di Roberto Giardina

BERLINO. Ai tedeschi va male, e gli europei godono. Sembra che i sudditi di Frau Angela non riescano a combinarne una giusta. Sono gli unici a non voler andare alla guerra in Libia. Come osano mettere in pericolo la compatta Unione Europea, e tradiscono i britannici, i francesi, e gli americani? Loro che si spacciano per eroi nibelungici, per superuomini ariani, sono i primi a spaventarsi per un botto lontano, a Fukushima in Giappone, e in fretta e in furia abbandonano l´atomo, mentre appena a settembre avevano prolungato la vita delle centrali fino al 2040.

Provocano danni di miliardi all´Europa, soprattutto a Nicolas, che sperava di vendere le sue centrali da rottamare all´amico Silvio. Per colpa dei crucchi, anche gli italiani hanno detto “nein”. Non hanno capito che cosa si perdono. Dove è andata a finire la mitica coerenza teutonica? E´ vero che Angela è una signora, ma pur sempre Made in Germany.

Non è finita. Arriva il batterio mortale e se la fanno sotto, in tutti i sensi, figurato e realistico. Lo chiamano alla loro maniera EHEC, gli unici in Europa, così all´inizio gli altri non capiscono. Perché hanno paura del vero nome e cognome del batterio, Escherichia Coli? Sono sempre stati maniaci delle sigle: non si definiscono BRD, invece che Deutschland, e chiamavano DDR l´altra Germania?  Come si può? Non è dignitoso.

Erano la patria dei geni, degli scienziati, di Einstein e di von Braun, che dalle V2 arrivò alla Luna, ed ora non riescono a debellare un semplice batterio. E sconvolgono l´Europa. Danno la colpa ai cetrioli spagnoli, poi ai pomodori olandesi, quelli bellissimi che non sanno di nulla, all´insalata di casa loro, ai céchi e ai greci. Provocano milioni di danni agli agricoltori e non vogliono rimborsarli. Accusano i germogli di soja, quelli dei fagioli, e poi i broccoli. Cambiano idea ogni giorno.

I loro politici impartiscono saggi consigli: lavatevi le mani. Lo diceva anche mia nonna. E come mai muoiono soprattutto le donne? Perché stanno più attente all´igiene dei maschi, così alla fine hanno meno anticorpi. In altre parole, noi maschi siamo dei maiali. O moriamo da giovani, o diventiamo immuni o quasi come Achille. E noi europei che ci aspettavamo un piano anti epidemia, come una Blitzkrieg, una guerra lampo.

La Germania non è più quella di una volta. E neanche ci dispiace. In tedesco si chiama Schadenfreude, che al solito non si può tradurre con una sola parola, sarebbe la gioia quando a qualcun altro va male.  Dato che il termine esiste solo nella lingua di Goethe, qualcuno ha dedotto che solo i tedeschi sono così maligni. Ma almeno questo non è vero. Come dimostriamo con la nostra irrefrenabile soddisfazione per i guai di Berlino e dintorni.

Io vivo in Germania da troppi anni, e so da sempre che i tedeschi non sono perfetti. Per fortuna, altrimenti avrebbero vinto la guerra, trasformando l´Europa in un giardino tutto pulito e ordinato come piace a loro, disseminato da orripilanti nanetti. Anzi, sono ben lontani dall´essere perfetti: sono loro che hanno soprannominato la capitale “Tunis”.

Non è un omaggio alla vecchia Cartagine, per cui facevo il tifo da bambino palermitano, ma un gioco di parole con Tue nichts, non far nulla. Nella metropoli sulla Sprea nessuno lavora. Sarebbe la Napoli della Mitteleuropa. Sempre loro a sostenerlo.

I guai cominciano quando lavorano: idraulici, elettricisti, meccanici, combinano guai, a meno che non siano d´importazione, ex jugoslavi, polacchi, persino italiani. Anni fa si leggeva nei giornali l´espressione “Italienische Verhältnisse”, cioè una situazione all´italiana: scioperi, governi ballerini, corruzione. Non si legge più, sostituita da Hamburghische Verhältinisse”, una situazione all´amburghese, la città anseatica dove si ricorre da dieci anni a elezioni anticipate, rifugio di terroristi e della criminalità organizzata. Ormai li abbiamo contagiati, ma l´EHEC non c´entra.

Quando scoppiò lo scandalo dei conti neri usati da Helmut Kohl per finanziare il suo partito, m’invitarono a una trasmissione radio, dove potevano intervenire anche gli ascoltatori. “Che cosa prova lei come italiano?” mi chiese il conduttore. Come italiano mi considerava un esperto in materia. “Schadenfreude”, risposi con sincerità. Fa bene al cuore, vedere che non siamo i soli. Un´ascoltatrice mi rimproverò: “Fa male - mi disse - non siamo amici, voi italiani e noi tedeschi? Bisogna stare vicini agli amici quando va male”. Ma lei doveva essere una luterana, noi latini siamo diversi. Forse non migliori.

In questo caso con la Schadenfreude sarei prudente. Angela ha fatto benissimo a non partire per la Libia, dove gli altri si trovano già nei guai. E speriamo che non la convincano a cambiare idea. Che male c´è a restare da soli, se si ha ragione? E sull´atomo, come darle torto? Però “nein” l´avevamo detto prima noi, solo che il “nein” all´italiana è sempre particolare, non vale per sempre, e si può interpretare. Rimane il batterio: la colpa forse è che hanno parlato troppo. A Venezia quando imperversava il colera, molto simile all´EHEC, le autorità negavano tutto per non nuocere al turismo. E non facevano la conta dei morti. Grazie a loro Thomas Mann scrisse un capolavoro.

L´Istituto Roland Koch, dove gli scienziati studiano il rimedio, ha un sito internet accessibile a tutti aggiornato di ora in ora, in base alle ricerche. Le ipotesi lette da noi giornalisti diventavano certezze alla tv o sui giornali. Un eccesso di trasparenza. Ma non mi sembra un difetto. Forse sono diventato troppo tedesco, o soffro della sindrome di Stoccolma, sempre meno insidiosa di Frau Escherichia.

di Michele Paris

A sette mesi dall’inizio della stagione delle primarie, alcuni dei principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Repubblicano si sono affrontati un paio di giorni fa in diretta televisiva da un campus universitario del New Hampshire. Alla luce del basso profilo di quasi tutti i sette repubblicani aspiranti alla Casa Bianca, il dibattito ha permesso a molti di loro di presentarsi al grande pubblico americano, lasciando gli attacchi personali alle fasi successive di una competizione che si preannuncia molto accesa per conquistare il diritto di sfidare Barack Obama nel 2012.

Mentre il primo “faccia a faccia” in casa repubblicana, andato in scena già nel mese di maggio in South Carolina, era stato disertato da molti candidati, in questa occasione erano presenti quasi tutti i più accreditati concorrenti per la nomination. La discussione di due ore è stata ospitata dal Saint Anselm College di Goffstown, in New Hampshire, lo stato che figura al secondo posto nel calendario delle primarie repubblicane, dopo i tradizionali caucus dell’Iowa.

La corsa alla nomination per la Casa Bianca nel Partito Repubblicano sta facendo segnare un certo ritardo rispetto agli anni precedenti e il campo di partecipanti, oltre a non far intravedere ancora un chiaro “front-runner”, è affollato da personalità politiche di secondo piano che faticano a suscitare l’interesse degli elettori. Per molti osservatori, la carenza di personaggi di peso con una riconoscibilità immediata a livello nazionale andrebbe in parte imputata all’influenza sul partito dei Tea Party con la loro presunta critica anti-establishment. Molti repubblicani di vertice apparirebbero cioè troppo legati allo status quo di Washington, contro cui la retorica populista dei Tea Party si scaglia, privandoli del loro determinante sostegno.

Ancora incerta se partecipare o meno alla gara è poi la candidata potenzialmente più controversa e in grado di catturare l’attenzione dei media nazionali, l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin, beniamina proprio del movimento Tea Party. Quest’ultima, assieme ad altri due possibili contendenti tuttora in dubbio - l’ex governatore dello Utah e fino a poche settimane fa ambasciatore americano in Cina, John Huntsman, e il governatore del Texas, Rick Perry - erano gli assenti più autorevoli al dibattito di lunedì sera in New Hampshire.

I riflettori della serata dedicata ai candidati del Partito Repubblicano erano puntati in particolare su Mitt Romney, il miliardario mormone ex governatore del Massachusetts, già sconfitto nelle primarie del 2008 nonostante le enormi somme di denaro sborsate di tasca propria per finanziare la sua campagna.

Romney ha ottenuto finora il gradimento maggiore nei sondaggi preliminari tra gli elettori del suo partito, se non altro perché più conosciuto rispetto agli altri candidati. Come già nelle precedenti elezioni, tuttavia, sono già emersi tutti i limiti di un candidato tutt’altro che entusiasmante e che continua a far notizia per una serie di clamorosi voltafaccia.

Innanzitutto, Romney è esposto ai continui attacchi dei repubblicani conservatori per aver messo la propria firma su una riforma sanitaria che ha ispirato quella fatta approvare da Obama l’anno scorso quando era governatore del Massachusetts. Fin dall’annuncio della sua seconda corsa alla casa Bianca, Romney ha così rinnegato la legge da lui promossa, definendo quella uscita dal Congresso democratico una prevaricazione del governo federale e promettendo di revocarla una volta eletto. Uguale inversione di centottanta gradi, ad esempio, Romney ha fatto poi registrare anche sul fronte aborto, per il quale era in passato a favore.

Mostrarsi all’altezza della situazione in New Hampshire per Romney risultava fondamentale, dal momento che le primarie in questo stato decretarono la fine prematura delle sue speranze di nomination nel 2008. Romney in quell’occasione perse da John McCain dopo che già in precedenza aveva dovuto cedere il passo all’ultraconservatore Mike Huckabee nei caucus dell’Iowa. Per rilanciare la sua immagine, Romney ha così puntato sulla sua esperienza da manager di successo nel settore privato, in grado di creare posti di lavoro per un’economia americana in affanno.

L’alternativa all’opaco Mitt Romney sembra essere un altro ex governatore, Tim Pawlenty del Minnesota. Ancora poco conosciuto alla stragrande maggioranza degli americani, Pawlenty sta da qualche tempo portando la sua organizzazione negli stati che voteranno per primi nelle primarie del 2012. Durante il dibattito dell’altro giorno ha sottolineato nuovamente le sue origini operaie, anche se come gli altri candidati sta facendo di tutto per compiacere la base conservatrice del partito e i grandi finanziatori. In questo senso va intesa la sua recente proposta di tagliare in maniera devastante la spesa pubblica - assieme alla riduzione delle tasse per i redditi più alti - in caso di elezione.

Tra i più noti dei sette repubblicani presenti in New Hampshire è invece Newt Gingrich, speaker della Camera dei Rappresentanti dal 1995 al 1999 e protagonista della “Rivoluzione repubblicana” che portò alla conquista del Congresso da parte del suo partito nel 1994. La sua candidatura appare però moribonda già a poche settimane dall’avvio ufficiale della corsa alla nomination.

Qualche giorno fa, infatti, Gingrich ha dovuto incassare le dimissioni di massa dei vertici del suo staff, scontenti per la sua scarsa dedizione alla causa. Gingrich e signora avrebbero tra l’altro recentemente abbandonato le operazioni sul campo per una vacanza nelle isole greche di due settimane. I membri del suo entourage hanno accusato l’ex leader repubblicano di aver lanciato la campagna per la Casa Bianca solo come mezzo pubblicitario per le sue fatiche editoriali.

La sorte di Gingrich era probabilmente d’altra parte già segnata fin dal 15 maggio, quando una incauta dichiarazione al programma “Meet the Press” della NBC aveva suscitato un polverone tra i repubblicani. Durante l’intervista, il candidato repubblicano aveva criticato sia la riforma sanitaria di Obama sia, soprattutto, il progetto avanzato dal deputato Paul Ryan (presidente della Commissione Bilancio della Camera) per smantellare di fatto Medicare, il programma assistenziale pubblico per gli over 65.

Le reazioni seguite a questa presa di posizione di Gingrich - peraltro subito ritrattata - dimostrano a sufficienza lo spostamento a destra del baricentro politico negli Stati Uniti. Negli anni Novanta Newt Gingrich era considerato uno dei politici più a destra al Congresso americano, come testimoniava la sua campagna proprio contro il programma Medicare, mentre oggi appare come una delle voci più moderate all’interno del Partito Repubblicano.

In questo scenario, gli assalti non solo a Medicare, ma anche all’altro popolare programma federale Medicaid (riservato ai redditi più bassi) e al sistema pensionistico, non solo non sono più da evitare per il bene di un candidato, ma appaiono anzi elementi essenziali nella corsa a chi si posiziona più a destra per conquistare una certa credibilità tra l’elettorato conservatore e qualche elogio sui giornali più importanti.

Questa evoluzione è testimoniata anche dal leit-motiv del recente dibattito repubblicano, animato da un coro comune di critiche al presidente Obama. Nonostante quest’ultimo nei primi due anni e mezzo del suo mandato abbia perseguito pressoché esclusivamente politiche favorevoli ai grandi interessi economici e finanziari americani, nella retorica degli attacchi repubblicani viene continuamente dipinto come pseudo-socialista, anti-business e incapace di iniziative che stimolino il settore privato per generare posti di lavoro.

Di queste posizioni di estrema destra è portatrice soprattutto l’unica presenza femminile tra i sette candidati repubblicani, la deputata del Minnesota Michele Bachmann, anch’essa molto vicina ai Tea Party. Grazie anche all’assenza di Sarah Palin, la Bachmann ha mostrato forse la maggiore aggressività durante il dibattito, durante il quale ha ribadito la sua ferma opposizione all’intervento americano in Libia, così come alle riforme di Obama della sanità e del sistema finanziario.

A completare il desolante schieramento dei candidati alla Casa Bianca che hanno animato il secondo confronto pubblico tra i repubblicani sono stati infine l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, tra i più accesi conservatori sui temi sociali e gravitante attorno ai Tea Party; il deputato del Texas Ron Paul, attestato su posizioni libertarie e già in corsa alle presidenziali del 2008; e l’uomo d’affari di colore Herman Cain, ex CEO della catena di ristoranti “Godfather’s Pizza” che sta riscuotendo qualche consenso facendo leva più che altro sull’odio razziale nei confronti dei musulmani d’America.

di mazzetta

Con la terza vittoria consecutiva dell'AKP e di Erdogan, si può considerare compiuta e matura la transizione della Turchia dal governo sotto tutela dei militari a una democrazia funzionante secondo gli standard europei. Condizione da soddisfare per accedere a pieno titolo nell'Unione Europea, ma soprattutto un guadagno netto per i cittadini turchi, che da un decennio di governi Erdogan hanno ricavato pace sociale e un indubbio sviluppo economico.

Queste ultime elezioni, pur assegnando la maggioranza assoluta dei consensi al partito islamico, hanno probabilmente segnato il limite massimo di penetrazione dell'AKP nella società turca. Il restante quasi 50% dell'elettorato è rappresentato da un partito repubblicano al 25%, un'estrema destra fascista e nazionalista che resiste al 16% e dal voto dell'elettorato curdo, che è riuscito comunque a eleggere qualche decina di parlamentari come indipendenti, per aggirare la clausola di sbarramento.

L'AKP può costituire un governo monocolore, ma non ha i numeri per procedere a riforme costituzionali senza passare per le forche caudine dei referendum confermativi e dovrebbe rendersi conto che il consenso di della metà dei turchi è il massimo cui può aspirare ed è, nello stesso tempo, tantissimo. Forte come non mai, Erdogan si è mosso con accortezza in questi anni ed è riuscito a rendere la Turchia un paese attivo e considerato sulla scena internazionale, in particolare sul delicatissimo scacchiere mediorientale. Erdogan non è mai apparso eccezionale, ma se l'è cavata con dignità in situazioni molto difficili e di questi tempi non è facile trovare leader e paesi che riescano a non perdere la faccia in mezzo agli stravolgimenti politici vicini e lontani.

Lo sviluppo economico di questi anni ha reso più forte il suo partito, finora molto simile a una Democrazia Cristiana di stampo islamico, eccessi bigotti compresi, ma ha fatto crescere moltissimo anche il resto della società turca secolarizzata, che si è emancipata in gran parte dalla tutela dell'esercito.

Militari che, da tempo, non hanno più occasione di atteggiarsi a protettori della laicità della repubblica turca e nell'ultimo decennio hanno perso peso sotto i colpi di numerosi scandali e della pressione europea, che governi militari o controllati dai militari in Europa non li vuole.

Peccato che l'anticamera per la Turchia sia destinata a durare fino a quando non si sfogherà l'ondata di consensi per la destra xenofoba europea, ormai unico vero ostacolo all'adesione turca all'UE. E peccato anche che i turchi se ne sentano giustamente offesi, non lo meritano.

In casa la quiete con i curdi regge, anche se non si può dire consolidata e le domande dei curdi sono ancora lontane dall'avere soddisfazione; ma oltre i confini turchi ci sono il Caucaso, l'Iran, l'Iraq e la Siria che adesso sforna migliaia di profughi. La Turchia resta una porta aperta verso i regimi difficili, in particolare quelli minacciati dalla primavera araba e quello iraniano, che però fino ad ora hanno educatamente rifiutato le mediazioni turche e hanno preferito giocare il tutto per tutto.

Anche la storica alleanza con Israele, costruita dal regime militare, è stata interpretata con misura e maggiore indipendenza di giudizio, tanto che è proprio nei momenti di frizione con Israele che Erdogan ha guadagnato punti presso le cancellerie occidentali, riuscendo ad affermare le ragioni del suo paese con grande dignità e misura.

Anche con la Siria Erdogan ha agito con il tempismo giusto e senza turbare nessuno dei numerosi occidentali dalle strane pretese. Prima ha avvicinato il governo di Assad e cercato di accompagnarlo per anni nella direzione gradita agli Stati Uniti, poi l’ha mollato all'unisono con l'Europa associandosi alla condanna britannica del regime quando il regime si è fatto sordo agli inviti a non massacrare i siriani. Facendo per di più una discreta figura, non come i voltafaccia del governo italiano su Gheddafi, Ben Alì e Mubarak. Erdogan non lo deride nessuno.

A meno di evoluzioni imprevedibili, l'AKP è destinato a rimanere a lungo il primo partito turco, ma  anche se il terzo mandato di Erdogan si dovesse confermare all'altezza dei due precedenti, non sembra proprio che ci sia da temere la trasformazione di uno stato islamico sul Bosforo.

Per ora, pur nella vittoria di un partito d'ispirazione confessionale, ci sarebbe da festeggiare la nascita di una democrazia compiuta, per le paranoie contro lo “Stato islamico di Turchia” e l'invasione dei musulmani in Europa non è tempo e non è luogo e si può sperare che non lo diventi mai.

 

 

di Michele Paris

La dodicesima settimana dell’aggressione militare NATO contro la Libia è iniziata con una serie d’incursioni aeree tra le più intense finora registrate. Un’escalation, quella messa in atto da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e dai loro alleati, avvenuta in contemporanea con un meeting dei membri del Patto Atlantico a Bruxelles per aumentare le pressioni su Gheddafi e favorire un cambiamento di regime.

Nel corso del summit dei paesi aggressori, il Segretario alla Difesa americano uscente, Robert Gates, assieme ai suoi colleghi di Parigi e Londra, ha sollecitato alcuni governi ad aumentare il loro impegno bellico. Destinatari delle richieste americane sono stati quei paesi che hanno finora dimostrato le maggiori perplessità circa le operazioni contro la Libia, vale a dire Germania, Turchia, Spagna, Polonia e Olanda.

Il tentativo di coinvolgere nell’intervento altri governi è stato fatto per alleviare il peso, soprattutto economico, degli attacchi, finora a carico di una manciata di paesi. Nonostante le cifre ufficiali parlino di oltre dieci mila incursioni effettuate sulla Libia dalla fine di marzo, l’obiettivo della NATO di piegare la resistenza delle forze fedeli a Gheddafi e spianare la strada per i ribelli di stanza a Bengasi è, infatti, ancora lontano dall’essere raggiunto.

Come tutta l’operazione, anche la retorica di Gates tesa ad allargare la coalizione si basa su una falsa preoccupazione “umanitaria”. Il numero uno del Pentagono ha così insistito perché paesi come Germania o Turchia facciano di più per implementare la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che autorizza l’uso della forza per proteggere la popolazione civile. Un appello singolare quello di Gates, dal momento che fin dal giorno successivo al voto dell’ONU, la NATO ha calpestato quella stessa risoluzione, schierandosi a fianco di una delle due parti coinvolte nel conflitto, senza alcuno riguardo per i civili residenti nelle località controllate da Gheddafi.

Pur senza nuovi contributi, le forze attuali della NATO hanno comunque portato a termine intensi bombardamenti negli ultimi giorni. Nella sola giornata di martedì, come ha testimoniato un inviato del New York Times a Tripoli, sono state ben 157 le incursioni aeree nella capitale libica, tre volte di più rispetto alla precedente media giornaliera. A differenza di quanto fatto finora, i bombardamenti sono poi avvenuti in pieno giorno, rivelando sia l’intenzione di terrorizzare la popolazione sia l’abbandono definitivo dei rimanenti scrupoli per eventuali vittime civili.

Con le difese aeree libiche pressoché completamente annientate, le bombe occidentali, secondo alcune fonti, avrebbero causato solo tra martedì e mercoledì più di trenta morti, distrutto svariati edifici governativi e danneggiato pesantemente abitazioni, scuole e ospedali. Con la consueta giustificazione che gli obiettivi colpiti sarebbero “centri di comando” da cui partono gli ordini del regime per colpire i civili, le forze NATO hanno praticamente raso al suolo il complesso residenziale di Gheddafi Bab al-Aziziya, ma anche l’accampamento nel deserto a sud di Tripoli dove il rais era solito accogliere i propri ospiti stranieri all’interno di lussuose tende.

Questi ultimi bersagli, assieme a varie dichiarazioni dei leader politici e militari alleati, evidenziano come l’assassinio mirato di Gheddafi - del tutto illegale - sia ormai un obiettivo principale delle operazioni NATO. La sua rimozione con mezzi meno estremi era d’altra parte apparsa da subito complicata alla luce dell’inadeguatezza delle forze del governo di transizione sostenuto dall’Occidente. Allo stesso modo, il tentativo di fomentare una rivolta contro Gheddafi all’interno del regime non ha ancora prodotto risultati concreti.

Il cambio di marcia nei bombardamenti è stato segnato inoltre dai recenti annunci da parte di Francia e Gran Bretagna dell’impiego di elicotteri d’attacco che, volando a quote più basse, sono in grado di colpire con maggiore precisione ed efficacia, pur essendo esposti più facilmente al fuoco nemico. Gli Apache britannici e i Tiger francesi hanno iniziato le loro incursioni sabato scorso e, come ha fatto notare alla stampa il vice-premier russo Sergei Ivanov, il loro utilizzo rappresenta “l’ultimo passo che precede un’operazione di terra”.

Il giorno successivo al meeting di Bruxelles, si è riunito poi per la terza volta il cosiddetto “Gruppo di contatto” per discutere del dopo Gheddafi, quando alla guida del paese nord-africano dovrebbe esserci un governo fantoccio formato dai leader dei ribelli di Bengasi. Ad Abu Dhabi, oltre alla promessa di stanziare un miliardo di dollari a beneficio di un “Consiglio Nazionale di Transizione” alla ricerca disperata di fondi, si è parlato in sostanza dei progetti di spartizione delle ricchezze energetiche della Libia nel prossimo futuro.

Oltre a gas e petrolio, all’Occidente fanno gola però anche i miliardi di dollari del fondo sovrano libico depositati dalla famiglia Gheddafi all’estero e che vari paesi hanno da tempo provveduto a congelare. L’intraprendenza finanziaria del rais e della sua cerchia aveva d’altra parte attirato come avvoltoi banche e governi occidentali quando ancora il regime di Tripoli veniva considerato un affidabile partner d’affari.

I rapporti tra le istituzioni finanziarie occidentali e Gheddafi, com’è noto, erano ben consolidati e, alla vigilia delle rivolte nel mondo arabo, poco o nulla ci si curava dei diritti umani della popolazione libica. Le transazioni finanziarie avvenivano ai più alti livelli dei vertici bancari, facendo ricorso quando necessario a pratiche illegali, verosimilmente con il più o meno tacito consenso dei governi.

Tra gli esempi emersi più recentemente, come ha rivelato l’altro giorno il Wall Street Journal, ci sarebbe ad esempio un’indagine aperta negli USA dalla SEC (Securities and Exchange Commission, l’agenzia federale che vigila sul mercato azionario americano) e che riguarda alcune importanti banche d’investimenti.

Secondo gli ispettori statunitensi il gigante Goldman Sachs avrebbe violato una legge sulla corruzione progettando di versare 50 milioni di dollari all’Autorità per gli Investimenti della Libia, incaricata di gestire un fondo sovrano di oltre 40 miliardi di dollari e controllata appunto dalla famiglia Gheddafi. Il pagamento - alla fine bloccato dalla rivolta esplosa nel paese - avrebbe dovuto rientrare in un piano per recuperare le pesanti perdite subite dal fondo libico su un investimento di 1,3 miliardi di dollari gestito da Goldman Sachs.

A intrattenere proficui rapporti con il fondo di Tripoli, secondo le carte delle indagini in corso, sarebbero state però anche altre banche di primo piano nel panorama finanziario internazionale, tra cui almeno Société Générale, HSBC, Carlyle Group, Bear Sterns e la ormai defunta Lehman Brothers.

di Michele Paris

A spuntarla nell’incertissimo ballottaggio delle elezioni presidenziali in Perù, domenica scorsa, è stato l’ex ufficiale dell’esercito Ollanta Humala. Il candidato nazionalista di sinistra dell’alleanza elettorale “Gana Peru” ha beneficiato della diffusa voglia di cambiamento tra i ceti più disagiati del paese andino, superando con un margine inferiore al 3 per cento Keiko Fujimori Higuchi, la 36enne figlia dell’ex presidente peruviano, ora in carcere, Alberto Fujimori.

Per parecchie ore dopo la chiusura dei seggi, la corsa a due per la successione al presidente Alan García è risultata troppo incerta per proclamare un vincitore. Quando alla conta finale dei voti espressi mancavano solo alcuni distretti rurali e più poveri - favorevoli a Humala - il risultato è apparso ormai acquisito. Humala ha così conquistato la presidenza, che gli era sfuggita nel 2006, con poco più del 51 per cento delle preferenze, mentre Keiko Fujimori si è fermata al di sotto del 49 per cento.

A influire in maniera decisiva sull’esito finale è stato probabilmente il risultato della capitale Lima, dove Fujimori si è imposta sul suo rivale con un margine del 15 per cento, cioè notevolmente inferiore rispetto a quanto ci si attendeva. Non solo Humala ha raccolto la maggioranza dei consensi nelle aree più povere della metropoli, ma sembra avere anche convinto almeno una parte della classe media, la quale ha correttamente interpretato la trasformazione di un candidato che cinque anni fa si era presentato agli elettori come l’incarnazione peruviana del presidente venezuelano Hugo Chávez.

Per alleviare i timori delle élites economiche e finanziarie del paese, il neo presidente aveva infatti condotto una campagna elettorale all’insegna della moderazione. La svolta socialista prospettata agli elettori per l’economia peruviana nel 2006 è stata così abbandonata e la promessa di modesti provvedimenti per aumentare la spesa sociale si è accompagnata alle rassicurazioni circa il sostanziale mantenimento del sistema ultraliberista che ha caratterizzato gli ultimi due decenni sotto la guida dei presidenti Fujimori, Toledo e García.

Per Humala la fonte d’ispirazione non è stato più Chavez, bensì l’ex presidente brasiliano Lula, modello decisamente più adattabile alla compatibilità tra progresso sociale e garanzie per i mercati finanziari nel contempo. Già all’indomani della sconfitta di misura del 2006, d’altra parte, Humala aveva cercato di presentarsi con un volto moderato, come hanno rivelato alcuni documenti pubblicati recentemente da Wikileaks. In essi vengono descritte alcune sue visite all’ambasciata USA di Lima per convincere gli americani del suo “pragmatismo” in ambito economico e per affermare il suo contributo alla stabilità del paese di fronte a frange “radicali che minacciano il sistema”.

Nel suo discorso subito dopo la diffusione dei primi risultati, Humala ha chiaramente espresso la volontà della sua amministrazione di continuare a promuovere maggiori investimenti esteri in Perù. Ciononostante, a dimostrazione che anche un sussulto della casa latifondista viene percepito come una minaccia, la risposta dei mercati alla sua elezione è stata del tutto negativa. Le contrattazioni alla borsa peruviana lunedì sono state addirittura sospese per alcune ore dopo un crollo dell’indice del 12,5 per cento. A far segnare i ribassi più significativi sono stati i titoli delle compagnie estrattive, a causa dei timori per una imminente nuova tassa sui loro enormi profitti.

Il presidente dell’associazione degli industriali del Perù si è affrettato poi a chiedere al presidente eletto un gesto che possa assicurare quei settori maggiormente in apprensione per la sua elezione. A chi gli ha fatto notare come la Borsa fosse già crollata dopo la sua affermazione nel primo turno del 10 aprile scorso, Humala tramite un suo portavoce ha tenuto ad affermare che la stabilità del paese non sarà messa a repentaglio dalla sua azione di governo.

Queste paure non rappresentano in ogni caso una predisposizione univoca verso Ollanta Humala dei centri di potere economco-finanziari peruviani. Così come le divisioni al loro interno avevano già permesso la vittoria di Humala al primo turno delle presidenziali disperdendo il voto tra vari candidati di centro, allo stesso modo il successo nel ballottaggio di domenica è giunto in parte grazie all’appoggio esplicito di rappresentanti di spicco della classe dirigente. Tra di essi, hanno appoggiato Humala in maniera più o meno convinta l’ex presidente Alejandro Toledo e lo scrittore premio Nobel Mario Vargas Llosa.

Quest’ultimo, in particolare, dopo aver definito il ballottaggio tra Humala e Keiko Fujimori come una scelta tra “l’AIDS e il cancro”, è risultato decisivo nel dissipare le paure nutrite nei confronti del primo. “Una vittoria di Humala - ha sostenuto Vargas Llosa alla vigilia del voto - non metterebbe in pericolo lo sviluppo economico in Perù, dal momento che il sistema democratico, l’economia di mercato e la proprietà privata saranno rispettati”.

Tra la maggioranza della popolazione peruviana, la candidatura di Humala è stata vista comunque come un’opportunità per porre un freno alle politiche neo-liberiste e allo sfruttamento delle risorse energetiche del paese da parte delle multinazionali estere. Per gli strati più poveri la speranza è ora quella di una qualche redistribuzione della ricchezza prodotta in un paese la cui economia è cresciuta del 60 percento nell’ultimo decennio e di quasi il 9 per cento nel solo 2010. A beneficiare di questa ricchezza è stata tuttavia solo una minima parte della popolazione del Perù, mentre il resto continua a fare i conti con povertà persistente, stipendi inadeguati e aumento del prezzo dei beni di prima necessità.

A testimonianza della profonda avversione popolare per le politiche implementate in questi anni, così come delle aspettative alimentate da Ollanta Humala, nei quartieri più poveri di Lima e in molte altre città del Perù sono scese in piazza migliaia di persone per festeggiare la vittoria elettorale. A ciò va aggiunto inoltre il pericolo evitato di ritrovare il paese immerso nuovamente nell’incubo del “fujimorismo” a poco più di dieci anni dalla caduta dell’ex presidente, condannato a 25 anni di detenzione per corruzione e per i massacri commessi dagli squadroni della morte durante la sua presidenza.

Il vantaggio di cui godrà Humala è quello di avere come partner Bolivia ed Ecuador, che con programmi di riforma ben più accentuati di quello proposto dall’ex ufficiale, garantiranno un retroterra di scambi politici e commerciali regionali attraverso i quali reperire risorse per finanziare i piani di miglioramento economico del Perù. E l'ingresso del Perù nel Banco del Sur e in Unasur, costituirà, comunque, un oggettivo rafforzamento del blocco democratico latinoamericano.

Nonostante ciò, però, l’immediato futuro per il nuovo presidente sarà poi complicato anche dalle inquietudini che pervadono le comunità indigene, preoccupate per l’indifferenza del governo nei loro confronti sulla questione delle concessioni delle terre all’industria estrattiva. In definitiva, Humala sarà chiamato a fare una scelta tra le necessità delle comunità agricole e quelle delle multinazionali, con possibili nuove proteste e la prospettiva di vedere crollare in fretta il gradimento del proprio governo.

La condotta moderata dell’amministrazione Humala, infine, sarà verosimilmente dettata anche dalla realtà politica. Il movimento del presidente eletto può contare infatti su appena 47 seggi dei 130 che compongono il Parlamento di Lima, costringendolo così a cercare l’appoggio e il consenso delle formazioni politiche di centro. Ma nonostante il quadro appena descritto, la vittoria dell’ex militare apre comunque una diversa fase politica per il paese andino. E forse, più che le rassicurazioni di Humala, per la borghesia nazionale e le multinazionali, conta maggiormente un programma di riforme sociali ed economiche che, pur non radicali, sarebbero sufficienti a destabilizzare un sistema che si regge solo grazie al combinato di miseria e repressione che detta il miracolo economico per l’economia e l’asfissia dei settori popolari che lo determinano.


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