di Fabrizio Casari

Sembra ormai che sia proprio lui, il “boia” di Srebrenica, quel vecchio malato catturato dai Servizi di sicurezza serbi a Lazareno, in Vojvodina, vicino al confine romeno. Non ci sono omonimie o errori di persona di qualunque altro genere. Ratko Mladic, comandante in capo degli ottantamila soldati che formavano l’esercito serbo-bosniaco, protagonista macabro insieme a tanti altri serbi, croati e bosniaci della guerra civile nella ex-Jugoslavia, è stato arrestato.

Ricercato per genocidio e crimini contro l’umanità, era inseguito dal 1996. Si nascondeva nel suo paese, quello per il quale aveva prestato servizio sin dai tempi in cui la Jugoslavia era una nazione forte, orgogliosa della sua diversità e della sua storia. Prima di diventare il boia di Srebrenica, Mladic era stato Comandante di brigata nell’Armata Popolare di Jugoslavia, quella fondata dal Maresciallo Tito che riempì di gloria i Balcani nella resistenza ai nazisti, che dai partigiani jugoslavi furono sconfitti.

La guerra nella ex-Jugoslavia venne promossa dalla Slovenia prima e dalla Croazia di Tudjiman poi, alimentata dall’Occidente e benedetta in poche ore dal riconoscimento diplomatico del Vaticano e dell’Austria. E, dopo Zagabria, venne il turno della Bosnia, dove Itzebegovic pensò di modellare su basi etnico-religiose (musulmane) la Bosnia-Erzegovina. La guerra era si contro i serbi, ma anche tra croati e bosniaci e le stragi immonde, come quella della quale furono vittime le popolazioni serbe della Krajina, sono state raccontate sempre con le lenti deformate e il doppiopesismo che contraddistinguono la politica europea e statunitense. Lo stesso avvenne, anni dopo, con Albania e Kossovo.

Aveva solo due anni quando suo padre, partigiano, venne assassinato dagli Ustascia croati, cioè le formazioni naziste croate che superavano le SS tedesche in ferocia durante la Seconda Guerra Mondiale e anche per questo Ratko Mladic non poteva certo crescere senza il peso di quella morte e senza l’odio verso i seguaci di Ante Pavelic. “Mio figlio - disse una volta - fa parte dell’unica generazione di serbi che hanno fatto in tempo a conoscere i loro padri”. In questo senso non si può certo ritenere che vivesse la guerra civile come un dramma, piuttosto come l’occasione di sposare il suo ultranazionalismo con il desiderio di vendetta privata.

La biografia di Mladic racconta di una carriera militare quasi casuale. Nel 1991 venne messo a capo del Nono Corpo d’Armata, schierato a Knin (la Krajina serba in Croazia) contro le forze croate. Successivamente gli venne conferito il comando del Secondo Distretto militare dell’esercito jugoslavo con base a Sarajevo. Ma l’ascesa pubblica avvenne nel 1992, quando l’Assemblea serbo-bosniaca decise la creazione della Repubblica dei Serbi di Bosnia - la Srpska - e di un suo esercito, alla cui testa venne messo proprio Mladic.

In quella guerra Mladic è stato carnefice e vittima al tempo stesso. Carnefice di Srebrenica e di Sarajevo, certo; istigatore e complice delle Tigri di Arkan, i reparti irregolari che si distinsero nella furia contro i musulmani e che fecero quello che l’esercito serbo non poteva fare. Mladic fu invece a suo modo succube della follia di Karadzic, che credeva poter trasformare Pale e Banja Luka in nuove Stalingrado. Non che il militare non credesse alla stessa mission del suo presidente, ma la capacità di analisi politica di Mladic non fu mai celebre: per lui, semplicemente, la Serbia e la sua autorità erano inizio e fine di qualunque ragionamento, di qualunque politica, di qualunque guerra.

Tra il 1995 e il 2003, Ratko Mladic godette della copertura di governo, servizi e popolazione serba. Condusse una vita alla luce del sole. Si sentì protetto da quell’entourage per il quale, in fondo, aveva combattuto e sterminato senza remore. Ma, come si diceva, non è mai stato un genio della politica, il generale e non si è accorto, forse, che i tempi stavano cambiando. La Serbia ha bisogno di uscire dall’isolamento e vuole entrare in Europa. Il chip d’ingresso richiestole è salato: la consegna di Mladic e di Karadzic, insieme ad altre figure minori pur se non meno feroci come Hadzic. E siccome il futuro conta più del passato, Belgrado, compiendo l’ennesima mossa per l'avvicinamento all'Europa, accetta e consegna prima Karadzic e ora Mladic.

La testa di coloro che un tempo furono i leader dei serbi di Bosnia, che Belgrado prima inventò e poi depose senza tanti complimenti, una volta che la loro missione era esaurita, è sembrato essere un prezzo ragionevole per il biglietto d’entrata in Europa. E dunque prima lo psichiatra di Pale, ora il generale, entrambi inseguiti da una taglia di sei milioni di dollari, sono stati consegnati su un piatto d’argento. Manca ancora Goran Hadzic, ma è prevedibile che anche la sua consegna non tarderà ad arrivare nei prossimi mesi. Giusto in tempo, magari, per la riunione del prossimo 10 Ottobre, quando si discuterà dell’ingresso di Belgrado nella Ue.

Carla Del Ponte, il Procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale che incriminò Mladic nel Luglio del 1995, ha accolto la notizia “con soddisfazione”.  Ma ora, con il rigore imparziale che le viene riconosciuto,  definisce “giusta” anche la rivendicazione della Serbia affinché vengano aperte le indagini per perseguire il leader kossovaro Hashin Thaqi, colpevole con i suoi bravacci dell’espianto di organi a civili serbi, uccisi proprio per favorire il lurido business con cui s’ingrassava l’UCK, la formazione terroristica guidata proprio da Thaqi, detto “il serpente”.

E forse ora, con l’arresto di Mladic, sarà possibile cercare le risposte (ancora ignote) a tante domande, prima tra tutte al perché Itzebegovic e il suo comandante Naser Oric decisero di lasciare Sarajevo al suo destino, evitando accuratamente di correre in aiuto della città assediata. E forse ci sarà modo di accertare le responsabilità dei criminali di guerra bosniaci, tra cui spicca proprio Oric, responsabile di eccidi ai danni dei serbi lungo la Drina (quattromila morti, tra questi 1300 tra civili, donne e bambini) e che mostrava ai giornalisti occidentali i video nei quali i suoi uomini decapitavano i serbi ridendo.

La Bosnia, dove (su richiesta statunitense ai capi dei Mujahidin) combatterono i soldati islamici reclutati in Afghanistan, non ha ancora messo piede con i suoi uomini più significativi al tribunale Penale dell’Aja. Dipenderà dal fatto che ha ottimi rapporti con l’Occidente, Stati Uniti in particolare?

La caduta, come l’ascesa, è stata per Mladic una questione tra serbi: fu Milosevic a inventarlo capo di una parte del suo esercito e sono stati ora i serbi a consegnarlo al Tribunale dell’Aja. Fosse dipeso da europei e americani, Mladic sarebbe ancora a casa. Come già nel Luglio del 1995, alle porte di Srebrenica, quando i Caschi Blu olandesi dell’Onu si girarono dall’altra parte e lasciarono terreno libero al massacro, anche in tutti gli anni seguiti agli accordi di Dayton nessuna forza di polizia europea o statunitense riuscì a prenderlo. I serbi l’avevano eletto a simbolo della loro difesa, i serbi l’hanno eletto a pegno della loro resa. Per l’uomo che fece recapitare dalle duecento alle mille granate al giorno sulla gente di Srebrenica, non è stato necessario nemmeno un colpo di pistola.

 

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