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di mazzetta
I militari americani e le aziende che li riforniscono del necessario hanno seri problemi nel mantenere i loro budget ai livelli stratosferici raggiunti durante l'amministrazione Bush. La realtà sul campo rende evidente che gli Stati Uniti non hanno bisogno di grandi e sofisticati sistemi d'arma in teatri come l'Iraq o l'Afghanistan, dove i militari si sono innamorati dei droni che hanno il terribile difetto di costare poco in confronto a un moderno aereo multiruolo o a navi che sembrano uscite dai fumetti.
Molti sistemi d'arma possono essere giustificati solo con la presenza di una minaccia bellico-tecnologica adeguata e quella “islamica” proprio non è sufficiente a giustificare le spese stellari in certi casi. I paesi islamici più dotati militarmente hanno armi fornite dagli USA e il povero Iran è del tutto privo di aviazione militare e di una marina da guerra minimamente credibile, quanto le sue sopravvalutate capacità missilistiche non riescono a giustificare la costruzione di uno scudo che protegga l'Europa da vettori persiani.
Non si possono giustificare gli investimenti in aerei da combattimento quando la supremazia aerea è già incontrastata e nulla, nemmeno nell'orizzonte di decenni, sembra insidiarla. Non si possono chiedere navi fantascientifiche quando già non esistono marine da guerra capaci di mettere indubbio il dominio assoluto di tutti i mari. Le marine da guerra più capaci hanno qualche decina di navi da guerra, gli Stati Uniti ne possiedono centinaia, tra le quali le più grandi e le più potenti di ogni classe.
Così non resta che la minaccia cinese. E se i cinesi non sono militarmente credibili per il ruolo, si può sempre contare sulla diffusa percezione del grande avanzamento e della grande espansione commerciale della Cina tra le opinioni pubbliche occidentali e collegarla a un'analoga volontà d'espansione militare. La costruzione della “minaccia cinese” intesa come minaccia commerciale, del tutto simile alla vecchia “minaccia giapponese” degli anni '80 che ci avvertiva che i giapponesi ci avrebbero comprati tutti, è già in marcia da tempo.
Un esempio di quest’approccio si ritrova nella ricorrente accusa di voler colonizzare l'Africa, scaturita dal grande successo dei cinesi nel continente, ma del tutto priva di fondamento visto che i cinesi non mandano soldati in Africa e non sembrano ingerire negli affari dei terrificanti governi africani, per lo più al potere con il sostegno di quelli occidentali di riferimento.
I cinesi investono poco in armi, il loro budget aumenta nel tempo, ma sono inferiori a quelle dell'India e rappresentano solo una frazione della spesa corrente americana; qualche decina di miliardi di dollari all'anno contro le centinaia degli statunitensi, al netto delle spese per le guerre in corso.
I cinesi tra un po' avranno la loro prima portaerei, a gasolio. Inutile dire che non è paragonabile a quelle americane a propulsione nucleare, così come i “moderni” sottomarini a gasolio che hanno comprato dalla Germania hanno poco a che fare con i mostri atomici degli americani o dei russi. I russi, con i quali è tramontata qualsiasi ipotesi di confronto militare, sono ancora l'avversario più dotato, ma molto più lontano di un tempo dalle dotazioni americane.
I russi vendono ai cinesi aerei e motori già vecchi in confronto a quelli americani, i cinesi ci lavorano su e appena presentano un aereo modesto che entrerà in produzione tra qualche anno, ne parlano tutti i giornali del mondo. L'aviazione cinese ha le sue armi più terribili negli aerei russi, ma manca ad esempio della capacità di agire a lungo raggio perché non ha mezzi per il rifornimento in volo e negli ultimi anni non ha comprato dai russi a causa di un contenzioso su una vecchia fornitura che i cinesi hanno contestato.
Anche il lancio di un missile cinese contro un satellite ha destato grande scalpore, ma poi sono gli stessi americani a dire che una cosa è colpire un bersaglio fermo e un'altra un satellite che può essere spostato senza troppi patemi in caso d'attacco. Pare che lo stato dell'arte non lo consenta nemmeno agli americani.
Ma tutto ciò importa poco; a Washington giungono di continuo rapporti che raccontano del timore dei cari alleati alla vista dell'aumento delle spese militari cinesi e vanno ad auto-alimentare un circuito poco virtuoso destinato a tener desta l'attenzione anche di questi fantastici stati-cliente ai quali gli Stati Uniti vendono di tutto. Giappone, Corea, India, Australia, Indonesia e altri fino al Pakistan sono armati dagli USA per “contenere” la Cina, circondandola con armi che per i cinesi sono ancora fantascienza.
Purtroppo per i volenterosi lobbysti e per i generali che poi entreranno nei consigli di amministrazione delle aziende che li pagano, c'è la crisi. Sono finiti i tempi nei quali Bush, in nome della guerra santa, poteva spendere quel che voleva e provare persino la grande truffa dell'ombrello antimissile. Nemmeno con la minaccia cinese riescono però a mantenere i vecchi livelli di spesa, ma forse è già un successo il riuscire a limitare un'inversione di tendenza inevitabile quanto per ora modesta.
Senza neppure la minaccia cinese gli americani potrebbero permettersi, per qualche anno almeno, di non spendere un dollaro in molti sistemi d'arma, senza alcun indebolimento della loro supremazia militare su ogni teatro.
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di Michele Paris
Il moribondo movimento sindacale degli Stati Uniti ha visto negli ultimi giorni un improvviso risveglio, in seguito ad una serie di manifestazioni contro gli attacchi ai diritti e agli stipendi degli impiegati pubblici che dal Wisconsin si stanno rapidamente espandendo ad altri stati americani. Il motivo scatenante la protesta è la legge di bilancio presentata dal governatore repubblicano Scott Walker, deciso ad ottenere dai dipendenti dello stato le stesse concessioni a cui i lavoratori del settore privato hanno dovuto acconsentire per pagare le conseguenze di una crisi che nessuno di loro ha contribuito a provocare.
Praticamente tutti gli stati americani si trovano oggi a dover fare i conti con enormi deficit di bilancio che già hanno portato all’adozione di drastiche misure per ridurre la spesa pubblica, con gravi conseguenze come la chiusura di scuole e ospedali, la soppressione di programmi di assistenza sociale e licenziamenti di massa. Se pure il Wisconsin non presenta una situazione dei propri conti così drammatica come quella di altri stati - come California, Illinois o New York - il neo-governatore Walker si è dimostrato pronto a tutto per chiudere a suo modo un buco di circa 3,6 miliardi di dollari previsto per il prossimo biennio.
Le misure in attesa di approvazione prevedono, tra l’altro, un maggiore contributo da parte dei dipendenti pubblici ai loro piani sanitari e previdenziali. Un incremento che andrebbe ad intaccare direttamente le buste paga, concretizzandosi in una riduzione effettiva di circa il venti per cento dello stipendio netto, il tutto a fronte dei sacrifici già richiesti più volte negli ultimi due anni. Inoltre, Walker e i repubblicani, che controllano entrambi i rami del parlamento locale del Wisconsin, intendono portare attacchi diretti al diritto di associazione dei lavoratori statali.
Tra le iniziative in discussione ci sono l’abolizione pressoché totale della contrattazione collettiva, tranne che sulle questioni riguardanti l’adeguamento delle retribuzioni, l’obbligatorietà di ripetere annualmente le elezioni per le rappresentanze sindacali, l’assegnazione di poteri straordinari al governatore per porre fine agli scioperi dichiarando lo stato di emergenza e la proibizione ad alcune categorie di lavoratori di aderire ai sindacati. Ciò che soprattutto preoccupa le varie sigle sindacali é però la fine della raccolta automatica dei contribuiti a loro destinati tramite le detrazioni in busta paga. Un sistema che verrebbe sostituito da contributi volontari e che, con ogni probabilità, ridurrebbe drasticamente la fonte principale delle loro entrate.
Di fronte a tali assalti, sono scattate proteste spontanee, con migliaia di dipendenti pubblici che hanno invaso pacificamente la sede del Congresso statale del Wisconsin, nella capitale Madison, dove tra l’altro i senatori democratici da giorni non si presentano in aula, facendo mancare il numero legale necessario al voto sui provvedimenti voluti dal governatore Walker. Le manifestazioni hanno immediatamente raccolto l’appoggio di molti lavoratori del settore privato, mentre iniziative simili sono andate in scena in stati anche molto lontani, come Maryland, Nevada, New Hampshire, Washington e West Virginia, dove la scure dei falchi del deficit si sta abbattendo allo stesso modo.
Il conflitto sociale riesploso negli Stati Uniti, in seguito al radicalizzarsi dell’offensiva della classe politica - repubblicana e democratica - contro i diritti e le condizioni di vita dei lavoratori, giunge dopo decenni di sporadiche mobilitazioni che hanno segnato il mondo lavoro in questo paese a partire almeno dalla durissima soppressione dello sciopero dei controllori di volo (PATCO) nel 1981 da parte dell’amministrazione Reagan. Uno scenario, quello americano, che ha di fatto causato il progressivo allargamento delle disuguaglianze sociali e l’impoverimento di ampi strati di lavoratori.
Se le associazioni sindacali americane possono contare oggi su un misero 6,9 per cento di aderenti nel settore privato, contro il 36 per cento a metà degli anni Cinquanta, le ragioni vanno ricercate principalmente nel loro stesso ruolo svolto per soffocare le rivendicazioni dei lavoratori e assicurare il sostegno alle condizioni imposte dal capitale. La trasformazione dei sindacati in enormi macchine burocratiche interessate quasi esclusivamente alla loro sopravvivenza, di fronte ad una classe di lavoratori che ha visto perdere a poco a poco i diritti faticosamente conquistati in decenni di lotte, spiega anche la diffusa ostilità nei loro confronti in buona parte della popolazione americana.
La difesa dei loro privilegi è apparsa in tutta evidenza proprio nel corso delle proteste del Wisconsin. I sindacati maggiormente coinvolti nella mobilitazione - il Wisconsin Education Association Council (WEAC) e la sezione locale dell’American Federation of State, County and Municipal Employee (AFSCME) - dopo aver chiesto lo scorso fine settimana ai propri affiliati di interrompere le manifestazioni di protesta, hanno fatto intendere chiaramente di essere disposti a dare il via libera ai tagli agli stipendi dei lavoratori, pur di salvaguardare il diritto alla contrattazione collettiva.
Quest’ultima rivendicazione appare peraltro del tutto priva di significato, dal momento che il ruolo del sindacato nelle negoziazioni non è servito ad altro che a far accettare ogni imposizione proveniente dai vertici delle aziende, annullando le resistenze dei lavoratori stessi e trasformando la contrattazione collettiva in una farsa. Ciò sta portando alla luce una sostanziale divergenza d’interessi tra le organizzazioni sindacali e i lavoratori che dovrebbero teoricamente rappresentare. Ciononostante, è comunque evidente come sia del tutto legittima la lotta per la salvaguardia della contrattazione collettiva da parte dei dipendenti pubblici del Wisconsin, ai quali la scelta dei loro rappresentanti non può essere imposta da politici ultraconservatori.
Praticamente identica a quella della burocrazia sindacale è stata poi la reazione alle manifestazioni da parte del Partito Democratico. I democratici hanno cioè criticato l’atteggiamento anti-sindacale del governatore Walker, pur elogiando più o meno apertamente la sua volontà di ridurre il deficit statale tramite misure draconiane. L’intervento dello stesso presidente Obama - il cui recente bilancio federale non a caso prevede ugualmente una serie di pesanti tagli alla spesa pubblica - mira a difendere la posizione di privilegio dei sindacati al tavolo delle trattative con le aziende.
Una battaglia irrinunciabile per i democratici, non tanto per tutelare i lavoratori quanto per assicurare la sopravvivenza di organizzazioni sindacali che rappresentano fonti di finanziamento importanti durante le campagne elettorali e che svolgono un ruolo fondamentale nel reprimere le rivendicazioni dei lavoratori, così da poter perseguire quasi senza opposizione politiche che beneficiano unicamente i grandi interessi economici e finanziari del paese.
Per raggiungere il proprio scopo, Partito Democratico e sindacati intendono perciò convincere i repubblicani del Wisconsin ad abbandonare i provvedimenti relativi allo smantellamento della contrattazione collettiva, in modo da far passare per una vittoria dei lavoratori un compromesso che preveda “soltanto” un taglio pari a non meno di un quinto delle loro retribuzioni.
La tesi principale che i politici di entrambi gli schieramenti e i media istituzionali cercano di promuovere è d’altra parte quella della necessità di porre fine a “privilegi” di cui godrebbero i lavoratori pubblici, causando pesanti buchi di bilancio alle casse statali. Così, il governatore del New Jersey, il repubblicano Chris Christie, nel presentare a sua volta un bilancio che prevede tagli agli stipendi per finanziare un programma di detrazioni fiscali, ha recentemente definito i lavoratori statali come una specie di “casta” che può contare su benefit e impieghi stabili, ormai una rarità nel settore privato. Come se ciò fosse realmente un privilegio e lo standard per tutti sia destinato a diventare, piuttosto, precarietà e impoverimento.
A questo gioco al ribasso, per cui tutti i lavoratori - pubblici e privati - sembrano dover diventare un’unica classe senza diritti, contribuiscono però anche i governatori democratici, come dimostrano i severi bilanci presentati, ad esempio, da Jerry Brown in California e da Andrew Cuomo nello stato di New York. In una situazione di questo genere, gli scontri e le proteste sono destinate allora a crescere ben presto in tutti gli USA. In pochi giorni, infatti, dal Wisconsin le manifestazioni e le occupazioni dei parlamenti locali si sono diffuse ai vicini Ohio e Indiana, dove sono in discussione identiche leggi di bilancio infarcite di tagli indiscriminati e gravi minacce ai diritti di tutti i lavoratori.
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di Michele Paris
Mentre il vento della rivolta continua a soffiare su tutto il Nord-Africa e il Medio Oriente, la risposta più dura alle richieste di libertà e giustizia sociale provenienti da popolazioni impoverite sta giungendo da quello che resta del regime di Muammar Gheddafi in Libia. Il “leader” ha definito, in una fugace apparizione televisiva, “drogati e ratti” i manifestanti, chiarendo che la repressione sarà ancora maggiore e che, comunque, di fuga non se ne parla: lui morirà in Libia.
I bombardamenti aerei sui manifestanti e lo spiegamento di squadre di mercenari per le strade hanno già provocato centinaia di vittime, rivelando al tempo stesso la disperazione e la volontà del dittatore libico di impiegare qualsiasi mezzo per rimanere al potere. Con un altro autocrate arabo potenzialmente vicino alla fine, i governi occidentali, nonostante le dichiarazioni ufficiali, si trovano di nuovo a fronteggiare con estremo timore la perdita di un regime con il quale condividono profondi legami economici e interessi strategici.
Le parole di Gheddafi confermano quanto si attendeva: la minaccia del pugno di ferro contro i rivoltosi era infatti già stata prospettata la scorsa domenica dal figlio del rais, Seif al-Islam, in una confusa apparizione televisiva che indicava la guerra civile come conseguenza inevitabile delle proteste di piazza. Un breve discorso dello stesso Gheddafi nella notte tra lunedì e martedì aveva smentito poi ogni voce sulla sua possibile fuga in Venezuela. L’irrigidimento del regime si è manifestato così con le identiche tattiche che già avevano caratterizzato le fasi iniziali dell’insurrezione in Egitto e che il presidente Saleh continua ad impiegare in Yemen, mandando nelle piazze gruppi armati di sostenitori del governo che attaccano in maniera violenta gli oppositori.
A detta di testimoni libici citati dalla stampa internazionale, da giorni infatti, in una base aerea di Tripoli, starebbero sbarcando centinaia di mercenari provenienti da vari paesi africani per contribuire alla durissima repressione in corso. Di fronte alla strage messa in atto da Gheddafi, sembrano però emergere divisioni all’interno del regime. Oltre ai più volte citati aerei libici atterrati a Malta, dopo che i piloti si erano rifiutati di sparare sulla folla, membri del governo, ufficiali dell’esercito e una schiera di diplomatici nelle ultime ore hanno abbandonato i propri incarichi in segno di protesta.
Secondo un giornale vicino alla famiglia Gheddafi, ad esempio, il ministro della Giustizia, Mustafa Abud al-Jeleil, avrebbe rassegnato le dimissioni. Lo stesso avrebbe fatto uno dei più anziani ufficiali libici, il colonnello Abdel Fattah Younes, di stanza a Bengasi, mentre Gheddafi ha messo agli arresti domiciliari il generale Abu Bakr Younes, accusato di aver disobbedito all’ordine di usare la forza per disperdere le proteste in svariate città. I delegati della Libia all’ONU hanno poi rinunciato alle loro funzioni, chiedendo a Gheddafi di andarsene, così come il rappresentante di Tripoli presso la Lega Araba, Abdel Monem al-Howni.
La risposta dei governi occidentali alle violenze in Libia è apparsa come al solito fin troppo moderata. La responsabile degli affari esteri dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ripetuto il consueto appello alla calma a entrambe le parti in causa, come se le ragioni delle due parti, o ancor più i mezzi della popolazione e di un regime con le sue forze di sicurezza, fossero in qualche modo equiparabili. L’Italia, il paese occidentale più vicino alla Libia e al suo leader, ha emesso da parte sua un comunicato di circostanza per condannare l’uso della forza sui civili.
Queste reazioni, d’altra parte, come per le altre rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo, sono dettate dalle preoccupazioni di governi che in questi anni si sono dati da fare per stabilire contatti e fare affari con il regime di Gheddafi. A partire almeno dagli anni Novanta, il governo libico ha intrapreso una serie di iniziative volte ad ammorbidire le posizioni occidentali nei propri confronti. Un’evoluzione culminata nel 2004 con la decisione presa dall’amministrazione Bush di rimuovere le sanzioni economiche precedentemente implementate.
In Europa, l’Italia - con i governi Berlusconi - e la Gran Bretagna sono state in prima fila nella corsa ad assicurarsi le risorse energetiche libiche e gli investimenti del clan Gheddafi. La Libia oggi esporta infatti verso i paesi UE circa l’80 per cento del proprio petrolio, di cui oltre il 30 per cento a beneficio dell’Italia, tanto che sul fronte del greggio Tripoli è attualmente il terzo fornitore europeo, dopo Norvegia e Russia.
Il governo di Londra ha fatto di tutto per ristabilire rapporti cordiali con Gheddafi, così da aprire la strada a lucrosi contratti per le proprie compagnie petrolifere, come la BP. La stessa liberazione nel 2009 di Abdelbaset al-Megrahi, l’unico condannato per l’esplosione sopra Lockerbie del volo Pan Am 103 nel dicembre 1988, detenuto in un carcere scozzese, venne da molti descritta come un favore concesso a Tripoli in cambio di un importante contratto petrolifero proprio per la BP.
Notevoli sono anche gli interessi dell’ENI, detentore di svariate commesse in Libia, e le cui attività sono ora in serio pericolo, come dimostra il rimpatrio d’urgenza di tutto il personale operante nel paese. Un’iniziativa questa già adottata anche dalla norvegese Statoil, dalla francese Total, dalla spagnola Repsol e dalla stessa BP, la quale ha sospeso le trivellazioni esplorative in programma nel Golfo della Sirte.
I legami economici tra Europa e Libia non riguardano però solo il settore energetico, come sa bene il governo italiano. I fondi libici, sostanzialmente controllati dalla famiglia Gheddafi, hanno effettuato massicci investimenti in parecchie compagnie del nostro paese, delle quali detengono quote significative, a cominciare da FIAT, Unicredit e Mediobanca, ma anche Finmeccanica e lo stesso ENI.
Relazioni economiche e militari legano poi Londra e Tripoli. La Gran Bretagna da tempo addestra e rifornisce infatti l’esercito e le forze di sicurezza della Libia. Gli equipaggiamenti militari destinati a Tripoli sono stati congelati solo di recente, dopo lo scoppio della rivolta nel paese.
Come se non bastasse, ingenti riserve di valuta estera che Gheddafi e il suo entourage hanno accumulato, costringendo in uno stato di povertà gran parte del paese, si trovano su conti esteri e possono influenzare addirittura il comportamento di questo o quel governo.
Uno degli esempi più lampanti si ebbe nell’estate del 2008, in seguito all’arresto in un hotel di Ginevra di un altro figlio del rais, Hannibal Gheddafi, e della moglie, accusati di aver maltrattato due domestici marocchini. In quell’occasione, la Libia adottò una serie di ritorsioni, tra cui la minaccia di chiudere i propri conti in Svizzera, mettendo a repentaglio la tenuta stessa del sistema bancario di quel paese. Poco dopo l’arresto, la famiglia Gheddafi ottenne le scuse ufficiali da parte delle autorità elvetiche e la liberazione della coppia di maneschi rampolli.
I timori occidentali sono dunque quelli di ritrovarsi senza un regime stabile che fino ad ora ha garantito regolari forniture di gas e petrolio, investimenti e, nel caso dell’Italia, un più o meno rigido controllo dei flussi migratori. Le paure che animano soprattutto il nostro governo sono state espresse a Bruxelles dal Ministro degli Esteri Frattini, il quale ha messo in guardia dalla possibile instaurazione in Libia di un regime islamico radicale.
Se in Libia, come altrove, le proteste di piazza non sembrano in ogni caso avere un carattere religioso, ciò che preoccupa non è tanto l’Islam, dal momento che Frattini e gli altri governi occidentali non si fanno scrupoli nell’intrattenere ad esempio stretti legami con un regime oscurantista come quello dell’Arabia Saudita. La loro inquietudine è bensì per un eventuale governo che risponda finalmente alle richieste del popolo e che sia in grado di costruire un percorso autonomo e non più disposto ad assecondare passivamente gli interessi occidentali.
La repressione del regime, intanto, non fa altro che inasprire la protesta, con i disordini che sempre più stanno interessando la capitale Tripoli, dopo che i rivoltosi da qualche giorno sembrano aver conquistato il controllo di Bengasi e delle regioni orientali del paese. Allo stesso tempo, cominciano ad arrivare notizie di numerosi scioperi che fanno pensare all’inizio di una mobilitazione dei lavoratori, come già accadde in Egitto poco prima della spallata decisiva a Mubarak.
Anche in Libia i manifestanti chiedono la fine della dittatura e l’instaurazione di un governo temporaneo secolare guidato dall’esercito e dai rappresentanti dei gruppi tribali nei quali è divisa la popolazione. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, le prospettive della rivoluzione appaiono più complicate rispetto a Tunisia o Egitto. In più di quarant’anni di regime assoluto, Gheddafi ha fatto leva su un senso di appartenenza tribale più profondo rispetto all’identità nazionale, stabilendo rapporti di favore con i clan più fedeli ed emarginando quelli rivali. In un tale scenario, il rischio concreto è appunto l’esplosione di violenze settarie e lo scivolamento verso una sanguinosa guerra civile.
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di Michele Paris
Pur non essendo l’unico motivo scatenante, l’impennata dei prezzi dei beni alimentari su scala globale sta contribuendo in maniera non indifferente all’esplosione delle proteste di piazza in corso nel mondo arabo. Come già accaduto nel 2008, i rialzi stanno causando gravi sofferenze per centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta, in particolare tra gli abitanti dei paesi più poveri.
L’indice dei prezzi della Banca Mondiale risulta superiore del 29 per cento rispetto ad un anno fa e ad appena tre punti percentuali dai livelli record del 2008. I dati della FAO indicano a loro volta un aumento del 3,4 per cento solo tra dicembre 2010 e gennaio 2011, con un indice che ha toccato il punto più alto dal 1990, di fatto già superiore anche al 2008. Tra gennaio e dicembre dello scorso anno, il prezzo del grano è salito del 75 per cento. Solo nell’ultimo quadrimestre, l’aumento è stato del 20 per cento, mentre notevoli rincari hanno fatto segnare, ad esempio, anche lo zucchero (20 per cento) e l’olio (22 per cento), penalizzando in particolare i paesi importatori.
Della crisi alimentare si stanno occupando tutti i più importanti organismi internazionali, non solo la FAO e la Banca Mondiale, ma anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e il G-20, recentemente andato in scena a Parigi. Se queste istituzioni tendono a giustificare i continui aumenti dei prezzi con le catastrofi ambientali che hanno sconvolto molti paesi produttori nel 2010 e con le nuove dinamiche legate alla domanda e all’offerta in un mondo in cambiamento, molti commentatori indipendenti hanno messo in risalto le pesanti responsabilità della speculazione internazionale.
Assieme ad Umberto Mazzei - direttore dell’Istituto di Relazioni Economiche Internazionali di Ginevra e già docente di Economia presso vari atenei di Colombia, Venezuela e Guatemala - abbiamo cercato di capire le reali cause che stanno dietro agli attuali movimenti dei prezzi del cibo e, più in generale, gli squilibri e le distorsioni che pesano sul mercato globale dei beni alimentari.
Il recente rapporto della FAO sui prezzi dei beni alimentari attribuisce sostanzialmente le impennate degli ultimi mesi alle avverse condizioni atmosferiche in molte aree del globo e alla conseguente contrazione dell’offerta, una conclusione condivisa anche da molti economisti, tra cui il premio Nobel americano Paul Krugman. Gli altri motivi dei rincari sarebbero l’aumento della domanda proveniente da pesi emergenti come la Cina e l’utilizzo dei raccolti per la produzione di biofuel. Lei condivide questo giudizio ?
Se nel 2010 i prezzi dei beni alimentari sono saliti ai livelli astronomici del 2008 non è per i motivi sostenuti dalla FAO. Tanto più che le statistiche su cui si basa l’agenzia dell’ONU arrivano solo fino al 2008, come chiunque può verificare. Attribuire la salita dei prezzi alle avverse condizione atmosferiche è a mio parere una speculazione puramente teorica. I paesi colpiti da catastrofi ambientali sono stati in realtà pochi e questi eventi si ripetono un po’ ovunque ogni anno.
Fondamentalmente, per il 2010 tali calamità hanno riguardato la Russia, poiché in Australia, ad esempio, la produzione non ha fatto segnare crolli significativi e soltanto la qualità dei raccolti ha sofferto per le piogge e le inondazioni. L’impatto di questi cattivi raccolti sull’offerta mondiale è stato inoltre largamente compensato dalle raccolte record in Cina, Argentina, Brasile ed altri paesi.
Ciò spiega perché il rapporto fra la produzione e l’offerta mondiale sia rimasto inalterato nel corso del 2010. I dati indicano anzi un indubbio aumento della produzione mondiale rispetto al 2008. In quell’anno la produzione mondiale di grano era stata di 1.697 milioni di tonnellate, mentre nel 2010 è salita a 1.793 milioni, secondo i dati dell’International Grains Council. Allo stesso modo, il consumo nel 2008 è stato di 1.684 milioni di tonnellate e nel 2010 è salito a 1.786 milioni.
Da questi numeri è possibile constatare come non ci sia stato alcun mutamento sostanziale tra offerta e domanda. Inoltre, nel 2008 le scorte di grano ammontavano a 282 milioni di tonnellate, per salire a 404 milioni lo scorso anno. La produzione di agrofuel, infine, non può essere considerata responsabile dell’aumento dei pezzi, perché durante il 2010 negli Stati Uniti, che sono i maggiori produttori, essa è rimasta stabile attorno ai 40 milioni di litri.
Di fronte a questo scenario, possiamo concludere che l’impennata dei prezzi è dovuta principalmente alla speculazione. Ciò purtroppo non rappresenta una novità. Oggi è infatti evidente come l’impennata e la successiva caduta dei prezzi dei beni alimentari nel 2008 fu dovuta proprio alle operazioni speculative. Non va dimenticata anche la svalutazione del dollaro che fa salire i prezzi dei beni scambiati in questa moneta, anche se essi rimangono stabili nelle altre valute. Nelle considerazioni di un organo delle Nazioni Unite come la FAO, d’altra parte, pesano le fortissime pressioni politiche che impediscono determinate conclusioni. Gli stessi vincoli agiscono anche sugli economisti legati all’establishment, sia pure autorevoli, come Krugman.
Anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha preso in considerazione l’aumento dei prezzi. Il suo direttore, Pascal Lamy, ha citato come possibile causa la regolamentazione delle esportazioni dei prodotti alimentari che alcuni paesi attuano, chiedendo perciò una maggiore liberalizzazione in questo senso. Qual è la sua opinione in proposito?
Questa brusca impennata dei prezzi, cosi come quella del 2008, non può essere attribuita a simili politiche che sono in vigore da tempo. Il diritto dei paesi ad assicurare le risorse alimentari alla propia popolazione, prima di esportarle, è in ogni caso totalmente legittimo, come sancito anche dalle norme del WTO. Queste politiche di controllo sulle esportazioni stabilizzano i prezzi interni su livelli reali e costituiscono un freno alla speculazione.
È senz’altro vero, al contrario, che tali politiche danneggiano gli speculatori, così come sono un ostacolo al controllo mondiale dei cartelli dell’agroalimentare. Il direttore del WTO, Pascal Lamy, cerca di erodere tali protezioni nazionali per favorire i cartelli, un obiettivo perseguito anche nelle negoziazioni agricole del WTO che mirano allo smantellamento delle politiche nazionali. È singolare come, potendo ottenere l’autosufficienza e la stabilità dei prezzi interni a così buon mercato (attraverso la regolamentazione delle esportazioni), si spendano invece enormi quantità di denaro pubblico, ad esempio, con le sovvenzioni della Politica Agricola Comune (PAC) per assicurare l’autonomia alimentare europea.
Più precisamente, quale peso hanno sulla crisi alimentare globale i sussidi alle esportazioni che molti paesi (Stati Uniti e UE) garantiscono ai propri produttori?
I sussidi alle esportazioni agricole dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di fatto hanno rovinato gli agricoltori che non possono competere con prezzi tenuti artificialmente bassi. Anche quelli più efficienti, nella migliore delle ipotesi, hanno visto ridurre drasticamente i loro profitti. Se sovvenzionare per garantire la propria sovranità alimentare è legittimo, decisamente meno lo è per favorire l’esportazione degli stessi prodotti agricoli sussidiati, in quanto essi determinano l’abbassamento dei prezzi internazionali a livelli rovinosi. Il crollo dei prezzi, a sua volta, rende necessarie le sovvenzioni, producendo un circolo vizioso. A peggiorare la situazione c’è poi il fatto che le sovvenzioni favoriscono principalmente il processo industriale e gli intermediari commerciali, piuttosto che i produttori.
A causa di questi sussidi molti paesi hanno visto lo spopolamento di intere zone rurali, con il conseguente spostamento di milioni di persone in aree urbane sempre più affollate. Per lo stesso motivo, paesi già esportatori di prodotti alimentari sono ora dipendenti dalle importazioni per il loro sostentamento. Notissimo è il caso dei cosiddetti “quattro del cotone” (Benin, Burkina Faso, Mali e Ciad) che basavano appunto le loro economie sull’esportazione del cotone, e i cui governi sono costretti ora a spendere centinaia di milioni di dollari solo per mantenerne in vita la produzione. Un’evoluzione dovuta in primo luogo ai 25 miliardi di dollari in sussidi ai propri produttori di cotone che Washington ha assicurato negli ultimi 9 anni e che coprono ben il 68% del costo della produzione negli Stati Uniti.
Un altro esempio significativo è quello della produzione dello zucchero. La coltivazione più efficiente è quella derivata dalla canna da zucchero, tipica dei climi tropicali. L’Europa in teoria non potrebbe mai competere con questi paesi, tuttavia, grazie alle sovvenzioni della PAC, non solo da noi si produce zucchero di bietola, ma l’Europa ne è anche il maggiore esportatore mondiale. In definitiva, i contadini di qualsiasi paese - Europa compresa - vorrebbero semplicemente prezzi più alti, ovvero reali. Al contrario, il denaro dei contribuenti viene speso per abassare i prezzi dei beni alimentari, così da creare nuovi grandi mercati ed enormi guadagni per gli intermediari del commercio internazionale.
Tornando alla situazione attuale di rincari dei beni alimentari, può spiegare più nel dettaglio come la politica monetaria della Fed americana (con la svalutazione del dollaro) e la speculazione internazionale possono influire sull’aumento dei prezzi dei beni alimentari ?
Il ruolo della Banca Centrale Americana è innegabile. A partire dal 1971, quando gli USA abolirono la convertibilità del dollaro in oro, la Fed è in grado di emettere cifre astronomiche di denaro tramite una pratica definita “quantitative easing”. Con un semplice tocco sulla tastiera si mettono in circolazione cifre che superano di molto la capacita d’assorbimento dell’economia reale. Sono quantità di denaro molto piu grandi della vera economia mondiale e che si muovono tra i centri finanziari per essere investiti nelle borse valori.
Da tempo, infatti, si assiste alla salita del valore delle azioni senza una ragione apparente, come un aumento dei dividendi o nuovi investimenti, e lo stesso accade con altre proprietà o valori. Questo eccesso di denaro virtuale causa un succedersi di bolle speculative che possono riguardare qualsiasi bene scambiabile, compresi quelli alimentari, i cui prezzi fanno segnare impennate come quella in corso. Quando queste bolle esplodono e i prezzi cadono, il denaro immesso artificialmente sul mercato si volatilizza. La Fed allora interviene nuovamente per erogare altro denaro virtuale a beneficio degli speculatori di Wall Street affinchè facciano risalire i prezzi e possano recuperare le perdite creando sempre nuove bolle.
Che a produrre il rialzo del prezzo del cibo sia la speculazione o le catastrofi ambientali, quel che è certo è che dalla metà dello scorso anno 44 milioni di residenti dei paesi più poveri sono stati spinti in condizioni che la Banca Mondiale definisce di “estrema povertà”, cioè costretti a sopravvivere con meno di 1,25 dollari al giorno. Di fronte ad una comunità internazionale pressoché impotente, il numero delle persone malnutrite sulla terra tocca oggi i 925 milioni e, con l’attuale tendenza dei prezzi dei beni alimentari, è probabile che entro la fine dell’anno verrà superato il miliardo, vale a dire quasi un sesto della popolazione della terra.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Scricchiolano gli equilibri geopolitici interni: si parla sempre più di due Zar (Medvedev e Putin) obbligati a condividere una poltrona unica mentre si vanno imponendo, sulla scena socio-economica, nuovi oligarchi venuti alla luce dopo Eltsin. Si fanno sempre più complessi i rapporti con i paesi dello “spazio post-sovietico” e la Csi - quella struttura che secondo il Cremlino doveva rimpiazzare il sistema del controllo sovietico - non svolge nessun ruolo dirigente.
C’è poi il campo della politica estera che al momento non brilla per idee e soluzioni. Non si comprende bene, infatti, quale sia il rapporto reale con gli Usa di Barack Obama e con la Cina di Hu Jintao. Ed è con questo bagaglio di problemi che il cronista - in una Mosca sempre coperta dalla neve e con punte di meno venti - va alla scoperta di eventuali soluzioni relative, appunto, alla conduzione geopolitica del Cremlino. Si entra, quindi, nei santuari delle accademie e degli istituti politici. E come prima questione sul tappeto si scopre che si è alla vigilia di una importante decisione del Cremlino relativa al rapporto con il mondo musulmano.
I dati attuali sono più che mai notevoli e degni di attenzione. Perchè sono oltre 20 milioni gli islamici presenti in Russia ed è chiaro che i think tank del Cremlino sono obbligati a tener d’occhio questa realtà. Ecco, quindi, che prende forma concreta quell’idea che il presidente Medvedev avanzò due anni fa: la realizzazione di un canale televisivo russo tutto dedicato ai musulmani, alla loro vita, alle loro tradizioni, al loro credo.
Si è alla vigilia del lancio ufficiale di questa rete (Febbraio) che, in primo luogo, si rivolgerà ai giovani promuovendo - come spiega il capo mufti russo, Ravil Gaynutdin - la tolleranza e i concetti di democrazia e convivenza tra religioni diverse. Ma è anche chiaro che l’idea del Cremlino consiste anche nel controbattere l’altra faccia della propaganda. Quella che viene dalle trasmissioni della tv cecena “Put” che, creata tre anni fa, si rivolge soprattutto alle popolazione del nord Caucaso con programmi e letture del Corano a ciclo continuo.
Il problema, qui, rischia di aggravarsi sempre più. Pensiamo, ad esempio, che una città come Grozny, capitale della Cecenia, contava, dodici anni fa, un 60% di slavi ed adesso ne conta appena un 6%. E questo fa capire come la situazione non sia delle più felici. Di conseguenza il Cremlino - viene fatto notare a Mosca - punta sempre più ad un buon rapporto con le popolazioni musulmane.
Ma nell’agenda delle priorità c’è anche la questione degli slavi-ortodossi. I quali, oggi come oggi, si attestano al 79%, mentre solamente dieci anni fa se ne contavano un 83% sulla popolazione totale. In questo contesto gli uomini del Cremlino addetti allo studio e all’esame dei rapporti interetnici ricordano che l'ortodossia si differenzia dalla religione cattolica in due caratteristiche: non viene riconosciuta l'infallibilità del Papa e a livello liturgico non viene riconosciuta la cresima (discesa dello spirito santo sull'uomo) perchè giudicata un doppione del battesimo. Per il resto valgono le regole delle due Chiese.
E sempre sul fronte religioso si evidenzia quel dialogo teologico teso al superamento degli ostacoli ancora esistenti. Grande è stata così l’attenzione del Cremlino nei confronti dei lavori di una importante riunione che ha visto riuniti a Vienna esponenti dell’ortodossia e della Chiesa cattolica. Il tema affrontato - quello relativo al dialogo teologico - ha visto impegnati i rappresentanti delle quattordici Chiese ortodosse autocefale (Patriarcato ecumenico, Patriarcati di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Chiese di Cipro, Grecia, Polonia, Albania e delle Terre di Cechia e di Slovacchia), da altrettanti rappresentanti della Chiesa cattolica impegnati sul fronte della promozione dell'unità dei cristiani e del metropolita di Pergamo, Ioannis (Zizioulas), del Patriarcato ecumenico.
Non si è però trovata una comune piattaforma d’intesa. Ma al Cremlino - che di diplomazia e di trattative comuni se ne intende - si fa notare che le speranze per la prosecuzione del dialogo sono ben avviate e che, dunque, si spera che con la possibile presenza a Mosca del Papa tedesco si possano raggiungere posizioni accettabili.
Quanto alle linee di politica estera, le fonti più vicine al potere del duo Medvedev-Putin mostrano attenzione nei confronti dell’attuale vertice presidenziale alla Casa Bianca. Qui l’atteggiamento dei maggiori specialisti è improntato al pragmatismo più ferreo. Si parla delle tensioni valutarie tra dollaro e yuan che preoccupano anche il Cremlino. Ma si pone l’accento anche sul tema della Corea del Nord. E l’orientalista russo Sergej Lusianin - che da anni segue l’andamento delle relazioni tra Mosca, Pechino e Pyeongyang - fa notare in proposito che il conflitto fra le due Coree, cosi come la tensione su Taiwan, i contenziosi fra Cina e Giappone, Russia e Giappone, aggravano il clima in una regione segnata da “una carenza di fiducia”.
A consolidarla punta però, nota l’esperto, l’iniziativa russo-cinese che prevede inoltre la nascita di strutture regionali per prevenire i conflitti che possono andare oltre i confini dell’Asia e del Pacifico. Comunque, questo, è soltanto il primo passo su una lunga strada verso il consenso multilaterale e la diversificazione dei legami economici.
L’anno che si è da poco concluso - dichiara Lusianin - ha registrato un salto di qualità, passando alla cooperazione nell’energetica nucleare ed elettrica, alle forniture del gas liquefatto, alla costruzione di condutture. Ci sono, infatti, alcuni contratti importanti nella metalmeccanica per mettere a punto attrezzature per questo settore con l’applicazione di alte tecnologie. Inoltre c’è da mettere nel conto gli investimenti cinesi nello sfruttamento dei giacimenti siberiani insieme alle società russe.
L’anno appena trascorso ha pertanto rafforzato i legami d’investimento e ha evidenziato una nuova tendenza: “La piccola e media impresa russa prende in affitto i terreni, compra società, lancia vari progetti. La nostra imprenditoria - nota sempre il russo Lusianin - va volentieri in Cina, in quanto questa economia propone regole di gioco chiare e ben precise. E così nel 2011 si punterà alla diversificazione dei legami economici, innanzitutto nelle alte tecnologie.
Ma Mosca, nonostante queste previsioni, teme pur sempre che si possa giungere ad un asse Usa-Cina e per questo studia attentamente le parole del segretario di Stato Hillary Clinton e del Consigliere per la sicurezza nazionale Tom Donilon. E in particolare si prendono in esame i discorsi dei capi di Microsoft, Steve Ballmer, di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, di General Electric, Jeff Immelt, di Coca Cola, Muhtar Kent e di Boeing, Jim McNerney.
I russi, inoltre, cercano di pesare attentamente (con l’aiuto di esperti in lingua cinese) il senso reale delle affermazioni dei dirigenti economici di Pechino al tavolo della Casa Bianca: il presidente di Lenovo, Liu Chuanzhi, l'acquirente cinese della divisione pc di Ibm, Lou Jiwei, presidente della China Investement Corporation, Lu Guanqiu di Wanxiang Group e Zhang Ruimin di Haier. Sulla base di tutti i dossier che i russi esaminano ora e sui quali intendono far sapere la loro posizione si può notare che la Cina è oggi il primo creditore estero americano con 895,6 miliardi di dollari in novembre, l'1,2 per cento in meno rispetto al mese precedente.
Intanto, per chiarire clima e speranze del rapporto Washington-Pechino il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha spiegato alla televisione cinese che "apertura e trasparenza" sono due elementi essenziali per stabilire una relazione di fiducia tra Stati Uniti e Cina. "Vogliamo avviare un dialogo aperto con la ricerca di un terreno d’intesa e poi appianare i punti di disaccordo", ha spiegato il capo della diplomazia americana, senza nascondersi che "da entrambe le parti vi sono posizioni molto nette. Ma noi auspichiamo che nulla interferisca sulla nostra volontà di continuare a discutere e ricercare un terreno d'intesa". Parole, queste, che Mosca sembra sottoscrivere in pieno.
Non mancano - in questa sintetica panoramica di relazioni internazionali viste da Mosca - le questioni relative alla sicurezza nell’Asia, alla cooperazione energetica e a quel vero e proprio boom che sta attraversando la piccola e media impresa russa in Cina.
Si può concludere questa panoramica con un certo ottimismo? E’ ovvio che risposte dettagliate non possono essere fornite. Si possono avanzare solo alcune riflessioni da inquadrare, tutte, in un complesso scenario che lascia da parte verità a tutto tondo. Uno scenario che è pur sempre dominato da complicati rapporti politici ed economici.