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di Michele Paris
La fiducia dei cittadini americani nel proprio sistema politico e nei loro rappresentanti al potere continua a far segnare nuovi record negativi. A dimostrarlo è un recentissimo sondaggio -commissionato da New York Times e CBS News - che mette in evidenza tutto il malcontento verso le istituzioni di Washington e le apprensioni ampiamente diffuse nel paese per il futuro della prima potenza economica del pianeta.
Uno dei dati più eclatanti emersi dall’indagine telefonica pubblicata martedì è l’89 per cento degli americani che dichiara di non nutrire alcuna fiducia nel governo. Più precisamente, per il 74 per cento degli intervistati gli Stati Uniti, sul fronte economico, sono indirizzati su un binario sbagliato. Il Congresso è l’istituzione che raccoglie il minor consenso, con appena il 9 per cento che dice di approvarne l’operato - un minimo storico - e ben l’84 per cento che lo disapprova esplicitamente. L’insoddisfazione verso il Congresso riguarda entrambi i partiti, dal momento che i repubblicani detengono la maggioranza alla Camera e i democratici prevalgono al Senato.
Numeri più favorevoli fa segnare invece il presidente Obama, anche se oggettivamente tutt’altro che incoraggianti. La percentuale degli americani che lo approva e di quelli che lo disapprova è identica (46 per cento). Il suo gradimento è leggermente migliorato rispetto al recente passato, secondo il New York Times grazie ai presunti successi da poco incassati in politica estera, come il rovesciamento e l’assassinio di Gheddafi o l’annunciato ritiro delle truppe USA dall’Iraq. Le proposte di Obama in ambito economico sono peraltro decisamente meno popolari.
Il sondaggio NYT/CBS affronta poi la questione della popolarità del movimento “Occupy Wall Street”. Secondo il 46 per cento degli intervistati, le ragioni che stanno alla base del movimento riflettono il sentire della maggioranza degli americani. In una rilevazione dello scorso febbraio, circa il 27 per cento pensava lo stesso relativamente ai Tea Party. Una differenza di dati importante che, oltre a confermare come quest’ultimo movimento sia più che altro un fenomeno ingigantito dai media e dietro al quale ci sono rappresentanti dei poteri forti, rivela come siano diffuse non solo le ansie per le prospettive dell’economia USA ma anche l’avversione verso l’intero sistema capitalistico, di cui “Occupy Wall Street” è portatore.
La disillusione di gran parte degli americani emerge anche dalle risposte date a un'altra serie di domande poste nel corso del sondaggio, relative alle disuguaglianze di reddito negli Stati Uniti. Il 66 per cento ritiene, infatti, che la ricchezza dovrebbe essere distribuita più equamente. A pensare che la ricchezza sia distribuita in maniera ineguale sono nove su dieci elettori democratici, due terzi degli indipendenti e anche un terzo di quelli repubblicani. Proprio quello Repubblicano è percepito come il partito dei privilegiati, con il 70 per cento degli intervistati che sostiene che le sue politiche favoriscono i ricchi.
Estremamente significativa è la citazione da parte del New York Times di una dichiarazione raccolta a margine dell’indagine telefonica da uno degli intervistati. L’87enne Jo Waters, pensionato di Pleasanton, in California, riassume in maniera lapidaria la realtà della società americana, dicendo al compilatore del sondaggio che “in questo paese tutto è per i ricchi”.
Riguardo le politiche economiche concrete, i due terzi dei cittadini statunitensi sono contrari ai tagli alle tasse per le corporation e vorrebbero piuttosto aumentare il carico fiscale sui milionari. Queste posizioni, condivise dalla maggioranza degli americani, sono diametralmente opposte al percorso che stanno seguendo i politici di Washington in questo periodo di crisi. In particolare, esse contrastano fortemente con i programmi presentati dai candidati alla Casa Bianca per il Partito Repubblicano, tutti o quasi impegnati a promettere un sistema fiscale regressivo ad aliquota fissa (flat-tax) che penalizza ulteriormente i redditi più bassi per offrire nuovi sgravi a quelli più alti.
A spiegare la sfiducia degli americani nel sistema politico di Washington ha contribuito anche uno studio dell’Ufficio per il Budget del Congresso (CBO) proprio sulla distribuzione della ricchezza nel paese, reso noto sempre nella giornata di martedì. La ricerca, richiesta dai senatori Max Baucus (democratico) e Charles Grassley (repubblicano), ribadisce i risultati già ottenuti da svariate organizzazioni private ed economisti vari ma risulta particolarmente autorevole dal momento che è stata condotta da un autorevole organismo indipendente e si basa sui dati dell’Agenzia delle Entrate (IRS) e dell’Ufficio del Censo.
Lo studio sottolinea chiaramente come i vertici della piramide sociale negli USA abbiano aumentato oltre misura le proprie entrate negli ultimi anni a spese delle classi più disagiate. Contro la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ricordano i ricercatori del CBO, ben poco hanno fatto le politiche dei governi succedutisi a Washington in tre decenni, i quali si sono adoperati piuttosto per neutralizzare “l’effetto livellatore del sistema fiscale federale”.
I dati presentati dalla ricerca indicano come nel 2007 l’uno per cento della popolazione ha incamerato il 17 per cento del reddito complessivo USA, mentre nel 1979 questa quota era attestata attorno all’8 per cento. Se si considera poi il 20 per cento dei contribuenti con maggiori entrate, la loro fetta di reddito complessivo supera per il 2007 la metà del totale (53 per cento), contro il 43 per cento del 1979. Sul fondo della scala sociale, al contrario, il 20 per cento degli americani più poveri si sono spartiti nel 2007 solo il 7 per cento del redito complessivo del paese, con un aumento di appena il due per cento in tre decenni.
In termini assoluti, lo stesso uno per cento di super-ricchi ha visto crescere le proprie entrate tra il 1979 e il 2007 addirittura del 275 per cento, mentre per il quinto della popolazione più benestante l’incremento è stato del 65 per cento. Il reddito dei meno abbienti, invece, ha fatto segnare nello stesso periodo di tempo un progresso del 18 per cento e quello della classe media - corrispondente ai tre quinti della popolazione - poco meno del 40 per cento.
Il recente sondaggio sull’umore degli americani e, soprattutto, il rapporto dell’Ufficio per il Budget del Congresso dovrebbero abbattersi come un macigno sul dibattito politico in corso negli USA sulle questioni del debito, della riforma fiscale e della crescita economica. In realtà, questo ritratto della situazione del paese non avrà nessun effetto concreto, al di là di qualche dichiarazione di circostanza rilasciata da alcuni esponenti politici.
Ciò che attende la maggioranza degli americani sono anzi nuovi devastanti tagli alla spesa pubblica e una probabile revisione del carico fiscale a favore delle grandi aziende e dei redditi più elevati in nome della crescita economica. Queste, con ogni probabilità, saranno anche le conclusioni della speciale commissione bipartisan del Congresso che entro la fine dell’anno sarà chiamata a presentare le proprie proposte per ridurre il deficit federale di 1.200 miliardi di dollari nel prossimo decennio, approfondendo ancora di più le già enormi differenze nella distribuzione delle ricchezze negli Stati Uniti.
La classe politica che dovrebbe in teoria rimediare alle disuguaglianze sociali, d’altra parte, è la stessa che ha contribuito deliberatamente a determinare questa situazione, rispondendo interamente agli interessi di una ristretta minoranza di privilegiati che continua a spartirsi la gran parte della ricchezza del paese.
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di Eugenio Roscini Vitali
E' stato sabotato il gasdotto Arab Gas Pipeline che collega l’Egitto alla Giordania e Israele; l’attacco, il sesto dalla caduta del regime Mubarak, è stato portato all’alba di ieri da un commando entrato in azione a circa venticinque chilometro da al-Arish, città portuale sulla costa Mediterranea del Sinai settentrionale. Colpitala la stazione di misurazione di al-Maidan, chiuso l’impianto gestito dalla compagnia egiziana per il trasporto del gas GASPO, interrotta la fornitura verso Israele e la Giordania.
Secondo fonti della sicurezza egiziana non è stata ancora accertata l’origine dell’incendio, ma alcuni testimoni parlano di un’esplosione udita a diversi chilometri di distanza e di fiamme alte 15 metri. All’attacco, che ha causato il ferimento di un uomo che si trovava nei vicini uliveti, avrebbero partecipato sei uomini armati che, dopo essere giunti sul posto a bordo di un fuoristrada, avrebbero abbattuto la recinzione di filo spinato e piazzato una bomba sotto le tubature dell’impianto.
Nel tentativo di sradicare la rete jihadista che ormai controlla gran parte del Sinai e per combattere la nebulosa collaborazione che lega questi gruppi alle formazioni palestinesi della Striscia di Gaza, lo scorso agosto il governo di transizione del Cairo aveva portato a termine con i capi di due delle tredici tribù beduine che abitano la penisola, i Sawarkas e i Tiyaha, un accordo che prevede una sorta di collaborazione militare per la messa in sicurezza dell’area che dalla costa Mediterranea fiancheggia la Philadelphi Route e dal posto di confine di Nitzana si estende fino al centro della penisola. Nello stesso periodo la polizia e l’esercito egiziano avevano dato il via ad una vasta operazione militare che aveva portato all’arresto di alcune persone sospettate di aver preso parte agli attacchi terroristici che nel solo mese di luglio hanno colpito il gasdotto per ben tre volte.
L’attacco alla stazione di al-Maidan ripropone la questione della sicurezza in una delle zone più strategiche del Sinai orientale. Gli eventi degli ultimi mesi hanno indotto Israele ad accelerato i lavori di completamento dell’impianto che a breve dovrebbe mettere in sicurezza i 240 chilometri di confine che dividono lo Stato ebraico dall’Egitto, ma secondo fonti di intelligence le reti metalliche e il sofisticatissimo sistema di sorveglianza visiva e di sensori capaci di captare qualsiasi movimento non sembra ancora in grado di fermare il traffico d’armi verso Gaza.
Mentre nel sud della Libia le forze del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) danno la caccia a Muammar Gheddafi e la Casa Bianca si impegna a collaborare con le nuove autorità per proteggere l’arsenale ereditato dal regime del colonnello, uno stock di missili terra-aria SA-24 Grinch (nome in codice russo Igla-S 9K338) e di mine antinave MDM-3 sarebbe già sulla strada che porta ai tunnel che collegano la penisola egiziana a Rafah.
Del caso dei missili di fabbricazione russa si era già parlato all’inizio di settembre, quando da uno dei magazzini militari abbandonati dalle truppe di Gheddafi erano spariti 482 SA-24 Grinch. Ora però è stato anche ritrovato il mezzo con il quale sarebbe stato trasportato parte del carico trafugato a Tripoli, intercettato dalle forze di sicurezza egiziane nei pressi di Ismailia, cento chilometri a sud di Porto Said, sulla riva occidentale del Canale di Suez. Sul camion sarebbe stato abbandonato un numero imprecisato di casse vuote che originariamente avrebbero dovuto contenere i sistemi d’arma SA-24 (lanciatori 9P522 e missili 9M342) e le mine antinave russe MDM-3.
A tutt’oggi non è ancora stato stabilito quante armi siano cadute nelle mani dei trafficanti e delle cellule jihadiste infiltrate tra gli insorti; sicuro è che non tutto l’arsenale di Gheddafi è finito sotto il controllo del Cnt e che una buona parte di esso ha già preso altre strade, da quelle che accompagnano i lealisti fino alla Libia meridionale e al massiccio algerino del Tassili n'Ajjerl’, altopiano rifugio del terrorismo salafita, alle alture dei monti Air, nel Niger settentrionale, roccaforte dei ribelli Tuareg, al Sinai orientale, porta d’accesso verso l’estremismo palestinese. Ed è proprio verso quest’ultima tappa che sembra siano diretti gli SA-24 che viaggiavano sul velivolo rintracciato a Ismailia, un sofisticato sistema missilistico terra-aria a raggi infrarossi che potrebbe creare non pochi problemi all’aviazione israeliana.
Gli SA-24, evoluzione russa dell’americano FIM-92 Stinger, hanno un raggio d’azione di 5.2 chilometri e possono raggiungere una quota di 3.500 metri e una velocità massima di Mach 2.3; possono essere lanciati con un lanciatore spalleggiabile da un singolo uomo e grazie al sistema di guida a infrarossi sono utilizzabili anche di notte o con scarsissime condizioni di visibilità, sia contro aerei ed elicotteri da combattimento che contro droni e missili superficie-superficie.
Insieme agli SA-24 dalla Libia potrebbe arrivare a Gaza anche qualche vecchio SA-7 Strela-2 (9M32), missile utilizzato dalla fanteria della coalizione araba durante la Guerra dello Yom Kippur e che in termini diretti causò l’abbattimento di una mezza dozzina di aerei israeliani. E a fargli compagnia potrebbero aggiungersi gli SA-14 Strela-3 (9K34), assai temibili a quote medio basse e già utilizzati in Bosnia, dove riuscirono ad abbattere un BAE Sea Harrier inglese, in Angola, contro un Su-27 colpito mentre si trovava in fase di atterraggio e in Iraq, contro un Airbub 300 appena decollato dall’aeroporto internazionale Baghdad.
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di Michele Paris
La condanna delle consuete dichiarazioni provocatorie del presidente iraniano Ahmadinejad sul ruolo del governo USA nei fatti dell’11 settembre non arriva soltanto da Washington ma, più recentemente, anche dalla stessa organizzazione terroristica accusata di aver orchestrato gli attentati alle Torri Gemelle di New York. Nell’edizione autunnale del magazine on-line di Al-Qaeda in lingua inglese, Inspire, Ahmadinejad viene criticato per le sue tesi sull’11 settembre, secondo le quali gli attentati di dieci anni fa sarebbero una cospirazione ordita dal governo di Washington per invadere l’Afghanistan e l’Iraq.
“Il governo iraniano ha sostenuto per bocca del suo presidente Ahmadinejad di non credere che Al Qaeda sia dietro all’11 settembre, ma che ci sia piuttosto il governo USA", si legge nell’articolo a firma Abu Suhail. “Quindi noi ci chiediamo: perché l’Iran sostiene una teoria così ridicola, contraria a ogni logica ed evidenza?”.
L’autore del pezzo in questione rivendica la paternità dell’attentato e definisce il presidente della Repubblica Islamica un rivale di Al-Qaeda sul fronte dell’anti-americanismo. “Per loro [gli iraniani], Al-Qaeda è un rivale nella sfida per conquistare i cuori e le menti dei musulmani oppressi in tutto il pianeta”, prosegue l’articolo. “Al-Qaeda ha avuto successo dove l’Iran ha fallito. Per questo per gli iraniani è necessario cercare di screditare l’11 settembre”.
Secondo l’editorialista della rivista Inspire, inoltre, l’anti-americanismo professato da Teheran rappresenterebbe solo un espediente politico. Dall’articolo emergono d’altronde le risaputa rivalità tra l’Iran sciita e l’organizzazione terroristica sunnita, divisi, quanto meno, dalle differenze di ordine religioso e dai rispettivi obiettivi strategici per estendere la loro influenza nel mondo islamico.
Mahmoud Ahmadinejad ha spesso sostenuto pubblicamente l’idea che dietro all’11 settembre ci fosse il governo di Washington. L’uscita più recente è stata la settimana scorsa, nel corso del suo intervento alla riunione annuale dell’Assemblea generale ONU. In quell’occasione, Ahmadinejad ha anche affermato che la stessa uccisione di Osama bin Laden fa parte della cospirazione, tesa a occultare i veri responsabili dell’attacco al World Trade Center e al Pentagono.
Come di consueto, il discorso di Ahmadinejad ha fatto in modo che la delegazione americana e quelle di altri paesi all’ONU abbandonassero la sala in segno di protesta. Ma nonostante i toni provocatori usati del presidente iraniano, il quale ha anche nuovamente toccato il tema dell’Olocausto, nella sostanza le sue dichiarazioni sembrano rispondere in realtà più a esigenze di politica interna che ad una vera e propria convinzione personale.
Messo alle strette sul fronte domestico dall’ala conservatrice dell’establishment clericale iraniano - che lo accusa, tra l’altro, proprio di tenere una posizione troppo accomodante nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente - Ahmadinejad ha verosimilmente sentito ancora una volta la necessità di mandare un segnale di inflessibilità ai propri rivali interni, rispolverando le teorie della cospirazione sorte attorno all’11 settembre.
Oltre all’articolo che attacca il governo di Teheran, il numero appena uscito del magazine Inspire presenta altri contenuti che intendono “commemorare” il decennale dell’11 settembre, tra cui una galleria fotografica dedicata a questo e ai successivi attentati terroristici portati a termine in tutto il mondo da A-Qaeda. L’orrore è online.
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di Mario Braconi
A quanto sembra, indignarsi in Israele può servire a qualcosa. E’ di ieri la notizia della pubblicazione del rapporto commissionato dal governo Netanyahu a Manuel Trajtemberg, professore dell’Università di Tel Aviv, sull’onda emotiva provocata dal movimento dei cosiddetti “indignados” di Israele. In sole sette settimane, la commissione Trajtemberg ha messo assieme una serie di proposte che, nelle parole del professore, hanno l’ambizione di “creare le fondamenta di una società più equa”, come richiesto da un movimento di protesta popolare che egli definisce “genuino”.
A scorrere le cronache dei giornali israeliani, si direbbe che di carne al fuoco ve ne sia fin troppa: infatti, anche se il conto finale delle misure contenute nel pacchetto dovrebbe aggirarsi attorno all’equivalente di 6 miliardi di euro di maggior spesa, la prima buona notizia è che non vi saranno sforamenti al budget. Se fosse confermato quanto sosteneva Haaretz ieri, il programma non dovrebbe provocare nemmeno un aumento nel deficit del bilancio pubblico. Ed in effetti la copertura delle misure dovrebbe provenire da un lato da un aumento delle tasse sui redditi alti e sulle imprese e dall’altro da un taglio alle spese militari.
Le risorse così liberate, secondo il Trajtemberg, potranno essere utilizzate per sostenere istruzione, welfare ed occupazione. Nel concreto, il rapporto caldeggia la realizzazione di 200.000 nuove unità abitative, un aumento delle locazioni ed un sistema di sussidio per consentire anche alle fasce più deboli di prendere una casa in affitto. Lo stato dovrebbe garantire la scuola gratuita per i bambini a partire dai 3 anni di età (oggi si parte dai cinque), l’orario scolastico lungo ed un tetto per i prezzi degli asili nido privati: tutto questo dovrebbe rendere più facile l’accesso delle giovani coppie al mondo del lavoro.
Il rapporto, inoltre, raccomanda una sorta di coefficiente familiare per i genitori, che dovrebbe ridurre la pressione fiscale sulle famiglie, ed un sistema di negative-tax, una sorta di sussidio basato su una dichiarazione di reddito insufficiente a provvedere alle proprie necessità. La commissione, infine, richiede al governo di ridurre i dazi sui prodotti importati, una gamma molto ampia che va dai prodotti alimentari lavorati all’elettronica di consumo: da questa misura, Trajtemberg si aspetta di veder aumentare la concorrenza e conseguentemente una riduzione del costo della vita.
Nonostante si tratti di un piano tempestivo e almeno apparentemente progressista, non c’è nessuno in Israele a concedergli per lo meno il beneficio d’inventario. Scontata la protesta dell’esercito, che ha subito levato alti lai, sostenendo che i tagli alla spesa militare avrebbero come effetto immediato una diminuzione della sicurezza per i cittadini di Israele. Immediatamente rintuzzati dal ministro delle finanze che ha invitato gli ufficiali a “cominciare a non andarsene in giro con macchine di lusso [pagate dal contribuente ndr]”.
Molto contrari alle misure delle commissione Trajtemberg saranno certamente gli industriali israeliani, i sindacati e gli agricoltori. Scontenti anche gli studenti-rappresentanti della protesta sociale. “Hanno usato il gergo della nostra protesta, cosa che può ingannare la pubblica opinione, perché in realtà non hanno proposto delle misure che portano tanto lontano” ha dichiarato Daphni Leef in una conferenza stampa.
Le fa eco Regev Contes, altro leader della protesta: “Non sono particolarmente stupito, dato che sin dall’inizio i numeri di cui parla Trajtemberg non riescono nemmeno ad avvicinarsi minimamente a quello che occorre per le necessità pubbliche”. Almeno Itzik Shmueli, capo del sindacato degli studenti, concede a Trajtemberg il fatto di possedere una visione “grandiosa”; che però, secondo Shmueli, contrasta drasticamente con quelli che definisce delle raccomandazioni pratiche inconsistenti.
Al di là delle polemiche, e pur riconoscendo che, come sempre, si potrebbe fare di più e meglio, è sempre possibile che la protesta di piazza finisca per portare qualche risultato concreto per gli israeliani: tutto dipende dal vigore con cui Netanyahu saprà difendere le conclusioni del rapporto ed incardinarle in un percorso parlamentare che si preannuncia già molto complicato.
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di Michele Paris
Il Senato degli Stati Uniti ha licenziato lunedì sera a tarda ora un provvedimento di emergenza che ha evitato un’imminente paralisi delle agenzie e degli uffici federali, nuovamente minacciati dalla mancanza di finanziamenti. Il più recente stallo al Congresso americano era scaturito dalla proposta di stanziare fondi straordinari per far fronte alle conseguenze dei ripetuti disastri naturali avvenuti negli ultimi mesi in varie parti del paese; un’emergenza sfruttata politicamente dai repubblicani per cercare di estrarre ulteriori tagli alla spesa pubblica.
In una vicenda che si è sostanzialmente risolta nell’ennesima capitolazione del Partito Democratico di fronte alle richieste di quello Repubblicano, alla fine da Washington non è stato praticamente stanziato nessun dollaro extra per le attività assistenziali e di ricostruzione svolte dalla protezione civile americana (FEMA, Federal Emergency Management Agency).
La sezione riguardante la FEMA faceva parte di un pacchetto di bilancio destinato a finanziare le spese federali fino al 18 novembre prossimo. Per l’agenzia governativa che si occupa di rispondere alle catastrofi naturali negli USA erano previsti un totale di 3,65 miliardi di dollari, di cui 2,65 da sborsare all’inizio del prossimo anno fiscale - che inizierà il 1° ottobre - e un miliardo in fondi straordinari per quello tuttora in corso.
Per dare il via libera al miliardo addizionale, i repubblicani pretendevano però che venissero tagliati 1,6 miliardi assegnati ad un programma federale di incentivi alla produzione di automobili a basso consumo energetico, particolarmente popolare tra i democratici. Di fronte alla ferma opposizione di questi ultimi, la Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana venerdì scorso aveva comunque proceduto a votare un provvedimento comprensivo dei tagli, pur senza alcuna possibilità di superare l’ostacolo del Senato.
L’impasse nella camera alta del Congresso è stata alla fine superata, evitando il pericolo di “shutdown” del governo federale, nella giornata di lunedì, quando la FEMA ha fatto sapere di aver reperito 114 milioni di dollari, destinati ad altri progetti ma inutilizzati, che dovrebbero consentirle di operare fino a venerdì prossimo. Superato l’ostacolo, il Senato ha così approvato il budget temporaneo con 79 voti a favore e 12 contrari. Il voto definitivo della Camera, come ha confermato lo speaker John Boehner, si terrà settimana prossima, al termine di una sospensione dei lavori di una settimana.
Grazie all’accordo bipartisan, la FEMA potrà così ottenere i 2,65 miliardi di dollari assegnati al suo bilancio per l’anno fiscale 2011-2012 a partire da sabato prossimo. Senza il miliardo extra, tuttavia, in questi ultimi giorni di settembre le sue operazioni negli USA risulteranno notevolmente ridotte, mentre non saranno possibili interventi in caso di nuove calamità.
La FEMA, oltretutto, è penalizzata da una cronica carenza di fondi e, alla luce del moltiplicarsi delle emergenze nell’ultimo periodo, il suo budget dovrà con ogni probabilità essere nuovamente discusso dal Congresso a breve. La stessa Casa Bianca ha già fatto sapere che la FEMA avrà bisogno di almeno 4,6 miliardi di dollari nel prossimo anno fiscale, una cifra che in molti ritengono peraltro ben al di sotto delle reali necessità dell’agenzia.
Di fronte a situazioni drammatiche, con migliaia di persone senza un alloggio, servizi pubblici e infrastrutture da ricostruire, le vittime dei recenti terremoti, inondazioni, tornado e uragani sono dunque tenute in ostaggio dallo scontro politico sul debito in corso a Washington. Fino al recente passato, gli stanziamenti per le emergenze seguite ai disastri naturali - ancorché spesso insufficienti - venivano approvati dal Congresso senza impedimenti.
La febbre del debito che ha contagiato l’intero panorama politico americano, e in particolare quello repubblicano, sembra invece aver portato all’ordine del giorno la necessità di bilanciare le spese per l’assistenza alle vittime delle calamità con altri tagli alla spesa pubblica. Se questo principio non è stato per ora adottato, appare in ogni caso inevitabile che, visto il clima attuale, venga riproposto già in occasione della prossima emergenza.
L’ennesima messa in scena di un Congresso che non sa dare risposte né alle conseguenze della crisi economica né a quelle delle catastrofi naturali, ha rappresentato una nuova occasione per mettere in atto ulteriori misure di austerity. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati escogitati più volte ultimatum e scadenze inderogabili, utilizzate per implementare tagli devastanti alla spesa federale, puntualmente presentati come inevitabili per la sopravvivenza stessa dei servizi garantiti dal governo.
Ad aprile, ad esempio, lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, e il presidente Obama trovarono un accordo sull’estensione del finanziamento della macchina federale addirittura a pochi minuti da un clamoroso “shutdown”. L’esempio più eclatante di questa strategia, deliberatamente adottata per far digerire gli assalti alla spesa pubblica, è però quello dello scorso agosto, quando venne raggiunto un accordo bipartisan in extremis per innalzare il tetto dell’indebitamento americano in cambio di colossali tagli.
Da quel patto tra repubblicani e democratici è uscita una speciale commissione incaricata di individuare e proporre al Congresso entro la fine dell’anno tagli alla spesa per almeno 1.500 miliardi di dollari. A ciò va aggiunto poi il recente piano della Casa Bianca per ridurre la spesa federale di altri 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio. Una proposta propagandata direttamente da Obama e che include anche tagli per oltre 4 miliardi di dollari al programma della FEMA per la copertura assicurativa dei danni causati dai disastri naturali.