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di Emanuela Pessina
BERLINO. La Germania riconosce la necessità di bloccare le ingiustizie del dittatore Muammar Gheddafi, ma non ha nessuna intenzione di partecipare alla guerra armata targata NATO contro il Colonnello. È quanto ha ribadito la Cancelliera Angela Merkel (CDU) durante il G8 di Deauville (Nord- Ovest della Francia), suscitando questa volta un certo imbarazzo tra gli alleati. E ancora non è chiaro in che modo le forze occidentali schierate contro Tripoli, in particolare Stati Uniti, Francia e Inghilterra, siano pronte ad accettare il compromesso proposto da Berlino: da atteggiamento di estrema cautela quale si era annunciato, quello della Germania sembra ormai diventato una posizione vera e propria.
Perché, in effetti, a Deauville è successo qualcosa di curioso: Angela Merkel non ha partecipato a un incontro informale che prevedeva la discussione dei dettagli dell’attacco aereo in Libia. O meglio: nel momento in cui Barack Obama, Nikolas Sarkozy e David Cameron, insieme ai capi di governo di Italia e Canada, hanno introdotto l’analisi della strategia del conflitto in essere, a quel punto la Cancelliera avrebbe lasciato la riunione per partecipare a una conferenza stampa di importanza minore.
Una sorta di consiglio di guerra a cinque, quindi, che la Merkel stessa ha riconosciuto il giorno seguente come ufficiale ma riguardo cui ha eluso ogni ulteriore domanda. Il Governo tedesco ha giustificato la questione con parole vaghe: seppur invitata, la Cancelliera non ha preso parte al consiglio perché relativo a una guerra con cui la Germania non ha nulla a che spartire.
Risolute ma vaghe, le spiegazioni offerte dal Governo tedesco non hanno fugato i dubbi sulle ragioni dell’assenza della Merkel dal consiglio. E se la Cancelliera non fosse stata convocata al consiglio di guerra? Fatto sta che le forze occidentali promotrici dell’attacco militare in Libia si sono trovate a margine del G8, in questo mini-vertice a cinque, per discorrere concretamente della strategia d’impiego degli elicotteri da guerra francesi e britannici in Libia. E forse, per quest’occasione, i premier Cameron e Sarkozy hanno preferito tralasciare la Cancelliera tedesca e la sua idea di inasprimento delle sanzioni e del sostegno pacifico delle rivoluzioni in Nord Africa.
In realtà, Angela Merkel non ha fatto altro che ribadire un’astensione - quella di Berlino dalla guerra al dittatore libico - già annunciata a metà marzo dal suo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle (FDP). Due mesi fa la Germania aveva dichiarato di non voler impiegare soldati tedeschi nell’operazione militare in Libia, pur appoggiando pienamente gli alleati contro il rais.
Allora la prudenza del Governo CDU- FDP era stata interpretata come una mossa di pacifismo costruito ad hoc per riguadagnare popolarità in vista degli appuntamenti elettorali che attendevano la Germania: quali siano state le motivazioni, ora ci si rende conto che Berlino è intenzionata a continuare il proprio cammino solitario.
Ma non è tutto. La Merkel ha espresso un parere contrario alla maggioranza degli alleati anche per quel che riguarda il ruolo della Russia nella crisi libica. Durante il G8 di Deauville, la Russia si è detta per la prima volta d’accordo con l’intervento delle forze occidentali contro Tripoli.
Gli Stati Uniti avevano richiesto fin dall’inizio un intervento di Medvedev a mediazione nei rapporti tra Occidente e Gheddafi, e ora il capo del Cremlino ha accettato il ruolo, ammettendo anche la necessità di porre fine alla violenza del regime di Gheddafi. La Merkel, da parte sua, ha badato a ricordare che la Russia non dovrebbe esporsi troppo in questo senso.
Forse il rischio che la Germania si isoli nel panorama delle forze occidentali proprio causa della crisi libica c’è, ma tale probabilità rimane comunque relativamente bassa. L’Europa ha bisogno della Germania per assicurarsi una via d’uscita dalla crisi dell’euro e per i sostegni economici da devolvere al Nord Africa del post- rivoluzione, tra cui ci sono in primis la Tunisia e l’Egitto, così come la Merkel ha bisogno dell’Europa per dare un respiro più ampio alla seppur forte economia del proprio Paese.
L’unica certezza è che una rapida risoluzione della crisi libica toglierebbe parecchio imbarazzo a tutti: contrari o d’accordo con l’intervento militare, probabilmente ciò che tutti si auspicano tutti capi di Stato è una conclusione veloce a una questione spinosa in cui è difficile distinguere giustizia e interessi.
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di mazzetta
Mentre i profughi e i migranti continuano ad arrivare a Lampedusa a centinaia, nel nostro paese si è spenta l'attenzione per la guerra in Libia. Non si gioca più con la paura delle ondate di migranti islamici e l'interesse dei media è calato fin quasi a zero. Nella disattenzione generale la soluzione sul campo evolve lentamente verso quella che sembra un'inevitabile sconfitta di Gheddafi, tanto che la prossima settimana è previsto l'arrivo in Libia del presidente sudafricano Zuma che arriva a porgere a Gheddafi un'offerta d'asilo concertata con la Turchia. Si continua quindi a procedere in ordine sparso, tra le iniziative di alcuni paesi e l'escalation militare sul campo delle potenze occidentali.
Escalation che fin da subito ha tradito il mandato ONU, che prevedeva la protezione della popolazione civile e non il generare una guerra civile che al momento della risoluzione era impossibile per l'inadeguatezza militare dell'opposizione a Gheddafi. Fin da subito si è capito che i ribelli non erano preparati a combattere e, nonostante il genuino entusiasmo di alcuni, non ne avevano neppure tanta voglia.
La ribellione libica è scoppiata sulle ali dell'entusiasmo per le rivoluzioni nei paesi vicini, ma sarebbe finita ben presto senza l'intervento occidentale. Intervento che per ora si è sostanziato in una sequenza d'azioni difficilmente inquadrabili nel mandato ONU. Da una parte c'è stata la corsa al riconoscimento del governo alternativo di Bengasi e dall'altra un'azione volta a porlo come istanza legittimante di una campagna militare sulla quale non ha alcun controllo e che è gestita alternativamente dalla NATO e dai più attivi tra i suoi membri.
Dopo i bombardamenti aerei contro le forze di Gheddafi si è passati velocemente al bombardamento di Gheddafi. I beni del regime depositati in Occidente sono stati congelati e stornati in parte al governo di Bengasi, al quale sono stati forniti aiuti umanitari, “equipaggiamenti militari non letali” (sistemi di comunicazione, divise, mezzi) e addestramento, anche grazie all'impiego di mercenari di compagnie militari private occidentali. Ma tutto questo non è bastato, il governo di Bengasi non riesce a mobilitare una leva militare in grado di fronteggiare le truppe professionali di Gheddafi, nemmeno con il dominio aereo assicurato dall'Alleanza. Così si attendono a giorni alcune squadre di elicotteri da battaglia della NATO, che però hanno qualche problema con quella parte della risoluzione ONU che vieta la fornitura di armi e l'ingresso di truppe straniere nel paese.
Non che la risoluzione abbia ormai alcuna importanza, è stata chiaramente sovvertita e a poco sono valse le proteste di alcuni paesi che pure l'avevano votata, la Russia su tutti. Ma un minimo di decenza bisognerebbe conservarla, visto che poi è lo stesso diritto internazionale che si straccia quello che poi s'invoca per avere mano libera contro i nemici.
Gheddafi è riuscito a sfuggire ai numerosi tentativi d'assassinarlo e ancora oggi non offre segno di voler lasciare il potere e il paese. Ha offerto la cessazione delle ostilità più volte, ma gli hanno risposto che non gli credono, perché è chiaro che se si fermano i combattimenti viene meno la ragione ufficialmente primaria dell'intervento, la protezione dei civili.
Gheddafi non avrà tregua e rischia di non aver nemmeno modo di valutare l'offerta di esilio, dopo che l'inutile procuratore della Tribunale Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha aperto un procedimento contro di lui. Strana corte quella del TPI, dalla sua creazione ha perseguito solo criminali di stato africani e rigettato tutte le denunce contro i paesi “bianchi”, dalla Russia agli Stati Uniti. Tanto che Gheddafi è il primo accusato a non essere di carnagione scurissima.
Nonostante il lento evolvere della situazione il destino del leader libico sembra comunque segnato, ha sempre meno consenso e tra le sue fila aumentano le defezioni di ministri e collaboratori che hanno annusato l'aria e sono passati al nemico. Si può solo sperare che la fine della sua influente presenza in Libia arrivi al più presto, perché fino ad allora in Libia si morirà per nulla e per interessi che difficilmente sono identificabili con quelli del popolo libico.
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di Fabrizio Casari
Sembra ormai che sia proprio lui, il “boia” di Srebrenica, quel vecchio malato catturato dai Servizi di sicurezza serbi a Lazareno, in Vojvodina, vicino al confine romeno. Non ci sono omonimie o errori di persona di qualunque altro genere. Ratko Mladic, comandante in capo degli ottantamila soldati che formavano l’esercito serbo-bosniaco, protagonista macabro insieme a tanti altri serbi, croati e bosniaci della guerra civile nella ex-Jugoslavia, è stato arrestato.
Ricercato per genocidio e crimini contro l’umanità, era inseguito dal 1996. Si nascondeva nel suo paese, quello per il quale aveva prestato servizio sin dai tempi in cui la Jugoslavia era una nazione forte, orgogliosa della sua diversità e della sua storia. Prima di diventare il boia di Srebrenica, Mladic era stato Comandante di brigata nell’Armata Popolare di Jugoslavia, quella fondata dal Maresciallo Tito che riempì di gloria i Balcani nella resistenza ai nazisti, che dai partigiani jugoslavi furono sconfitti.
La guerra nella ex-Jugoslavia venne promossa dalla Slovenia prima e dalla Croazia di Tudjiman poi, alimentata dall’Occidente e benedetta in poche ore dal riconoscimento diplomatico del Vaticano e dell’Austria. E, dopo Zagabria, venne il turno della Bosnia, dove Itzebegovic pensò di modellare su basi etnico-religiose (musulmane) la Bosnia-Erzegovina. La guerra era si contro i serbi, ma anche tra croati e bosniaci e le stragi immonde, come quella della quale furono vittime le popolazioni serbe della Krajina, sono state raccontate sempre con le lenti deformate e il doppiopesismo che contraddistinguono la politica europea e statunitense. Lo stesso avvenne, anni dopo, con Albania e Kossovo.
Aveva solo due anni quando suo padre, partigiano, venne assassinato dagli Ustascia croati, cioè le formazioni naziste croate che superavano le SS tedesche in ferocia durante la Seconda Guerra Mondiale e anche per questo Ratko Mladic non poteva certo crescere senza il peso di quella morte e senza l’odio verso i seguaci di Ante Pavelic. “Mio figlio - disse una volta - fa parte dell’unica generazione di serbi che hanno fatto in tempo a conoscere i loro padri”. In questo senso non si può certo ritenere che vivesse la guerra civile come un dramma, piuttosto come l’occasione di sposare il suo ultranazionalismo con il desiderio di vendetta privata.
La biografia di Mladic racconta di una carriera militare quasi casuale. Nel 1991 venne messo a capo del Nono Corpo d’Armata, schierato a Knin (la Krajina serba in Croazia) contro le forze croate. Successivamente gli venne conferito il comando del Secondo Distretto militare dell’esercito jugoslavo con base a Sarajevo. Ma l’ascesa pubblica avvenne nel 1992, quando l’Assemblea serbo-bosniaca decise la creazione della Repubblica dei Serbi di Bosnia - la Srpska - e di un suo esercito, alla cui testa venne messo proprio Mladic.
In quella guerra Mladic è stato carnefice e vittima al tempo stesso. Carnefice di Srebrenica e di Sarajevo, certo; istigatore e complice delle Tigri di Arkan, i reparti irregolari che si distinsero nella furia contro i musulmani e che fecero quello che l’esercito serbo non poteva fare. Mladic fu invece a suo modo succube della follia di Karadzic, che credeva poter trasformare Pale e Banja Luka in nuove Stalingrado. Non che il militare non credesse alla stessa mission del suo presidente, ma la capacità di analisi politica di Mladic non fu mai celebre: per lui, semplicemente, la Serbia e la sua autorità erano inizio e fine di qualunque ragionamento, di qualunque politica, di qualunque guerra.
Tra il 1995 e il 2003, Ratko Mladic godette della copertura di governo, servizi e popolazione serba. Condusse una vita alla luce del sole. Si sentì protetto da quell’entourage per il quale, in fondo, aveva combattuto e sterminato senza remore. Ma, come si diceva, non è mai stato un genio della politica, il generale e non si è accorto, forse, che i tempi stavano cambiando. La Serbia ha bisogno di uscire dall’isolamento e vuole entrare in Europa. Il chip d’ingresso richiestole è salato: la consegna di Mladic e di Karadzic, insieme ad altre figure minori pur se non meno feroci come Hadzic. E siccome il futuro conta più del passato, Belgrado, compiendo l’ennesima mossa per l'avvicinamento all'Europa, accetta e consegna prima Karadzic e ora Mladic.
La testa di coloro che un tempo furono i leader dei serbi di Bosnia, che Belgrado prima inventò e poi depose senza tanti complimenti, una volta che la loro missione era esaurita, è sembrato essere un prezzo ragionevole per il biglietto d’entrata in Europa. E dunque prima lo psichiatra di Pale, ora il generale, entrambi inseguiti da una taglia di sei milioni di dollari, sono stati consegnati su un piatto d’argento. Manca ancora Goran Hadzic, ma è prevedibile che anche la sua consegna non tarderà ad arrivare nei prossimi mesi. Giusto in tempo, magari, per la riunione del prossimo 10 Ottobre, quando si discuterà dell’ingresso di Belgrado nella Ue.
Carla Del Ponte, il Procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale che incriminò Mladic nel Luglio del 1995, ha accolto la notizia “con soddisfazione”. Ma ora, con il rigore imparziale che le viene riconosciuto, definisce “giusta” anche la rivendicazione della Serbia affinché vengano aperte le indagini per perseguire il leader kossovaro Hashin Thaqi, colpevole con i suoi bravacci dell’espianto di organi a civili serbi, uccisi proprio per favorire il lurido business con cui s’ingrassava l’UCK, la formazione terroristica guidata proprio da Thaqi, detto “il serpente”.
E forse ora, con l’arresto di Mladic, sarà possibile cercare le risposte (ancora ignote) a tante domande, prima tra tutte al perché Itzebegovic e il suo comandante Naser Oric decisero di lasciare Sarajevo al suo destino, evitando accuratamente di correre in aiuto della città assediata. E forse ci sarà modo di accertare le responsabilità dei criminali di guerra bosniaci, tra cui spicca proprio Oric, responsabile di eccidi ai danni dei serbi lungo la Drina (quattromila morti, tra questi 1300 tra civili, donne e bambini) e che mostrava ai giornalisti occidentali i video nei quali i suoi uomini decapitavano i serbi ridendo.
La Bosnia, dove (su richiesta statunitense ai capi dei Mujahidin) combatterono i soldati islamici reclutati in Afghanistan, non ha ancora messo piede con i suoi uomini più significativi al tribunale Penale dell’Aja. Dipenderà dal fatto che ha ottimi rapporti con l’Occidente, Stati Uniti in particolare?
La caduta, come l’ascesa, è stata per Mladic una questione tra serbi: fu Milosevic a inventarlo capo di una parte del suo esercito e sono stati ora i serbi a consegnarlo al Tribunale dell’Aja. Fosse dipeso da europei e americani, Mladic sarebbe ancora a casa. Come già nel Luglio del 1995, alle porte di Srebrenica, quando i Caschi Blu olandesi dell’Onu si girarono dall’altra parte e lasciarono terreno libero al massacro, anche in tutti gli anni seguiti agli accordi di Dayton nessuna forza di polizia europea o statunitense riuscì a prenderlo. I serbi l’avevano eletto a simbolo della loro difesa, i serbi l’hanno eletto a pegno della loro resa. Per l’uomo che fece recapitare dalle duecento alle mille granate al giorno sulla gente di Srebrenica, non è stato necessario nemmeno un colpo di pistola.
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di Giuliano Luongo
Dalla sogghignante soddisfazione che trapela dalle pagine del Wall Street Journal allo stupore più contenuto del moscovita Kommersant, il fiasco della compagine di sedicenti socialisti guidata da Zapatero ha visto salire agli onori della cronaca una nuova interessante prospettiva per una politica di piazza, fuori da schemi rigidi e non rappresentativi della realtà come quello bipartitico. Ad aver attratto le luci della ribalta non è stato solo il fiasco alle urne, ma soprattutto l’avvento del Movimento 15-M o “Indignados”.
Cioè di una massa eterogenea di giovani e meno giovani che, grazie ad un rapido passaparola su internet, si sono riuniti per manifestare alla vigilia delle elezioni e poi a oltranza il loro scontento a 360° non solo verso il governo attuale, ma soprattutto verso il sistema politico in generale e i due maggiori partiti di massa - Socialisti (PSOE) e Popolari (PP). Forti le critiche verso l’azione del governo in carica, ritenuto troppo vicino alle banche e colpevole di aver scaricato la crisi sulle spalle dei giovani e delle famiglie di risparmiatori, tagliando il welfare e appesantendo il gettito fiscale.
Una delle peculiarità del movimento è la sua dichiarata apartiticità: i suoi membri non hanno dato indicazioni di voto, né hanno favorito la nascita di un partito politico proprio foriero delle idee discusse in piazza. Sin dal momento dell’occupazione di Puerta del Sol il movimento ha suggerito - a volte tra le righe, a volte meno (dipende da quale giornale o tiggì riferisse la notizia) - il boicottaggio ai danni dei due grandi partiti politici, visto come l’unica “cura” contro un sistema partitico che porta alla vittoria solo formazioni ancora abbarbicate su posizioni pro-lobbistiche. E’ giusto dunque soffermarsi in attimo più sugli intenti di questa marea di volenterosi, onde evitare di commentare il tutto superficialmente, liquidandoli come i “grillini iberici”.
Gli Indignati hanno pubblicato online (in inglese e nelle varie lingue regionali spagnole) il loro manifesto e una serie di proposte in otto punti, lodevole tentativo di chiarezza. Il tutto è pervaso di un gusto rivoluzionario e di un senso di partecipazione piacevolmente retrò, quello che i sedicenti riformisti contemporanei hanno clamorosamente perso: in esso si afferma che il corrente assetto governativo ed economico del Paese non tiene conto di diritti basilari come quello alla casa, al lavoro, all’educazione, allo sviluppo personale e alla partecipazione politica.
Il sistema bipartitico PSOE-PP sarebbe totalmente disinteressato a tutto ciò, ponendosi come il grande muro dello status quo a difesa delle lobby e degli interessi economici di pochi. Il manifesto prosegue criticando in linea generale il modello economico attuale non solo spagnolo, creatore di disuguaglianze e mirante solo all’accumulazione di denaro e del potere che da esso deriva: in chiusura, si fa un accorato appello ad una “rivoluzione etica” che porti all’uscita di questo sistema che fa gli interessi di pochi a scapito delle masse dei semplici cittadini, che vengono ridotti a meri “oggetti economici”.
Le proposte sono in otto punti, dalla politica economica alla gestione della pubblica amministrazione fino alle libertà civili. Volendone riportare gli highligts, vediamo che viene proposto uno stretto controllo sull’assenteismo e la pubblicazione degli stipendi di chi ricopre un incarico pubblico, accanto all’eliminazione dell’immunità per chi svolge incarichi di rilievo e la soppressione dei privilegi fiscali per gli eletti. In tema di lavoro, si propongono vantaggi alle imprese con meno del 10% dei dipendenti a progetto, la redistribuzione delle ore di lavoro per assorbire disoccupati, licenziamento solo con giusta causa e in pensione a 65 anni.
Ci sono anche note interessanti sulle banche: niente salvataggi, chi toppa o fallisce o viene nazionalizzato per divenire banca pubblica sotto controllo sociale (punto interessante, purtroppo ancora embrionale), divieto di usufruire dei paradisi fiscali. Si parla di riduzione delle spese militari (senza definire il quibus), maggiori imposte per grandi capitali e banche, introduzione della discussa Tobin Tax e tagliare gli sprechi della PA.
A livello elettorale i voli pindarici aumentano: si propone - giustamente - un sistema più proiettivo (del quale non si danno alcuni dettagli), per poi chiedere una rappresentanza assembleare per gli astenuti e “un sistema che garantisca democrazia interna ai partiti”. Si chiede un maggiore uso del referendum, che diverrebbe obbligatorio per l’applicazione di ogni norma europea.
Dunque, diciamocelo: checché ne dicano gli stessi fondatori, il movimento segue una linea ideologica ben chiara, con la speranza di far sì che si concretizzi una risposta politica alle richieste della popolazione onde mandare a casa non solo gli attuali governanti - rei di essere dei socialisti di carta - ma anche in grado di contenere eventuali altre spinte al conservatorismo. Il movimento, la gente, vuole che qualcuno non solo “dica qualcosa di sinistra” ma, a differenza di Zapatero, lo faccia anche.
Dopo due legislazioni con i conservatori al comando, il fiasco dei socialisti è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza degli elettori, giovani e meno giovani, che si sono decisi a spingere con la forza delle idee la coscienza del Paese e dei suoi politici verso una società meno “economica” e più umana, più al servizio della gente. Di contro, alcune proposte non hanno una base definita, con il rischio di sembrare, se non divenire, fuffa.
E dunque, quali saranno i risultati politici di questo movimento? Far vincere i conservatori? Detto così sembra un controsenso, ma è quello che succederà a breve se il trend non si concretizzerà in una proposta politica che riesca a superare le barriere imposte dal sistema attuale. Visto che il cambiamento verso un sistema elettorale meno bipartitico sarà difficilmente fatto da chi è al potere oggi, bisogna riuscire a vincere con le regole del gioco attuali.
Purtroppo per fare questo serve un partito nuovo, partendo dall’assunto pessimistico-realista che con PSOE e PP c’è ben poco da fare: allo stato attuale delle cose, è più che plausibile che numerosi partiti progressisti minori assorbiranno i voti degli indignati, finendo di fatto per sprecarli.
Le recenti amministrative hanno mostrato che il deflusso verso partiti minori più sulle posizioni degli indignati è stato minimo, con risultati degni di Rutelli. Di contro, il PP ha mantenuto i suoi voti: il suo è un elettorato che di certo non vede di buon occhio i movimenti di piazza, e in più, temendo una radicalizzazione del conflitto sociale e derive riformiste eccessive, potrebbe impegnarsi ancor più nel sostegno alla formazione dell’ultraconservatore Rajoy.
In un modo o nell’altro, i rischi di clamorosa autorete sono più che tangibili. Ora come ora, a fronte anche della tentata espansione in altri paesi, bisognerà vedere come e quanto velocemente gli indignati sapranno dare un senso più organizzato alla propria azione. Un’espansione a macchia d’olio del movimento potrebbe davvero portare ottimi risultati per la presa di coscienza di cittadini e politici, ma per ora abbiamo solo degli extraparlamentari volenterosi. Dunque, restiamo con i piedi per terra - e il sedere in piazza - e lavoriamoci su. Forse qualcosa si può fare.
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di Michele Paris
Da qualche tempo gli Stati Uniti stanno facendo enormi pressioni sul governo dell’Iraq per cercare di mantenere una presenza consistente di proprie truppe in questo paese oltre il 31 dicembre prossimo. Lo spostamento della data fissata bilateralmente per il ritiro di tutti i soldati americani potrebbe tuttavia creare non pochi problemi al governo del premier Maliki e minacciare la stabilità stessa del paese. Con l’avanzata delle proteste nel mondo arabo, da Washington sembrano in ogni caso pronti ad accettare il rischio pur di avanzare i propri interessi strategici nella regione mediorientale.
Secondo l’accordo firmato con il governo di Baghdad dal presidente Bush nel novembre 2008, tutte le truppe statunitensi sul suolo iracheno dovranno ritirarsi entro la fine dell’anno 2011. Attualmente, in Iraq sono presenti poco meno di 50 mila soldati occupanti. Nonostante Barack Obama nell’agosto scorso dichiarò ufficialmente concluse le operazioni di combattimento, la svolta è stata puramente di facciata e gli americani continuano a mantenere numerose basi militari nel paese.
Ad alzare la voce a Washington negli ultimi giorni è stato il Segretario alla Difesa uscente, Robert Gates, destinato il 30 giugno prossimo a lasciare l’incarico affidatogli da George W. Bush nel 2006 al direttore della CIA, Leon Panetta. In una conferenza presso il think tank conservatore "American Enterprise Institute", il numero uno del Pentagono ha sostenuto chiaramente la volontà del proprio governo di continuare a mantenere un contingente militare in Iraq ben oltre il 31 dicembre 2011.
Ciò che spinge gli americani a volere rimanere, a detta di Gates, è l’incapacità dei militari iracheni a difendere da soli il paese. L’esercito locale sarebbe sprovvisto degli strumenti logistici e di intelligence necessari a far fronte alle minacce interne ed esterne. Le carenze dell’Iraq sono peraltro la diretta conseguenza dell’invasione illegale degli Stati Uniti nel 2003 e della successiva incapacità degli occupanti di costruire una struttura statale e di difesa autonoma ed efficace. Ciò corrisponde d’altra parte alla strategia americana che punta precisamente su una controparte irachena debole per giustificare la propria permanenza nel paese.
Le dichiarazioni di Gates sono solo l’ultimo di una serie di interventi dei vertici politici e militari americani sul governo di Maliki per convincerlo a richiedere in maniera formale il prolungamento della scadenza del 31 dicembre. Lo stesso Segretario alla Difesa e il Capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, erano stati a Baghdad lo scorso mese di aprile per premere sul primo ministro, così come hanno fatto altri esponenti di spicco del Dipartimento di Stato inviati nelle ultime settimane a Baghdad.
A oltre otto anni dall’invasione dell’Iraq, l’atteggiamento americano rivela ancora una volta le ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti a rovesciare il regime di Saddam Hussein. Nel suo intervento all’American Enterprise Institute, Gates ha affermato che la permanenza di truppe USA in Iraq manderebbe un segnale forte a tutta la regione. Un segnale rassicurante per le monarchie dittatoriali del Golfo - impegnate nella repressione del dissenso interno con l’avallo di Washington - e, al contrario, ben poco incoraggiante per l’Iran, con cui si getterebbero le basi per un ulteriore inasprimento dei rapporti.
Un’avventura bellica intrapresa per impedire il proliferare d’inesistenti armi di distruzione di massa e per portare la democrazia viene dunque ora prolungata a oltranza per consentire il controllo da parte americana del quarto paese del pianeta per riserve petrolifere accertate. Il diffondersi delle inquietudini nei paesi arabi rende poi ancora più urgenti le necessità strategiche americane di continuare ad esercitare la propria influenza in un Medio Oriente in pieno fermento.
Chiedere ai vertici militari degli Stati Uniti di rimanere nel paese indefinitamente è in ogni caso una decisione a dir poco complicata per Maliki, dal momento che l’occupazione americana è comprensibilmente avversata dalla stragrande maggioranza degli iracheni. In suo soccorso potrebbe però giungere un imminente rapporto sulle condizioni delle forze armate locali stilato dai comandanti militari, i quali hanno ottenuto i loro incarichi proprio grazie agli Stati Uniti. Secondo quanto scritto dalla Reuters un paio di giorni fa, il quadro dipinto dai generali iracheni sarebbe quello di un esercito impreparato a difendere il paese e a contrastare eventuali attacchi degli “insorti”.
Se questa relazione potrebbe fornire al premier Maliki l’assist per chiedere la permanenza delle truppe USA, la questione rimane comunque estremamente delicata. Tant’è vero che lo stesso Maliki aveva sempre respinto fermamente ogni ipotesi di prolungamento del trattato con Washington. Dietro insistenza americana, il primo ministro solo recentemente ha mostrato maggiore disponibilità, vincolando però la decisione ad un accordo da cercare con la maggioranza delle forze politiche irachene.
Sempre il Segretario Gates ha apertamente ammesso di perseguire una politica rischiosa per la stabilità del paese e che va contro i sentimenti della popolazione irachena. Per Gates, infatti, “prolungare l’occupazione americana è una sfida politica perché, che ci piaccia o meno, non siamo molto popolari in Iraq”. Alla luce della distruzione della società irachena dopo l’invasione del 2003, della morte di oltre un milione di persone e di un’occupazione senza fine in vista, l’analisi del capo del Pentagono risulta facilmente condivisibile.
All’interno del gabinetto di Maliki le resistenze maggiori sono quelle dei sadristi di Muqtada al-Sadr che continuano a mettere in guardia da un allungamento dei tempi per il ritiro delle forze americane. Le loro minacce risultano particolarmente preoccupanti, visto che il secondo governo Maliki è potuto nascere solo grazie al supporto dei trenta parlamentari sadristi dopo uno stallo durato nove mesi in seguito alle elezioni del marzo 2010. In questo scenario, è facile prevedere che un accordo tra Maliki e gli americani provocherebbe una rapida caduta del governo a Baghdad e una nuova escalation di violenze nel paese.
I sadristi e il loro “esercito di Mahdi” condussero già una lotta armata contro gli statunitensi nel 2004 e oggi possono contare su un vasto seguito tra gli sciiti più poveri residenti a Baghdad e nel sud dell’Iraq. Le sole voci di una possibile permanenza nel paese di truppe americane dopo la fine dell’anno hanno causato negli ultimi mesi un intensificarsi degli attacchi contro i soldati occupanti.
Contro l’occupazione non mancano poi anche accese manifestazioni di protesta, come quella andata in scena proprio giovedì a Baghdad e a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. Sciiti dei quartieri più disagiati e sostenitori di Muqtada al-Sadr hanno sfilato per le strade della capitale calpestando e bruciando bandiere americane e di Israele. Un messaggio chiaro quello lanciato dai partner di governo di Maliki e con il quale il premier iracheno dovrà fare i conti se deciderà di assecondare i progetti di Washington per il futuro del suo paese.