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di Michele Paris
Se il Congresso di Washington non riuscirà a trovare un accordo entro il prossimo 2 agosto per alzare il tetto massimo del debito americano, per la prima volta nella sua storia il governo federale potrebbe ritrovarsi senza denaro per far fronte alle proprie scadenze. Le negoziazioni tra il Partito Democratico e quello Repubblicano stanno tuttavia procedendo tra molte difficoltà, con il presidente Obama che questa settimana assumerà in prima persona il comando delle trattative per giungere ad un accordo che, con ogni probabilità, finirà per far pagare le conseguenze del gigantesco debito statunitense alle classi più disagiate.
Il governo americano non è più in grado di raccogliere denaro già dallo scorso mese di maggio, quando è stato toccato il tetto massimo per il deficit federale di 14 mila e 300 miliardi di dollari. Come ha avvertito il Segretario al Tesoro, Tim Geithner, senza un intervento legislativo per innalzare tale limite, a breve gli Stati Uniti potrebbero addirittura rischiare il default, scatenando una nuova crisi finanziaria su scala planetaria.
Già all’attacco da tempo per la situazione insostenibile del debito pubblico americano - causato peraltro in gran parte da due costosissime guerre e da onerosi tagli alle tasse per i ricchi messi in atto durante l’amministrazione Bush - i repubblicani al Congresso hanno preso la palla al balzo per proseguire la loro campagna di drastica riduzione della spesa federale. Il Partito Repubblicano acconsentirà così ad un nuovo innalzamento del debito solo ottenendo in cambio dai democratici ulteriori nuovi tagli alla spesa pubblica.
Per trovare un punto d’incontro tra i due partiti, da qualche settimana sono in corso discussioni sotto la guida del vicepresidente, Joe Biden. Qualche giorno fa, però, le trattative sono saltate in seguito all’abbandono del tavolo da parte dei due delegati repubblicani, il deputato della Virginia Eric Cantor, leader di maggioranza alla Camera, e il senatore dell’Arizona Jon Kyl. Il motivo che ha portato a questa conclusione sarebbe l’ostinazione dei democratici di voler includere nel compromesso per ridurre il deficit un qualche amento delle tasse per le corporation e i redditi più elevati.
Nel corso dei colloqui, il Partito Democratico ha già ceduto a svariate richieste dei repubblicani, ben decisi a tagliare più di due mila miliardi di dollari di spese nei prossimi anni. Tra le concessioni più dolorose che verranno verosimilmente estratte dai repubblicani c’è quella di ristrutturare pesantemente i popolari programmi di assistenza pubblica Medicare e Medicaid.
Nonostante la scarsa resistenza democratica, il Partito Repubblicano ha deciso infine di portare alle estreme conseguenze la propria linea, rifiutandosi di prendere in considerazione qualsiasi nuova imposizione fiscale per i grandi interessi economici e finanziari.
Lo scontro tra i due partiti era stato comunicato in anticipo al presidente Obama dallo speaker della Camera, John Boehner, nel corso di una visita alla Casa Bianca che ha gettato le basi per gli sviluppi futuri della vicenda. La messinscena a Washington ha poi seguito un copione consolidato.
Dopo la rottura delle trattative da parte dei repubblicani Cantor e Kyl, il presidente ha annunciato il suo imminente impegno diretto per ristabilire i colloqui tra le parti, mentre la leadership democratica al Congresso non si è lasciata sfuggire l’occasione per presentare il proprio partito come il difensore dei lavoratori e della classe media americana.
La pretesa dei democratici di costituire un baluardo contro i poteri forti non ha in ogni caso alcun fondamento. Le stesse proposte del partito di Obama di aumentare le tasse per i ricchi sono piuttosto modeste, come la soppressione degli incentivi per le compagnie petrolifere o la riduzione dei rimborsi fiscali per i redditi più alti e per le corporation.
Queste iniziative avrebbero fatto risparmiare alle casse federali non più di qualche decina di miliardi di dollari ma, pur essendo a beneficio di pochi americani, non hanno pressoché nessuna possibilità di essere approvate dal Congresso. Al contrario, programmi pubblici che riguardano più di cento milioni di americani sono quotidianamente il bersaglio dei falchi del deficit e verranno quasi certamente smantellati o ridotti sensibilmente nel prossimo futuro con l’accordo di entrambi i partiti.
Lo stesso gruppo di lavoro sotto la supervisione di Biden, prima della rottura delle trattative, aveva identificato oltre mille miliardi di tagli alla spesa pubblica. Ad annunciarlo pubblicamente era stato lo stesso vice di Obama, il quale si era allo stesso tempo premurato di ricordare come a sacrificarsi per risanare il bilancio non deve essere soltanto la “middle-class” americana.
Che i democratici non abbiano alcuna intenzione di urtare quei grandi interessi che essi stessi difendono strenuamente era risultato d’altra parte evidente sul finire dello scorso anno proprio su un’altra questione legata alle tasse. Quando ancora deteneva la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, il Partito Democratico era stato infatti incapace di cancellare i tagli alle tasse per i più ricchi in scadenza il 31 dicembre 2010, accettando invece il loro prolungamento, come voluto dai repubblicani.
Come il Partito Repubblicano, anche quello Democratico sta promuovendo inoltre tagli alla spesa sociale, compressione dei diritti sindacali, licenziamenti e riduzioni di stipendi, benefit, pensioni e copertura sanitaria per i dipendenti pubblici in molti stati dove i suoi rappresentati detengono la maggioranza nei parlamenti locali. Il caso più recente è quello del New Jersey, dove l’assemblea statale ha appena approvato un pacchetto di tagli voluto dal governatore repubblicano Chris Christie.
In questo scenario, appare sempre più evidente come non vi siano differenze sostanziali tra i due partiti che dominano la scena politica di Washington. Entrambi gli schieramenti difendono gli interessi dei privilegiati: ma, mentre i repubblicani lo fanno apertamente, i democratici cercano di apparire attenti ai bisogni dei lavoratori e della classe media. Un atteggiamento in realtà solo esteriore, dettato da necessità elettorali e dal timore di veder esplodere un conflitto sociale che cova sotto le ceneri di un sistema che continua a produrre disuguaglianze colossali.
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di Eugenio Roscini Vitali
Dopo un processo durato dieci anni, il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (Ictr) ha condannato all’ergastolo Pauline Nyiramasuhuko, ex ministro delle Politiche Femminili del Rwanda ritenuta colpevole di aver preso parte al genocidio e di aver ordinato i massacri e gli stupri avvenuti nel distretto di Butare nel 1994. Condannati al carcere a vita anche il figlio Arsene Shalom Ntahobali, allora studente, e il borgomastro di Muganza, Élie Ndayambaje, entrambe ritenuti colpevoli dei reati di genocidio e crimini contro l'umanità, incitamento diretto e pubblico allo sterminio, di stupro e persecuzione, di violenze e di oltraggio alla dignità della persona.
Con pene che vanno da 25 a 35 anni di reclusione sono stati inoltre condannati l’ex tenente colonnello dell’esercito ruandese, Alphonse Nteziryayo, il borgomastro di Ngoma, Joseph Kanyabashi, e il prefetto di Butare, Sylvain Nsabimana. Riconosciuta colpevole per sette degli 11 capi di imputazione, Pauline Nyiramasuhuko ha ascoltato la sentenza emessa dal giudice William H. Sekule senza mostrare emozioni.
Il genocidio in Rwanda è stato uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo: dal 7 aprile 1994, in circa 100 giorni, vengono massacrate più di 800 mila persone, in massima parte Tutsi e Hutu moderati; i principali responsabili dell’eccidio sono le milizie Interahamwe e le milizie Impuzamugambi, gruppi paramilitari addestrati ed equipaggiati dalle stesse forze governative fedeli al defunto presidente Juvénal Habyarimana.
Il genocidio s’inserisce in un contesto di rivalità etnica che prende il via con la divisione a sfondo razziale decisa da quello che sarà definito il peggior regime coloniale africano (e mondiale): quello belga.
Rilasciando le “patenti di identità etnica”, i belgi hanno amministrano il potere appoggiandosi alla minoranza Tutsi, ma dopo quasi mezzo secolo di discriminazioni gli Hutu si ribellano e con la rivolta del 1959 riescono a cacciare la monarchia Tutsi e gli schiavisti europei; il 1 luglio 1962 il Rwanda ottiene l’indipendenza da Bruxelles.
Per vendicarsi delle angherie subite gli Hutu organizzano feroci rappresaglie che causano migliaia di morti e portano alla fuga di 150.000 Tutsi. Le violenze non risolvono però la questione e a distanza di trent’anni i gruppi più estremisti decidono mettere fine alla presenza Tutsi nel paese. Il 6 aprile 1994 l’aereo su cui viaggia il presidente del Rwanda, Juvénal Habyarimana, e quello del Burundi, Cyprien Ntaryamira, viene abbattuto.
Gli Hutu ritengono responsabili dell’attentato il Fronte patriottico ruandese (Rpf), il movimento fondato dai Tutsi in esilio che dai primi anni novanta ha dato il via alla lotta armata contro il regime Hutu di Kigali; il 7 aprile, sotto gli occhi dell’UNAMIR (United Nations Assistance Mission for Rwanda), comincia il genocidio. Nell’arco di pochi giorni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riduce il contingente da 1705 a 270 unità; rimangono in Rwanda le sole forze canadesi del generale Roméo Dallaire, che si rifiuta di abbandonare il paese.
Oltre ad aver organizzato ed armato le milizie Hutu del distretto di Butare, aver eliminato ogni forma di resistenza interna ed aver pianificato e coordinato i massacri, Pauline Nyiramasuhuko è anche stata condannata per aver ordinato i sequestri e gli stupri di donne e ragazze appartenenti all’etnia Tutsi: comportamenti che la Corte ha definito tipici di una persona depravata e sadica. Fuggita dal Rwanda a causa dell’avanzata del Fronte patriottico ruandese, per alcuni anni la Nyiramasuhuko si è nascosta nella vicina Repubblica Democratica del Congo. Entrata in Kenya, il 18 luglio 1997 è stata arrestata e quindi tradotta nel carcere di Arusha, in Tanzania; il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda l’ha giudicata come caso n. ICTR-98-42-T.
Durante il processo l’accusa ha dimostrato come tra il 9 Aprile e il 14 Luglio 1994 gli imputati siano stati parte rilevante nel progetto di annientamento della popolazione ruandese di etnia Tutsi: avvalendosi della testimonianza di alcune vittime sfuggite alla morte, il pubblico ministero ha ricostruito il ruolo determinate della Nyiramasuhuko e di Arsene Shalom Ntahobali nei massacri consumati tra il 20 e il 23 aprile presso la chiesa di Mugombwa e sulla collina di Kabuye e nel sequestro e nella morte migliaia di Tutsi; le responsabilità del borgomastro di Muganza e degli altri imputati nella strage commessa alla scuola Evangelista e nell’attaccato alla collina di Kabakobwa, così come nelle stragi avvenute allo stadio di Mutunda e presso la clinica di Matyazo.
Lo scorso maggio il Tribunale penale internazionale per il Rwanda aveva condannato a 30 anni di reclusione Augustin Bizimungu, ex capo di stato maggiore delle forze armate ruandesi, arrestato in Angola nell'agosto del 2002 mentre combatteva a fianco dei ribelli dell'UNITA; insieme a Bizimungu erano stati condannati a 20 anni di carcere altri due ex alti ufficiali e l’allora capo di stato maggiore della gendarmeria, il generale Augustin Ndindiliyimana, rilasciato perché la pena a cui era stato sottoposto era equivalente al tempo passato in prigione dal momento del suo arresto.
Fino ad ora la Corte di Arusha ha portato a termine 65 processi, 38 le condanne, 19 i ricorsi in appello, 8 le assoluzioni; 10 i processi ancora in corso, 2 le persone in attesa di giudizio, 9 i ricercati. Pauline Nyiramasuhuko è la prima donna che l’Ictr ha condannato per il reato di genocidio; molte altre donne sono state direttamente giudicate dai tribunali ruandesi.
Recentemente le vittime del Rwanda hanno ottenuto giustizia anche in Belgio: a Bruxelles la Corte ha condannato due suore, un professore e un ex ministro perché ritenuti complici dei massacri avvenuti a Sovu. Insieme ad Alphonse Higaniro, ex ministro dei Trasporti in Rwanda, e a Vincent Ntezimana, ex professore universitario, Maria Visito Mukabutera e Gertrude Mukangango consegnarono alle milizie Hutu i 500 cittadini Tutsi che si erano rifugiati nel loro convento, fornendo agli assassini il carburante necessario a bruciare il garage dove si erano nascosti.
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di Carlo Musilli
Per quanto faccia male, una gamba in cancrena va amputata. Altrimenti si muore. Lo hanno capito anche i parlamentari di Atene, rassegnandosi ad approvare il nuovo piano lacrime e sangue che spezzerà la schiena alla Grecia nei prossimi anni, ma le consentirà di sopravvivere. Con 155 voti favorevoli, 138 contrari e cinque astenuti, è passata la manovra da 28 miliardi: 14 di tagli, altri 14 di nuove tasse da riscuotere nel prossimo quinquennio.
Misure dolorose ma indispensabili per intascare il prestito da 110 miliardi concordato con Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale. Non solo: l'approvazione del piano farà scattare anche il via libera per definire i dettagli di un secondo prestito da 120 miliardi. Con tutti questi soldi il Paese dovrebbe evitare la bancarotta e ripianare entro il 2014 il suo debito pubblico. Al momento la voragine è da 340 miliardi. Il che vuol dire 30mila euro che pendono sulla testa di ogni greco, neonati compresi.
La manovra e gli aiuti però non bastano. Per allontanare l'incubo del default la Grecia ha bisogno di un'altra iniezione. La vera anima del piano di risanamento annunciato dal primo ministro Geroge Papandreou è un programma di privatizzazioni del valore di 50 miliardi da realizzare entro il 2015. Ma anche su questo fronte i problemi non mancano. Al momento, il Governo di Atene può contare su 15 partecipazioni in società quotate in Borsa, più altre 70 partecipazioni in aziende non quotate. Peccato che, secondo i dati forniti dal Privatisation Barometer, una banca dati che contiene informazioni su ogni singola transazione di questo tipo, anche vendendo tutte queste quote la Grecia non riuscirebbe a ricavare più di 13,6 miliardi.
Facendo una rapida sottrazione, il risultato è abbastanza preoccupante: per arrivare alla cifra prefissata mancano poco più di 36 miliardi. Secondo Bernardo Bortolotti, economista e fondatore del Privatisation Barometer, questo significa che l'Esecutivo dovrà iniziare a vendere praticamente qualsiasi cosa: terreni, immobili, concessioni, infrastrutture e altro ancora.
Forse il disastroso quadro generale sfugge a buona parte del popolo greco, giustamente accecato dalla rabbia nei confronti di chi avrebbe dovuto evitare che si arrivasse a tanto. Può essere comprensibile perfino la violenza con cui molti manifestanti hanno cercato di impedire ai politici di entrare in Parlamento per votare la manovra. La polizia in assetto antisommossa si è scontrata con circa 400 dimostranti che cercavano di sfondare i blocchi per accedere alla piazza Syntagma di Atene, dove ha sede il Governo. Almeno tre persone sono finite in ospedale.
Il rifiuto è una reazione normale quando si è posti di fronte alla certezza di non aver alcun futuro nel proprio Paese. Ma la verità è che in questo caso il Governo doveva prendere una decisione semplice. Se non altro per la totale mancanza di alternative. Nemmeno il suicidio era un'opzione calcolabile, perché il fallimento della Grecia avrebbe effetti sistemici più o meno in tutto il pianeta. Come se un depresso, sparandosi in testa, uccidesse tutta la città.
Da questo punto di vista, parlare di potenziale effetto domino non vuol dire essere fanatici della catastrofe. L'ipotesi è fondata. Una ricostruzione di quello che potrebbe avvenire in caso di default greco è stata fatta da Business Insider. Innanzitutto, nelle banche di Francia e Germania sono stipati buoni del tesoro ellenici per un valore di 46 miliardi. Di qui l'apprensione di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, più che ansiosi di soccorrere i fratelli di Atene. La società di rating Moody's ha già messo in guardia i tre maggiori istituti di credito transalpini (Crédit Agricole, BNP Paribas, e Société Générale) sulla possibilità di un declassamento.
Fin qui i big, ma c'è molto più. Ad essere esposta in modo preoccupante sul debito greco è praticamente tutta l'area euro. Sono sotto pressione soprattutto i sistemi bancari di Austria e Portogallo. Perfino la finanza privata bulgara e romena in questi giorni non fa che mangiarsi le unghie. Al vertice della piramide c'è naturalmente la Banca Centrale Europea, che è esposta addirittura per 120 miliardi di euro. Non è totalmente da escludere che un'eventuale insolvenza di Atene porti con sé rischi analoghi anche per la Bce, che in ogni caso uscirebbe dalla vicenda con le ossa rotte. A quel punto, sentendo puzza di morte, gli avvoltoi della speculazione inizierebbero a fare i loro giri in cielo, avventandosi sui Paesi col debito più insostenibile, Italia e Belgio.
Alcuni economisti si sono spinti perfino più in là con le previsioni. Se Parigi e Berlino si ritrovassero improvvisamente con l'acqua alla gola, potrebbero mettere in atto una qualche forma di neo-protezionismo. A sua volta l'implosione dei mercati europei farebbe sentire i suoi effetti sulle esportazioni americane e asiatiche, portando a una progressiva contrazione dei consumi. Nel frattempo la Cina finirebbe schiacciata sotto il peso dell'inflazione, che già oggi rappresenta il primo guaio economico di Pechino.
Di fronte a uno scenario simile, il crollo innescato da Lehman Brothers sembrerebbe poco più di una simpatica merenda. Che paura. Bisogna fare qualcosa per evitare che la prima tesserina del domino perda il suo precario equilibrio. E allora via libera ai prestiti da centinaia di miliardi alla Grecia. Quello che ancora non è chiaro è come farà un Paese in ginocchio a restituire tutti quei soldi.
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di Michele Paris
Il mandato d’arresto emesso contro Muammar Gheddafi due giorni fa dalla Corte Penale Internazionale segna un ulteriore passo avanti nella campagna della NATO per rovesciare il regime di Tripoli. Oltre al rais, a finire nel mirino della Corte con sede a L’Aia sono stati anche il suo secondo figlio - Seif al-Islam - e il cognato Abdullah Senussi, attualmente a capo dell’intelligence libica.
La decisione del tribunale internazionale è stata presa in seguito alle accuse formulate lo scorso mese di maggio dal procuratore argentino Luis Moreno Ocampo, la cui deferenza verso gli USA è stata messa in luce da un cablo del 2003 recentemente pubblicato da Wikileaks. Ad annunciare alla stampa il provvedimento è stato invece il giudice del Botswana Sanji Monageng, la quale ha affermato che esistono ragionevoli indizi per ipotizzare i reati di omicidio e persecuzione di centinaia di civili durante le manifestazioni di protesta esplose in Libia a febbraio.
Lo stesso giudice ha ammesso che risulta impossibile verificare la vera entità dei crimini attribuiti a Gheddafi e agli altri due imputati, anche perché l’indagine condotta da Moreno Ocampo si basa soprattutto su resoconti dei ribelli di stanza a Bengasi e su rapporti dei servizi occidentali. In particolare, i fatti cui fa riferimento la Corte si riferiscono al periodo che va dal 18 fino ad “almeno” il 28 febbraio, ben prima dell’inizio dell’aggressione delle forze NATO.
Nel dettaglio, le accuse comprendono l’uccisione, il ferimento e l’arresto di centinaia di dimostranti civili, nel quadro della repressione messa in atto dai regimi al potere in Nord Africa e in Medio Oriente e che ha segnato le prime fasi di gran parte delle rivolte in corso nel mondo arabo.
Come è evidente, gli stessi capi di imputazione potrebbero essere contestati, ad esempio, alla famiglia reale al-Khalifa del Bahrain, ai deposti presidenti Ben Ali e Mubarak di Tunisia ed Egitto, oppure al presidente yemenita Ali Abdullah Saleh. Costoro sono o erano tutti fedeli alleati degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali, circostanza che ha permesso loro di evitare la sorte di Gheddafi. I regnanti del Bahrain, addirittura, oltre ad essere tuttora al loro posto, sono stati ricevuti recentemente a Washington e vengono elogiati per le “aperture” dimostrate nei confronti delle forze di opposizione.
Il mandato di arresto contro i due Gheddafi e Senussi, in ogni caso, serve perfettamente agli USA e agli altri paesi NATO impegnati nel conflitto in Libia per intensificare le operazioni militari e, allo stesso tempo, ostacolare le già esili trattative di pace in corso. Il segretario generale del Patto Atlantico, Anders Fogh Rasmussen, ha così dichiarato che l’ordine di arresto “rafforza le ragioni della missione NATO per proteggere i civili libici dalle forze di Gheddafi”.
Allo stesso modo, il Ministro degli Esteri italiano Frattini, pur ribadendo la necessità di “trovare una soluzione politica che senza Gheddafi al potere restituisca alla Libia una prospettiva di sviluppo”, ha sostenuto che la decisione dell’Aia “legittima ulteriormente l’assoluta necessità e l’alto valore della missione umanitaria della NATO in Libia… nel quadro della responsabilità di proteggere che spetta alla comunità internazionale nelle emergenze umanitarie provocate da atti di repressione di dittatori verso il proprio popolo”.
L’intervento della Corte Penale Internazionale è in realtà un altro modo per fare pressioni su Gheddafi dopo che, giunti al 100esimo giorno d’incursioni aeree, i paesi NATO coinvolti nel conflitto non sono riusciti a spianare la strada verso Tripoli alle forze del cosiddetto “Consiglio Nazionale di Transizione” di Bengasi.
Inoltre, il mandato d’arresto è arrivato il giorno successivo ad un summit del comitato ad hoc dell’Unione Africana andato in scena a Pretoria, in Sudafrica, per discutere della possibilità di un cessate il fuoco in Libia. Come ha scritto il quotidiano on-line sudafricano Independent, l’annuncio del Tribunale ha suscitato le ire del presidente Jacob Zuma, il quale solo poche settimane fa era stato a Tripoli e a Bengasi per promuovere un accordo tra le due parti. Tramite un portavoce, il presidente sudafricano ha dichiarato che la Corte dell’Aia ha preso una decisione deplorevole proprio mentre i progressi fatti dall’Unione Africana indicavano un possibile impegno per una soluzione pacifica sia da parte di Gheddafi che del governo provvisorio dei ribelli.
Il rinvio di Gheddafi alla Corte Penale era stato reso possibile da un voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a fine febbraio su iniziativa americana. Proprio gli Stati Uniti - che, come la Libia, non riconoscono la giurisdizione del Tribunale, non avendo sottoscritto lo Statuto di Roma che ne ha sancito la nascita nel 1998 - hanno accolto con soddisfazione la notizia del mandato d’arresto.
Washington ha sempre criticato il Tribunale, il cui operato viene giudicato come un ostacolo alla sovranità e al perseguimento degli interessi americani in Medio Oriente e in Asia centrale per mezzo di guerre illegali e operazioni militari che rientrano ampiamente nell’ambito dei crimini contro l’umanità. Ciononostante, gli Stati Uniti hanno continuato ad influire nell’attività della Corte dell’Aia, non solo per evitare procedimenti contro esponenti americani ma anche per utilizzarla come un utile strumento per conseguire e legittimare i propri obiettivi strategici.
Gli USA avevano infatti ottenuto di limitare la competenza della Corte, per quanto riguarda aggressioni militari, ai paesi che la riconoscono e comunque ai casi approvati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove com’è noto Washington detiene potere di veto.
Ciò contribuisce a spiegare il motivo per cui i massacri di civili compiuti dai bombardamenti americani in Afghanistan, Pakistan o Yemen - per non parlare della stessa invasione dell’Iraq o degli abusi compiuti in nome della guerra al terrore - non sono mai stati oggetto delle attenzioni dell’Aia, così come continuano a sfuggire alla giustizia internazionale le azioni di Israele e di altri paesi alleati di Washington.
Il provvedimento indirizzato contro Gheddafi restringe le opzioni a disposizione di quest’ultimo, il quale non potrà mettere piede in nessuno dei 115 paesi firmatari dello Statuto di Roma senza correre il rischio di venire arrestato. A prospettare una delle possibilità per attuare la decisione della Corte Penale è stato un inquietante commento del New York Times, che ha ipotizzato l’allargamento del mandato NATO per catturare Gheddafi e gli altri due destinatari del mandato d’arresto.
Un’eventualità questa che implicherebbe il dispiegamento di forze di terra in Libia, scenario peraltro sempre più probabile se i bombardamenti, i tentativi mirati di assassinio contro Gheddafi e i mezzi pseudo-legali della Corte dell’Aia dovessero alla fine fallire nel rimuovere il regime di Tripoli.
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di Eugenio Roscini Vitali
Secondo fonti israeliane l’Iran avrebbe ormai assunto un ruolo di primo piano nella sanguinosa repressione che dal 18 marzo scorso il regime alawita di Bashar al-Assad sta mettendo in atto in Siria. Oltre alla fornitura di armi e di mezzi anti-sommossa, di fucili di precisione e di sistemi di comunicazione in grado di bloccare Internet, Teheran avrebbe inviato a Damasco un numero imprecisato di elementi appartenenti ai Guardiani della rivoluzione e alle forze Al-Quds. Guidati dal generale Qassem Suleimani, gli iraniani starebbero operando in appoggio alle forze speciali siriane e ai miliziani Hezbollah, determinati a prevenire la possibilità di infiltrazioni occidentali all’interno dei movimenti di protesta anti Assad.
Damasco nega che nel Paese siano presenti combattenti stranieri, ma alla Reuters un funzionario libanese della base araba vicino al regime siriano ha dichiarato che «Hezbollah non interverrà mai in Siria. Questa è una questione interna che il presidente Bashar deve affrontare solo. Ma quando vedremo l'occidente attrezzarsi per abbatterlo, non potremo stare solo a guardare. Questa è una battaglia per l'esistenza del gruppo ed è tempo di restituire il favore alla Siria».
Sul fronte diplomatico l’ambasciatore Usa al Palazzo di Vetro, Susan Rice, ha dichiarato che «Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu deve condannare in maniera chiara e inequivocabile le atrocità e gli abusi che vengono commessi in Siria»; in relazione alla minaccia del veto posto da Russia e Cina sul testo di condanna presentato da Gran Bretagna, Francia e Germania la Rice ha inoltre ribadito che «il tempo è ormai scaduto e che è ormai giunta l’ora il Consiglio parli con una sola voce».
Bruxelles ha intanto esteso le sanzioni contro la Siria ad altre undici persone, tre delle quali iraniane, e a quattro società legate al regime di Bashar Assad. Gran Bretagna e Francia avrebbero inoltre messo a punto un’altra lista, composta da una decina di nomi tra persone ed enti, che si andrebbe ad aggiungere a quelle già esistenti e nella quale compaiono altri due iraniani, anche loro implicati nella fornitura di armi alla Siria. Le misure restrittive adottate da Bruxelles, che comprendono il divieto di visto e congelamento del patrimonio, sono state prese in considerazione a causa della gravità della situazione e fanno seguito alle sanzioni già imposte il 9 maggio scorso contro 13 funzionari e collaboratori del regime.
Secondo quanto reso noto dall'agenzia di stampa turca Anadolou, sarebbero poco meno di 12 mila i siriani che hanno già trovato asilo in Turchia (11.739 registrati alla mezzanotte del 23 giugno, più di 1.500 dei quali arrivati nelle ultime 24 ore). Temendo l’assalto dell'esercito, sono centinaia le persone che superato il filo spinato che segna la frontiera; attraverso la strada utilizzata di solito dalle guardie di confine di Ankara, raggiungono poi la tendopoli che la Mezzaluna Rossa ha eretto nella provincia frontaliera di Hatay, all'estremità sud-orientale dell’Anatolia, regione tra l’altro rivendicata dalla Siria.
Damasco ha intanto schierato lungo la linea di confine migliaia di soldati, autoblindo e mezzi pesanti e secondo fonti della dissidenza le truppe siriane sarebbero già arrivare a poco più di 500 metri dal territorio turco. Testimoni oculari parlano anche d’irruzioni a Khirbet a-Joz, villaggio siriano a circa un chilometro dal confine, e a Managh, centro abitato situato 15 chilometri più a sud; qui i soldati, penetrati con l’appoggio dei blindati, avrebbero scatenando il panico e la fuga dei civili aprendo il fuoco incrociato sulla popolazione e dopo essersi ritirati avrebbero circondato l’area.
In base a quanto sta accadendo, le autorità turche hanno deciso di assicurare protezione a tutti coloro che si sentono minacciati e di poter attraversare il confine e raggiungere il campo profughi di Guvecci.
Nonostante le comunicazioni telefoniche intercorse tra Ankara e Damasco, l’apprensione rimane alta. Gli Stati Uniti sono preoccupati per le conseguenze che potrebbe avere la presenza di un così alto numero di soldati vicino al confine e il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha dichiarato che «se le forze siriane non cesseranno subito i loro attacchi e le loro provocazioni assisteremo a un’escalation del conflitto nella zona». Bashar Al-Assad intanto promette riforme democratiche e continua a parlare di complotto internazionale, mentre il suo ministro degli esteri, Walid Al-Moualem, ha chiesto ad Ankara di ripensarci e di non voltare le spalle alla Siria.
Il divorzio tra i due ex alleati sembra però già consumato, soprattutto dopo che il 10 giugno scorso, in un’intervista accordata alla tv turca, il premier turco Recep Tayyip Erdogan aveva denunciato senza mezzi termini i comportamenti inumani ed irresponsabili di Mahir Al-Assad, capo della Guardia repubblicana e fratello del presidente Bashar che sta soffocando la protesta puntando dritto al massacro.
Tornando alla presenza di unità iraniane in Siria, diversi testimoni avrebbero sentito alcuni componenti delle forze di sicurezza siriane parlare tra loro in Farsi: «Nella esercito siriano è vietato portare la barba, così quando vediamo un militare con la barba sospettiamo che non faccia parte dell’esercito regolare».
I primi rapporti sulla partecipazione di iraniani alla repressione messa in atto dal regime Al-Assad, sarebbero arrivato dalla città di Daraa, dove ha avuto inizio la rivolta siriana, ma una fonte del quotidiano israeliano Hareetz parla addirittura di pasdaran coinvolti nell’organizzazione delle manifestazioni che hanno avuto luogo sulle alture del Golan il 15 maggio (commemorazione della Nakba) e lungo la frontiera israelo-libanese il 5 giugno scorso (commemorazione della Naksa).
Durante il giorno della memoria palestinese i Guardiani della rivoluzione avrebbero preparato il trasferimento in autobus dei manifestanti fino alla frontiera; gli iraniani sarebbero anche stati i promotori del radunato in Libano degli appartenenti al Fronte Popolare Ahmed Jibril per la liberazione della Palestina-Comando Generale, proteste che non hanno goduto del sostegno di Hezbollah e alle quali si era opposto l’esercito di Beirut. Tra l’altro in quella occasione si era parlato di 1.000 dollari pagati ad ogni partecipante alle proteste e di 10.000 dollari devoluti alle famiglie dei “martiri” rimasti uccisi durante le dimostrazioni anti-israeliane.