di Michele Paris

Nella giornata di lunedì, circa duemila soldati dell’esercito saudita e degli Emirati Arabi hanno attraversato i confini della piccola monarchia affacciata sul Golfo Persico. Quella che in molti già definiscono come una vera e propria invasione militare del Bahrain, giunge con la benedizione dei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), decisi a tutto pur di porre fine alle proteste che da settimane minacciano l’esistenza stessa della monarchia regnante e rischiano di diffondersi a macchia d’olio in un’area strategicamente fondamentale negli equilibri dell’intera regione mediorientale.

Quegli stessi paesi del GCC (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar e lo stesso Bahrain) che hanno dato il via libera all’invio di forze armate in Bahrain per reprimere le manifestazioni democratiche, curiosamente fanno tutti parte anche della Lega Araba, che lo scorso 13 marzo ha appoggiato formalmente l’imposizione di una “no-fly zone” sulla Libia per fermare i massacri compiuti dagli uomini fedeli a Gheddafi.

Le agitazioni in Bahrain erano scaturite a metà febbraio in seguito alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto e si sono da allora concentrate nella capitale, Manama. Mentre le richieste iniziali dei manifestanti si erano limitate a qualche concessione democratica, il pugno di ferro del regime sunnita, in un paese a maggioranza sciita, ha finito con il radicalizzare la protesta. Dopo i sette morti e le centinaia di feriti causati dall’intervento delle forze di sicurezza durante i primi scontri, l’opposizione ha iniziato così a chiedere la dissoluzione della monarchia del sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa.

Proprio mentre a Manama il Segretario alla Difesa americano, Robert Gates, avvertiva il re del Bahrain della necessità di riformare il proprio regime, venerdì scorso i dimostranti mettevano in scena la protesta più imponente dall’inizio della rivolta. Dal centro nevralgico delle proteste, Pearl Square, i manifestanti sono infatti giunti fino ai cancelli del Palazzo Reale, prima di essere accolti con proiettili di gomma, gas lacrimogeni e dalle cariche dei sostenitori della monarchia armati di spade e bastoni.

L’intervento militare saudita e degli altri paesi del Golfo è stato richiesto dallo stesso monarca del Bahrain e la coincidenza di questa decisione con la visita del numero uno del Pentagono rende estremamente probabile un qualche coordinamento con Washington. Gli Stati Uniti, d’altra parte, considerano il piccolo Bahrain un alleato essenziale nella regione. Qui si trova infatti il quartier generale della Quinta Flotta della marina americana, di vitale importanza per il controllo del Golfo Persico, ma anche del resto del Medio Oriente e della costa africana orientale.

Secondo un ufficiale saudita citato dalla stampa americana, l’invio di militari lungo l’arteria stradale che collega l’Arabia al Bahrain sarebbe solo la prima fase di un’operazione dai tratti ancora da definire. I militari stranieri sarebbero stati incaricati ufficialmente di sorvegliare i siti petroliferi e le istituzioni finanziarie del paese, anche se il governo del Bahrain ha dichiarato apertamente di aver richiesto l’intervento per aiutare le forze di sicurezza locali a ristabilire l’ordine. Fonti saudite e del GCC hanno assicurato che i loro soldati non verranno in contatto con i dimostranti, i quali peraltro hanno finora dato vita a manifestazioni del tutto pacifiche.

I legami tra la casa regnante del Bahrain e quella dell’Arabia Saudita sono molto profondi e Riyadh rappresenta, assieme agli Stati Uniti, uno dei pilastri della stabilità della monarchia al-Khalifa che guida il paese del Golfo Persico da oltre due secoli. Già nel 1994 i militari sauditi entrarono nel Bahrain per soffocare una serie di proteste che erano scoppiate contro il regime autocratico. L’insofferenza diffusa da tempo nel Bahrain deriva dalla puntuale discriminazione messa in atto dalle élite che detengono il potere nei confronti della maggioranza sciita della popolazione, in gran parte tagliata fuori dalla distribuzione delle ricchezze di un paese che esporta quantità ingenti di petrolio e gas naturale.

Se a scatenare la rivolta è stata proprio la condizione degli sciiti, l’atteggiamento dei manifestanti nel corso di queste settimane in Bahrain non ha tuttavia avuto un carattere settario, come ha cercato invece di far credere la propaganda del regime. Come altrove in Medio Oriente e in Africa settentrionale, gli obiettivi delle proteste sono piuttosto il rovesciamento del regime, l’istituzione di un governo democratico, maggiore giustizia sociale e pari opportunità per tutti i cittadini a prescindere dall’appartenenza settaria.

L’Arabia Saudita e gli altri membri del GCC hanno infine deciso di intervenire in Bahrain per il timore che la caduta della monarchia al-Khalifa possa ispirare movimenti di opposizione più consistenti anche all’interno dei loro confini. Oman, Kuwait e la stessa Arabia Saudita, ad esempio, hanno già dovuto fare i conti con sporadiche manifestazioni in queste settimane, tutte duramente represse. Un successo politico per gli sciiti in Bahrain, inoltre, potrebbe dare ulteriore coraggio alla minoranza sciita che vive entro i confini sauditi e che è concentrata nelle province orientali dove si trovano i principali giacimenti petroliferi.

Per i vicini del Golfo, anche un accordo pacifico tra il regime di Hamad bin Isa al-Khalifa e le opposizioni a maggioranza sciita - sostenuto a livello ufficiale da Washington - rappresenta un rischio che potrebbe, da un lato, alimentare le tensioni interne e, dall’altro, andare a tutto favore dell’Iran. Proprio da Teheran, che considera il Bahrain parte del proprio territorio, è giunta infatti la reazione più dura all’intervento militare saudita. Il Ministero degli Esteri iraniano, in una nota ufficiale, ha parlato apertamente di “invasione” e ha definito la presenza di forze straniere in Bahrain “inaccettabile”; una mossa insomma che rischia di “complicare ulteriormente la situazione” del vicino meridionale. In seguito a queste dichiarazioni, il Bahrain ha immediatamente richiamato il proprio ambasciatore a Teheran.

L’iniziativa saudita riaccende pericolosamente le profonde rivalità tra Riyadh e le monarchie sunnite da una parte e la Repubblica Islamica dall’altra. Come ampiamente testimoniato dai cablo diffusi recentemente da Wikileaks, la monarchia saudita e i suoi vicini sunniti esercitano da tempo pressioni sugli Stati Uniti per contenere anche con la forza le ambizioni regionali dell’Iran con il pretesto di frenarne il discusso programma nucleare. L’evoluzione delle rivolte nel mondo arabo in questo 2011 ha inoltre beneficiato notevolmente proprio l’Iran, danneggiando un’Arabia Saudita - già penalizzata dalla caduta del governo filo-saudita di Saad Hairi in Libano per mano di Hezbollah - che ha visto sparire un importante alleato come Hosni Mubarak in Egitto.

Sulla posizione interventista saudita sono sembrati convergere dunque anche gli Stati Uniti, come conferma la già ricordata visita di Gates in Bahrain. Un atteggiamento quello di Washington che contrasta con gli appelli alla moderazione e per la ricerca di una soluzione concordata, così da riformare il regime in senso democratico, lanciati più volte da vari esponenti dell’amministrazione Obama.

L’importanza strategica di un Bahrain - e, di conseguenza, di un’Arabia Saudita - fermamente nella sfera statunitense è d’altra parte testimoniata anche dal differente approccio di Washington ai movimenti di protesta esplosi a febbraio. Mentre in Tunisia, Egitto e Libia gli USA hanno più o meno rapidamente preso le parti dei manifestanti scesi in piazza, in Bahrain si continua a puntare sulla famiglia regnante, sostenendo al massimo la necessità di concedere qualche modifica tutt’altro che sostanziale alla struttura del regime.

Il panico diffuso a Riyadh e a Washington, che ha portato ad un’invasione militare del Bahrain, sia pure su richiesta della monarchia regnante, rischia tuttavia di rendere ancora più difficili i negoziati per una possibile soluzione pacifica della crisi. Di fronte alla presenza di forze armate straniere, le opposizioni hanno infatti subito reagito con nuove proteste che hanno spinto il regime a dichiarare lo stato di emergenza e l’imposizione di fatto della legge marziale. In questo scenario, il rischio concreto è che si giunga ad un bagno di sangue e che le rivalità regionali in gioco nel piccolo paese del Golfo Persico sfocino in un conflitto di ben più ampie proporzioni.

di Michele Paris

La fonte dei 250 mila documenti diplomatici statunitensi che Wikileaks ha recentemente iniziato a pubblicare è con ogni probabilità il soldato americano Bradley Manning. 23 anni, ex analista dell’intelligence in Iraq, ha fornito un contributo di grandissimo valore alla conoscenza degli eccessi e dei crimini commessi da Washington in mezzo mondo nell’ultimo decennio. Per il governo americano, tuttavia, Bradley Manning rappresenta una grave minaccia, come dimostrano le condizioni disumane in cui è stato costretto in dieci mesi di carcere e le recenti pesantissime accuse sollevate nei suoi confronti che potrebbero addirittura sfociare in una condanna alla pena capitale.

I guai con la giustizia militare per il “Private First Class” (Pfc.) Bradley Manning erano iniziati nel maggio del 2010. L’arresto per lui era scattato in Iraq in seguito alle rivelazioni dell’ex hacker Adrian Lamo, il quale in una chat aveva raccolto alcune frasi dello stesso giovane soldato americano che indicavano la sua responsabilità nella pubblicazione di un video scottante. Il filmato in questione, scaricato senza autorizzazione dai terminali del Pentagono e pubblicato da Wikileaks nel mese di aprile con il titolo di “Collateral Murder”, riprendeva elicotteri americani che facevano fuoco su civili inermi a Baghdad nel 2007. In quella circostanza, furono assassinati anche due giornalisti della Reuters.

A Bradley Manning vennero contestati dodici capi d’accusa e per lui fu l’inizio di una detenzione in stato di isolamento che dura tutt’ora, nonostante nessuna condanna sia stata emessa né esista alcun precedente penale a suo carico. Presso una base dei Marines a Quantico, in Virginia, Manning è tenuto segregato per 23 ore al giorno, con una sola ora concessagli per qualche esercizio in una stanza vuota. I contatti con il mondo esterno sono severamente ristretti, così come l’accesso a qualsiasi materiale di lettura, mentre non gli è nemmeno consentito dormire durante il giorno.

Anche se nessun medico ha certificato tendenze suicide, Manning è poi imprigionato secondo procedure che dovrebbero impedirgli gesti autolesionisti. A partire dalla scorsa settimana, ad esempio, gli viene imposto di dormire completamente nudo. Una misura presa, secondo quanto scritto in un blog dal suo legale, avvocato David Coombs, in seguito ad un commento sarcastico fatto dallo stesso Manning sulla possibilità di tentare il suicidio utilizzando i propri indumenti intimi.

Quest’ultimo episodio rappresenta solo il più recente in una serie di trattamenti che sconfinano spesso nella tortura e appare mirato a debilitare la resistenza fisica e mentale di un giovane contro il quale il governo e i militari americani intendono vendicarsi in maniera esemplare.

Secondo alcuni, questi metodi servirebbero a convincere Manning ad accusare Julian Assange di complicità nell’impossessarsi dei documenti segreti pubblicati da Wikileaks, così da poter formulare una qualche accusa nei confronti di quest’ultimo e chiederne l’estradizione verso gli Stati Uniti. A dicembre dello scorso anno, infatti, il quotidiano britanno The Independent scrisse che il Dipartimento di Giustizia americano aveva proposto a Manning un accordo che prevedeva il suo trasferimento alla giustizia civile in cambio di un’accusa esplicita per coinvolgere il fondatore di Wikileaks.

Il caso di Bradley Manning ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni a difesa dei diritti umani, mentre l’ONU sta conducendo un’indagine per stabilire se la giustizia militare statunitense abbia adottato metodi di tortura nei suoi confronti. Per il Pentagono, secondo le parole di una portavoce,” le condizioni di detenzione di Manning sono determinate dalla serietà delle accuse mossegli contro, dalla pena potenzialmente molto lunga che lo attende, dalle implicazioni per la sicurezza nazionale del suo caso e dal danno che potrebbe arrecare a se stesso o ad altri”.

In questi lunghi mesi di carcere, intanto, le sue energie sono state fiaccate e la sua lucidità appare seriamente compromessa. Uno dei pochi autorizzati a vistare Bradley Manning a Quantico è l’amico David House, ricercatore del MIT, il quale dopo un recente incontro ha detto alla stampa di avere l’impressione di assistere alla sua trasformazione “da giovane vivace e intelligente ad una persona a volte apatica e con serie difficoltà a sostenere una banale conversazione”.

Come se non bastasse, settimana scorsa la giustizia militare ha formulato 22 nuovi capi d’accusa contro Bradley Manning. L’accusa più grave è quella di “collaborazione con il nemico”, secondo quanto contemplato dall’articolo 104 del codice militare, un crimine che può prevedere anche la pena di morte. Quale sia il nemico che Manning avrebbe favorito non è però specificato dai militari, tanto che potrebbe essere addirittura Wikileaks. Una designazione questa che esporrebbe lo stesso Julian Assange a possibili azioni, anche militari, da parte americana.

Se i nemici in questione fossero invece i Talebani oppure i membri di Al-Qaeda o altri gruppi estremisti, l’accusa sollevata contro Manning potrebbe essere facilmente estesa, non solo nuovamente a Wikileaks, ma anche agli stessi giornali (New York Times, Guardian, ecc.) che hanno pubblicato i cablo riservati delle ambasciate USA negli ultimi mesi.

I militari, da parte loro, hanno affermato di non riferirsi a Wikileaks ma continuano a non voler rivelare l’identità del “nemico” che avrebbe beneficiato del comportamento di Manning, poiché il caso in questione ha a che fare con la “sicurezza nazionale e, in tempo di guerra, rivelare questa informazione potrebbe compromettere le operazioni sul campo attualmente in corso”.

Molte delle altre recenti accuse, peraltro, si ripetono e sono soltanto formulate in maniera diversa, così da poter presentare un numero maggiore di imputazioni ed accentuare il presunto comportamento criminale di Bradley Manning. Tra di esse vi è anche l’accusa di aver utilizzato un software non autorizzato sui computer della Difesa per accedere a informazioni segrete.

Se è vero che l’accusa ha anticipato che non intende chiedere la pena di morte, la decisione finale su questo punto spetterà in ogni caso all’ufficiale incaricato di supervisionare il caso di Manning, generale Karl Horst. La corte marziale per Manning terrà l’udienza preliminare tra maggio e giugno e solo in quella sede sarà possibile conoscere con certezza tutti i capi d’accusa e la pena richiesta ufficialmente.

Gli abusi nei confronti di Bradley Manning rappresentano una chiara intimidazione verso chiunque intenda portare alla luce le atrocità commesse dal governo americano. La colpa del giovane militare statunitense sarebbe quella di avere smascherato i veri e propri crimini degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan e la doppiezza di una politica estera i cui obiettivi e metodi sono tenuti nascosti alla gran parte dei cittadini americani.

La persecuzione di Bradley Manning appare in tutta la sua gravità a fronte di un’amministrazione come quella di Barack Obama che aveva promesso un cambiamento epocale. Al contrario, fino dall’inizio del suo mandato il presidente ha fatto di tutto per nascondere le responsabilità di chi lo ha preceduto negli eccessi della guerra al terrore e nello scatenare una guerra illegale in Iraq sulla base di menzogne somministrate impunemente ai propri cittadini.

L’atteggiamento odierno del governo americano è pressoché identico a quello tenuto da Richard Nixon nel 1971 al momento dell’esplosione del caso dei cosiddetti Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam. Quando l’ex analista militare Daniel Ellsberg passò i documenti riservati al New York Times e al Washington Post, i media e l’opinione pubblica si mobilitarono in massa, finché la Corte Suprema finì per garantire il diritto alla pubblicazione, impedendo di fatto al governo di perseguire Ellsberg.

La situazione odierna appare tuttavia deteriorata e i principali giornali americani, controllati da grandi interessi economici e finanziari, risultano ormai docili di fronte al potere. Il New York Times, ad esempio, già baluardo del progressismo d’oltreoceano, poco dopo aver iniziato a diffondere i cablo di Wikileaks ha pubblicato svariati editoriali nei quali ha preso le distanze dal sito di Assange, mentre il direttore Bill Keller è giunto ad ammettere candidamente di aver concordato con la Casa Bianca l’occultamento di determinate informazioni, dal momento che a suo dire la libertà di stampa consisterebbe nella libertà di non pubblicare ciò che il governo ritiene possa danneggiare la sicurezza nazionale.

In questo scenario inquietante s’inserisce anche il sostanziale silenzio sulla sorte di Bradley Manning da parte di quei gruppi della società civile che fino a poco più di due anni fa protestavano contro i metodi dell’amministrazione Bush e che ora assecondano colpevolmente quegli stessi eccessi solo perché a macchiarsene è un presidente democratico.

di Carlo Musilli 

Lo hanno battezzato il "Giorno della Rabbia", ma per ma per molti è stato soprattutto "Il Giorno dell'Angoscia". Le manifestazioni organizzate ieri in Arabia Saudita hanno generato preoccupazioni di diversa natura. Politiche, sul fronte interno. Economiche, per il resto del pianeta. Le dimensioni della protesta non contano. Era assolutamente scontato che i sauditi non potessero organizzarsi in oceani di manifestanti furibondi stile Egitto o Tunisia. Tantomeno era lecito aspettarsi uno scontro armato alla maniera libica.

In Arabia, infatti, il cuore della rivolta è costituito dalla minoranza sciita, che rappresenta appena il 10% della popolazione. Fatto sta che il monarca assoluto del Paese, re Abdullah, non aveva mai dovuto fronteggiare un'opposizione del genere in precedenza.

Il bilancio fino ad ora é di tre manifestanti sciiti feriti ad al Qatif, nell'est dell'Arabia saudita, dalla polizia che ha aperto il fuoco per disperdere una manifestazione. “Gli spari sono arrivati quando fra 600 e 800 manifestanti sciiti, fra cui delle donne, marciavano ad al Qatif per chiedere la liberazione di nove detenuti sciiti”, ha riferito un testimone all'Afp. “Quando la marcia stava per terminare nel centro della città, dei soldati hanno cominciato a sparare sui dimostranti e in tre sono rimasti feriti”, ha aggiunto la stessa fonte. Le autorità saudite hanno ribadito più volte negli ultimi giorni che le manifestazioni erano vietate nel Regno e che la polizia era autorizzata ad intervenire per far rispettare la legge.

Ma nonostante la violenta repressione dell'esercito, i manifestanti non mollano. Spalleggiati dai correligionari del vicino Bahrein, anch'essi in rivolta da circa un mese, continuano a chiedere riforme politiche. Vogliono la monarchia costituzionale, un governo eletto liberamente, la liberazione dei prigionieri politici e il riconoscimento dei diritti delle donne. Il contenuto della protesta ha trovato appoggio anche fuori dalla comunità sciita, fra i sauditi più liberali, che vorrebbero sfruttare il momento di crisi del sistema per realizzare le proprie aspirazioni di cambiamento.

In questo senso, fino ad ora diverse petizioni e lettere aperte sono state indirizzate a re Abdullah. Com'è ovvio, il sovrano non ha risposto a nessuno pubblicamente, ma durante la settimana ha incontrato in privato i leader tribali sciiti e sunniti. Quello che succederà nelle prossime settimane è difficile da prevedere. Ma bisogna tener presente che difficilmente vedremo una nuova piazza Tahir. La popolazioni saudita è molto più ricca di quella nordafricana e le casse del re sono abbastanza piene da raffreddare a suon di dollari più di una testa calda.

Veniamo al resto del mondo. Numero uno fra gli esportatori di petrolio, l'Arabia Saudita è il paese arabo più vicino agli Stati Uniti. Negli ultimi tempi ha svolto il ruolo di baluardo per la stabilità dei mercati energetici mondiali, innalzando la produzione di greggio in modo da sopperire al mancato apporto di barili dalla Libia, circa 750 mila al giorno. La paura più grande è proprio che la rivolta possa compromettere la produttività petrolifera del Paese. Gli sciiti sono infatti concentrati nella provincia orientale dell'Arabia Saudita, la più ricca di idrocarburi e di compagnie petrolifere. Qui sono custodite le più grandiose riserve d'oro nero che il pianeta conosca. Qualcosa come 260 miliardi di barili.

Se la situazione degenerasse e la ribellione si trasformasse in vera e propria rivoluzione, il prezzo del petrolio arriverebbe a toccare delle vette che finora gli economisti non avevano ipotizzato nemmeno nei loro incubi più neri. Per questo i trader di tutto il mondo hanno iniziato una speculazione a rotta di collo sui futures del petrolio.

Negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli investitori pronti a scommettere che le vicende interne dell'Arabia Saudita faranno schizzare il prezzo di ogni singolo barile oltre la soglia siderale dei 200 dollari. E' un po' come scommettere sul collasso economico della Terra. Il record, fino ad oggi, è di 147 dollari al barile. Si è registrato nell'estate 2008, quando si cominciava a vedere il fungo atomico della crisi finanziaria mondiale.  Rispetto ad allora, secondo quanto riportato recentemente della Cnn, il fervore speculativo è oggi talmente elevato che i grandi istituti finanziari detengono il doppio dei contratti di lungo periodo sul petrolio.

Tanto per rendere le prospettive ancora più buie, la Goldman Sachs ha accusato l’Arabia Saudita di truccare i dati sul livello reale di produzione di petrolio. Secondo la banca d'affari statunitense, i sauditi "dallo scorso novembre stanno producendo da mezzo milione a un milione di barili di petrolio al giorno in più rispetto alle cifre ufficiali. Questo vuol dire che la loro capacità in eccesso è significativamente più bassa dei numeri ufficiali". Se l'ipotesi di Goldman Sachs fosse vera, la capacità in eccesso dell'Opec scenderebbe sotto i 2 milioni di barili al giorno. Un livello così basso é stato raggiunto l'ultima volta nella famigerata estate del 2008.

Tutto questo accade in un momento in cui diversi paesi europei fanno ancora molta fatica a finanziare i propri debiti pubblici. La gara a collocare titoli di Stato sul mercato è già abbastanza estenuante. Una crisi petrolifera delle proporzioni paventate potrebbe significare l'armageddon economico. Certo, è una possibilità non facile a realizzarsi. Ma rimane una possibilità.

di Michele Paris

Il potente ex presidente iraniano, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, è stato di fatto rimosso questa settimana dalla guida dell’Assemblea degli Esperti, l’influente organo incaricato di eleggere, sorvegliare ed eventualmente deporre la Guida Suprema della Repubblica Islamica. La parabola discendente di uno degli uomini più ricchi dell’Iran giunge in un momento molto delicato per tutto il Medio Oriente: s’intreccia inestricabilmente - da un lato - con le lotte di potere tra le varie fazioni del regime e - dall’altro - con le sorti di un movimento di protesta che fatica a raccogliere un seguito consistente nel paese.

Presidente per due mandati tra il 1989 e il 1997 e considerato un conservatore moderato e pragmatico, Rafsanjani negli ultimi due anni ha rappresentato all’interno del regime una delle voci più vicine al cosiddetto Movimento Verde. La sconfitta elettorale che egli stesso aveva dovuto incassare nel ballottaggio delle presidenziali del 2005 dall’allora sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, lo aveva progressivamente allontanato dai sostenitori dell’attuale presidente, fino a spingerlo verso l’opposizione, pur senza condividerne le posizioni anti-regime più estreme.

Nella sua funzione di numero uno sia dell’Assemblea degli Esperti che del Consiglio per il Discernimento - preposto alla risoluzione dei conflitti tra il Parlamento (Majlis) e il Consiglio dei Guardiani della Costituzione - Rafsanjani, dopo le contestate elezioni del giugno 2009, aveva più volte cercato di promuovere una riconciliazione tra l’opposizione Verde e il regime. Le sue manovre erano mirate a mettere all’angolo lo stesso presidente, facendo leva sulle riserve nutrite da molti conservatori nei confronti della politica populista di Ahmadinejad.

Gli esponenti della linea dura vicini ad Ahmadinejad hanno a loro volta progressivamente intensificato gli attacchi contro Rafsanjani, in modo da privarlo di quell’influenza che ancora poteva conservare in alcuni ambienti della Repubblica Islamica. L’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente dell’Assemblea degli Esperti ha fornito così l’occasione per mettere da parte un peso massimo del regime considerato, sia pure per ragioni opportunistiche, fin troppo allineato con i “riformisti”. Un passaggio di consegne, va sottolineato, che avviene in un momento molto importante, se le voci che da qualche mese si rincorrono sulle precarie condizioni di salute dell’ayatollah Ali Khamenei dovessero risultare fondate.

Tra la fazione pro-Ahmadinejad (strettamente legata ai Guardiani della Rivoluzione e uscita rafforzata dal cambio al vertice dell’Assemblea) e il clero sciita rimangono tuttavia profonde divisioni. Il presidente e i suoi uomini, infatti, non sono stati in grado d’imporre un loro fedelissimo, ma hanno dovuto accettare, come successore di Rafsanjani, l’ottantenne conservatore Mohammad Reza Mahdavi Kani, già primo ministro negli anni Ottanta e seguace della prima ora dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Quando la candidatura di Mahdavi Kani è emersa, Rafsanjani ha ritirato la propria e il nuovo leader dell’Assemblea degli Esperti ha così raccolto il consenso di 63 degli 86 membri che la compongono.

La posizione sempre più precaria di Rafsanjani era apparsa in tutta la sua evidenza un paio di settimane fa quando, relativamente a sorpresa, aveva denunciato le manifestazioni che qualche giorno prima erano andate in scena nelle strade di Teheran sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto. Facendo proprie le parole degli esponenti più intransigenti del regime, Rafsanjani aveva definito i manifestanti “estremisti” che minacciano l’unità tra il popolo e il regime stesso. Una metamorfosi significativa - verosimilmente dettata da motivi di sopravvivenza politica - per un uomo che meno di due anni fa aveva fornito il suo appoggio, e quello della potente famiglia, all’opposizione di Mousavi e Karroubi.

Il declino di Rafsanjani nel panorama politico della Repubblica Islamica è in qualche modo legato alle stesse fortune del Movimento Verde, i cui leader condividono le medesime preoccupazioni della media e alta borghesia iraniana incarnata dal multimiliardario ex presidente. Il tentativo di rilancio del movimento di protesta contro il regime dopo lunghi mesi di silenzio non ha finora sortito successi significativi. Mentre Mousavi e Karroubi finivano agli arresti domiciliari - o addirittura in carcere, secondo quanto sostengono le rispettive famiglie - le manifestazioni indette nelle ultime settimane (il 14 e il 20 febbraio, e ancora il 1° marzo) sono state agevolmente represse dalle forze di sicurezza del regime.

Il sostanziale fallimento del Movimento Verde nel reclutare un numero significativo di manifestanti, malgrado la copertura costantemente positiva assicurata dai media occidentali, è da collegare all’incapacità di mobilitare i lavoratori iraniani e gli strati più poveri della popolazione urbana, come era accaduto invece nelle rivoluzioni di Tunisia ed Egitto. Un’inadeguatezza quella dei “riformisti”, guidati peraltro da veterani del regime messi da parte da molti anni, che è la conseguenza stessa della composizione sociale di un movimento nel quale a prevalere è la classe media privilegiata che lamenta la mancanza di una rapida apertura del paese al capitale internazionale e di un riavvicinamento agli Stati Uniti e all’Occidente.

I limiti del movimento anti-regime, così come lo si è conosciuto in questi due anni, appaiono ancora più gravi alla luce del malcontento che pure sembra ampiamente diffuso in buona parte della popolazione iraniana. Se l’ascesa al potere di Ahmadinejad nel 2005 era stata possibile soprattutto grazie alla promessa di porre rimedio alle disuguaglianze sociali prodotte dalle politiche neoliberiste dei predecessori più graditi all’Occidente - Rafsanjani e soprattutto Mohammad Khatami - l’illusione è stata infatti di breve durata.

Mentre all’inizio del suo primo mandato, Ahmadinejad ha incrementato la spesa sociale, più recentemente ha finito per accelerare le riforme di mercato, fino alla battaglia per l’abolizione degli ingenti sussidi ai beni di prima necessità, come pane, benzina e gasolio per riscaldamento, che finirà per penalizzare pesantemente proprio i redditi più bassi. Di fronte alle resistenze di una working-class preoccupata per l’impennata improvvisa dei prezzi e il conseguente impoverimento, il Movimento Verde ha sostanzialmente criticato il governo per non essersi mosso con sufficiente rapidità nell’eliminazione dei sussidi stessi e per aver sprecato preziose risorse economiche in “inutili” spese sociali.

D’altro canto, la relativa vittoria nella successione alla guida dell’Assemblea degli Esperti rafforza Ahmadinejad anche sul fronte della faida interna al regime con i conservatori religiosi, rappresentati dallo speaker del Parlamento Ali Larijani e dal fratello Sadeq, al vertice del sistema giudiziario iraniano. Sotto la spinta dei fratelli Larijani, il governo Ahmadinejad negli ultimi anni ha dovuto fronteggiare parecchi ostacoli, sia sul fronte parlamentare che su quello giudiziario, mentre entrambi avevano valutato una possibile contestazione dei risultati delle presidenziali del 2009, prima di desistere di fronte al sostegno fornito al vincitore da parte dello stesso Ayatollah Khamenei.

Nonostante le divisioni interne agli ambienti di potere della Repubblica Islamica, dunque, praticamente tutte le fazioni del regime e gli stessi “riformisti” approvati dalla stampa e dai governi occidentali condividono quelle stesse politiche economiche e sociali che hanno determinato l’esplosione delle rivolte in Medio Oriente e in Africa Settentrionale. Per questo motivo, la riuscita di una vera rivolta anche in Iran dipenderà dalla creazione di un movimento indipendente che faccia proprie le rivendicazioni di giustizia sociale e democrazia che stanno emergendo nel vicino mondo arabo.

di mazzetta

Lo ha detto Hillary Clinton di fronte al Foreign Relations Committee del Senato americano nella sua veste di Segretario di Stato degli Stati Uniti: gli Stati Uniti hanno perso la supremazia nel campo di battaglia dell'informazione internazionale e in particolare di quella televisiva. Il modello statunitense, fatto di tonnellate di pubblicità e discussioni spesso sconclusionate tra vedette parlanti, non riesce a fornire grandi informazioni agli americani, immaginatevi quanto sarà utile e comprensibile per gli stranieri, dice la Clinton. E come darle torto?

Sembrano finiti i tempi gloriosi in cui la CNN scandiva il tempo e il senso della prima guerra americana contro l'Iraq. L'epopea di Schwarzkopf, la prima guerra della storia in diretta televisiva, segnò la fortuna estemporanea di un canale televisivo globale all news: in momenti diversi agli americani interessa davvero poco. E infatti, nel giro di pochi anni, CNN ha dovuto moderare le sue aspirazioni e i suoi investimenti.

La spettacolare esibizione di potenza comunicativa della CNN ha però piantato un seme proprio nel Golfo ed è Al Jazeera, l'emittente dell'emiro del Qatar, che Clinton ha citato ad esempio, così schiaffeggiando l'orgoglio dell'intera industria americana dell'infotainment. In tempo di crisi gli americani hanno cercato notizie e le hanno trovate solo sul canale in inglese di Al Jazeera, che pure negli Stati Uniti è semi-clandestina, raggiungibile via Internet, ma quasi del tutto ostracizzata dai network americani, che non la includono nel pacchetti offerti ai loro clienti.

Lo stesso Dipartimento di Stato e molte cancellerie si sono regolate per giorni sulla base di quello che vedevano attraverso le dirette di al Jazeera, mentre il canale arabo diffondeva l'eco delle proteste e contribuiva ad infiammare una piazza araba dopo l'altra. Al Jazeera ha trasmesso quasi tutto quello che è successo nei paesi arabi nei primi mesi di questo 2011, mantenendo un'evidente timidezza solo nella copertura dei sommovimenti che hanno turbato le monarchie del Golfo, nobiltà e parentele lo impongono.

Mentre l'enorme sistema americano nominalmente dedicato all'informazione si trascinava in baruffe prive di senso come quelle ben note anche ai telespettatori italiani, “Al Jazeera ha cambiato le persone” dice la Clinton al Senato. Lo strumento comunicativo più potente della storia, il pilastro sul quale poggia tutta la definizione del senso degli Stati Uniti moderni, è ridotto a un attrezzo inservibile. Il canale diretto tra chi definisce la realtà e le masse chiamate ad interpretarla è saturato di rumore e pubblicità. Mentre Al Jazeera veicola la sua interpretazione del mondo e dei fatti alle elite globalizzate, gli Stati Uniti hanno perso questo fondamentale canale di comunicazione.

Da quel tubo non passa più la potente visione salvifica e modernizzatrice dell'America, non passano più le informazioni che servono ad aiutare gli americani nella vita, passa solo quello che genera i massimi ascolti o quello che vuole chi paga il conto. Passano pochi fatti e un mare di opinioni confuse, declamate come in un teatrino sempre uguale, per quanto ormai appare codificato nei suoi riti. Nemmeno quando scoppia il finimondo il flusso delle informazioni riesce a farsi strada nel tubo, perché non c'è quasi più nessuno in grado di riconoscere a quel flusso un valore superiore alle solite liti tra presunti esperti e da tempo non c'è più nessuno o quasi inviato sul campo per tempo a farsi un'idea di cosa succede.

Non c'è più nessuno nemmeno a girare sul campo le immagini che contaminano e influenzano la storia che stanno testimoniando, non c'è più nemmeno il grottesco controllo sulla selezione di quelle immagini che ha fatto sparire dai media americani le immagini dei caduti in guerra americani e persino dei loro funerali, censurate da Bush senza che il sistema dei media americani si sia ribellato.

Quello che la Clinton non ha detto e che non poteva dire, però, é che questa situazione è la conseguenza precisa delle pressioni di governo e corporation sui media americani. Da quando l'amministrazione Bush investì risorse imponenti per imporre narrative di fantasia, è diventato addirittura controproducente investire risorse per produrre notizie sgradite. Lo stesso discorso vale incidentalmente per i servizi segreti e diplomatici, impegnati nella propaganda e nell'assecondare il governo.

Se per fare carriera bisogna dire quello che il governo vuole sentirsi dire, non ha senso nemmeno perder tempo in indagini e studi. Gli stessi budget imponenti con i quali le multinazionali soffocano o tendono a screditare realtà sgradite, hanno spinto la macchina dell'informazione sempre più lontano dalla narrazione della realtà e sempre più immersa in una fiction dal copione confuso. Il giornalismo d'inchiesta e la cronaca senza strumentalizzazioni sono ormai rarità, quello che avviene oltre frontiera arriva ai fruitori dell'informazione solo se serve a vendere qualcosa o può essere strumentalizzato politicamente in chiave interna.

Hillary Clinton, Obama e gli altri leader del potente Occidente, si sono trovati inchiodati per giorni e giorni davanti ad Al Jazeera e non hanno potuto fare a meno di notare la differenza con l'informazione offerta dai media occidentali. Così come non hanno potuto fare a meno di notare la differenza con i bei tempi nei quali la definizione globale del senso e la narrazione della storia erano saldamente nelle mani di Washington. Oggi la regia televisiva è passata di mano, dice la signora Clinton, che però sembra lasciare agli stessi media americani l'onere di raccogliere la sfida.

Resta da vedere se il discorso del Segretario di Stato troverà orecchie interessate e capaci di comprenderne l'essenza, estremamente allarmante per gli interessi degli Stati Uniti, e se emergerà una credibile risposta occidentale o americana a quello che oggi appare il dominio incontrastato di Al Jazeera.

 

 


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