno 2008 tra il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, il Ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni e Ahmed Qurei e Saeb Erekat, il primo ministro e il capo negoziatore dell'ANP. In questo incontro, i palestinesi fanno la loro offerta iniziale per aprire le trattative: una storica apertura per la Rice, in pratica una totale capitolazione.  L'ANP offre a Israele l'annessione di tutti gli insediamenti di Gerusalemme Est (tranne Har Homa) e metà della Città Vecchia, senza chiedere nulla in cambio. Una concessione cui Yasser Arafat non si era piegato nemmeno alla fine dei negoziati falliti di Camp David. Come offerta iniziale, nemmeno un turista americano al Bazar del Cairo saprebbe fare di peggio.

La reazione israeliana a quest’apertura senza precedenti è quella di chiedere invece l'annessione di tutte le altre colonie illegali in West Bank. Tanto, ammette il negoziatore israeliano, di lasciare anche un solo quartiere di Gerusalemme Est ai palestinesi nessuno ci pensava nemmeno. Dal canto loro, gli israeliani non hanno alcuna intenzione di abbandonare le colonie, dove vive quasi mezzo milione di persone. Ma lasciare in mani israeliane Ariel e le altre popolose colonie nel cuore della West Bank è un compromesso inaccettabile da parte palestinese: così facendo, l'ANP verrebbe di fatto sbriciolata in un collage di enclavi palestinesi a macchia di leopardo, circondate dal Muro elettrificato. Conclude la Rice alla fine dell'incontro, rivolta ad Ahmed Qurei: “Allora non avrete nessuno Stato!” Infatti, due anni e mezzo son passati e niente si è mosso, mentre le colonie ebraiche continuano a crescere.

Questa rivelazione mette in luce un altro particolare interessante. Ricorderete un anno fa la polemica tra gli Stati Uniti e Israele, quando Netanyahu annunciò la costruzione di 1600 nuove abitazioni in una colonia ebraica a Gerusalemme Est. All'epoca, il vicepresidente americano Joe Biden s'inalberò, condannando fermamente la scelta israeliana perché “metteva in pericolo i negoziati di pace.”

Si scopre ora che la decisione israeliana era stata già concordata con l'ANP, che aveva unilateralmente rinunciato alla sovranità su quella colonia, alla presenza del Segretario di Stato americano, all'epoca Rice. Curioso incidente, che spiega come mai Netanyahu si sia mostrato molto sorpreso della reazione americana. Come ama ripetere in ogni occasione, “costruire a Gerusalemme non è diverso da costruire a Tel Aviv.” Ora sappiamo che anche l'ANP la pensa così.

Un'altra gustosa rivelazione riguarda la famosa “mappa del fazzoletto.” Correva sempre l'anno 2008, in piena luna di miele tra l'allora premier israeliano Olmert e il Presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che s’incontravano con una certa assiduità. Olmert non perdeva occasione per ricordare che l'unico futuro per Israele è nella pace e che il suo governo era persino disposto a scambiare parte del proprio territorio in cambio dell'annessione degli insediamenti ebraici in West Bank.

Dopo l'incontro iniziale, in cui i palestinesi regalavano Gerusalemme Est agli israeliani senza chiedere nulla in cambio, ad un altro incontro Olmert presenta ad Abbas la mappa preparata dai negoziatori israeliani, per i confini definitivi tra Israele e il futuro Stato palestinese. La risposta israeliana all'offerta palestinese. Ovvero l'annessione a Israele di tutti gli insediamenti ebraici in West Bank (circa il 10% dei Territori Occupati), in cambio di un 10% di deserto attorno alla Striscia di Gaza e qualche villaggio arabo-israeliano, di cui peraltro Israele cerca di sbarazzarsi da sessant'anni.

Ma, come un navigato prestigiatore, Olmert non vuole lasciare nessuna copia della mappa ai negoziatori palestinesi. Il povero Abbas si presta all'ennesima umiliazione: né fotocopie, né foto con il cellulare, Olmert è inamovibile. Il Presidente è costretto a prendere una penna e raccogliere un fazzoletto dalla tavola imbandita e vergare uno schizzo della mappa, unica versione che i negoziatori palestinesi avranno a disposizione per studiare la loro controproposta.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy