- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Alessandro Iacuelli
Si chiama Eurogendfor. Una siglia, solo una sigla apparentemente innocua, che però in italiano diventa "Gendarmeria europea". Proprio in questi giorni, circondata da uno strano silenzio della stampa, è in discussione presso le commissioni Esteri e Difesa della Camera dei Deputati la proposta di legge di ratifica del trattato, datato 18 ottobre 2007, che istituisce questa strana gendarmeria: una forza militare sub-europea indipendente.
Andando a scavare nella documentazione dell'Unione Europea risulta difficile scovare genesi e obiettivi di questo organismo. Sulla carta è nato il 18 ottobre 2007, con il Trattato di Velsen, anche questo poco o nulla pubblicizzato presso i cittadini europei. Ne fanno parte non tutti i Paesi UE, ma solo quelli dotati di una polizia militare: Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Italia. Secondo il Trattato, si tratta di una sorta di super-polizia sovranazionale a disposizione della UE, dell’OSCE, della NATO o di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche.
Una forza pre-organizzata, robusta e rapidamente schierabile, composta esclusivamente da elementi delle forze di polizia con status militare, al fine di svolgere tutti i compiti di polizia nell'ambito delle operazioni di gestione delle crisi. Dal 17 Dicembre 2008, fa parte a pieno titolo di Eurogendfor anche la Gendarmeria romena, portando quindi a sei il totale degli Stati membri.
Eurogendfor può contare su una forza di 800 "gendarmi" mobilitabile in 30 giorni, più una riserva di altri 1.500; il tutto gestito da due organi centrali, uno politico e uno tecnico. Il primo è il comitato interdipartimentale di alto livello, chiamato CIMIN, acronimo di Comité InterMInistériel de haut Niveau, composto dai rappresentanti dei ministeri degli Esteri e della Difesa aderenti al trattato. L’altro è il Quartier generale permanente (PHQ), composto da 16 ufficiali e 14 sottufficiali (di cui rispettivamente 6 e 5 italiani). I sei incarichi principali (comandante, vicecomandante, capo di stato maggiore e sottocapi per operazioni, pianificazione e logistica) sono ripartiti a rotazione biennale tra le varie nazionalità, secondo gli usuali criteri per la composizione delle forze multinazionali.
Non si tratta quindi di un vero corpo armato europeo, un inizio di esercito unico europeo, nel qual caso si collocherebbe alle dipendenze di Commissione e Parlamento Europeo, ma di un semplice corpo armato sovra-nazionale che, in quanto tale, gode di piena autonomia. Non risponde delle proprie azioni a nessun Parlamento nazionale, né al parlamento europeo. Dunque, a chi risponde?
La sede del Quartier generale di Eurogendfor è in Italia, precisamente nella Caserma Chinotto a a Vicenza, dopo un lungo e silenzioso negoziato con la solita Francia. Ma a cosa serve, e soprattutto perché tanto silenzio? Non lo sappiamo per certo, ma la circostanza del silenzio mediatico pone determinati e seri interrogativi, soprattutto in considerazione del fatto che alcuni articoli del trattato prevedono una totale immunità giudiziaria a livello nazionale ed internazionale.
Non solo. L'articolo 21 del trattato di Velsen prevede infatti l'inviolabilità dei locali, degli edifici e degli archivi di Eurogendfor. L'articolo 22 immunizza le proprietà ed i capitali di Eurogendfor da provvedimenti esecutivi dell'autorità giudiziaria dei singoli stati nazionali. L'articolo 23 prevede che tutte le comunicazioni degli ufficiali di Eurogendfor non possano essere intercettate.
L'articolo 28 prevede che i Paesi firmatari rinuncino a chiedere un indennizzo per danni procurati alle proprietà nel corso della preparazione o esecuzione delle operazioni. L'articolo 29 prevede infine che gli appartenenti ad Eurogendfor non potranno subire procedimenti a loro carico a seguito di una sentenza emanata contro di loro, sia nello Stato ospitante che nel ricevente, in tutti quei casi collegati all’adempimento del loro servizio.
Queste sono le inquietanti protezioni di cui la struttura si è dotata. Ma che compiti avrebbe? Nel trattato di Velsen c'è un'intera sezione intitolata "Missions and tasks", in cui si apprende che Eurogendfor potrà operare "anche in sostituzione delle forze di polizia aventi status civile", in tutte le fasi di gestione di una crisi e che il proprio personale potrà essere sottoposto all'autorità civile o sotto comando militare.
Vastissimi sono i compiti che il trattato affida a Eurogendfor: tra le altre cose garantire la pubblica sicurezza e l’ordine pubblico, eseguire compiti di polizia giudiziaria (anche se non si capisce per conto di quale Autorità Giudiziaria, controllo, consulenza e supervisione della polizia locale, compreso il lavoro di indagine penale, dirigere la pubblica sorveglianza, operare come polizia di frontiera, acquisire informazioni e svolgere operazioni di intelligence.
Forse il vero scopo di Eurogendfor è proprio in questo ultimo punto: con tutte le immunità e le protezioni di cui si è dotata, la struttura somiglia più a un servizio di spionaggio interno ed esterno, che ad uno di polizia. E’ stata progettata una sorta di struttura militare sovranazionale che potrà operare in qualsiasi parte del mondo, sostituirsi alle forze di Polizia locali, agire nella più totale libertà e che, al termine dell’ingaggio, dovrà rispondere delle sue azioni al solo comitato interno. Pertanto, non sembra una Polizia, ma qualcosa di simile al KGB sovietico, alla Stasi della DDR, all'OVRA di Mussolini, alla Gestapo di Hitler.
In Italia, i relatori del provvedimento di ratifica sono gli onorevoli Filippo Ascierto e Gennaro Malgieri, entrambi del PDL, che assicurano che i chiarimenti del caso potranno essere dati in Aula, a Montecitorio, precisando che questa squadra speciale di polizia militare extra-nazionale risponderà solo ai ministri degli Esteri e della Difesa degli Stati membri. Cosa alquanto pericolosa, perché dietro vi è celato il potere, dato ad ogni Paese firmatario, di espropriare i propri parlamenti dalle decisioni sull’impiego delle proprie truppe. E consente di farlo in piena legalità.
In pratica, è un altro pezzo di democrazia che va via, che toglie potere ai parlamenti regolarmente eletti. L'opinione pubblica non lo sa, perché i mezzi d'informazione tacciono. Sappiamo infatti tutto sulle liberta sessuali del Premier, ma poco su quelle civili di noi tutti. Quando la democrazia va in deficit, l’informazione si adegua?
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con un’apparizione a sorpresa nella tarda serata americana di domenica, Barack Obama ha annunciato l’uccisione da parte delle forze speciali del proprio paese del terrorista più famoso e ricercato del pianeta. La notizia é stata accolta da festeggiamenti nelle strade delle città americane e il Presidente Obama ha certamente guadagnato popolarità e consensi in ogni dove del paese.
L’esecuzione di Osama bin Laden in una cittadina pakistana presenta ancora molti lati oscuri e, nonostante venga propagandata dalla Casa Bianca e dai principali media occidentali come un momento di svolta nella guerra al terrore, difficilmente influirà significativamente sul futuro della strategia bellica statunitense in Asia centrale.
Fin dall’attentato del 29 dicembre 1992 contro un hotel di Aden, nello Yemen, poco dopo essere stato abbandonato da soldati americani diretti in Somalia, il leader di Al-Qaeda è finito puntualmente sugli elenchi dei terroristi più ricercati dagli Stati Uniti. Diciassettesimo figlio di un immigrato yemenita in Arabia Saudita, Osama bin Laden ereditò una parte cospicua della fortuna del padre, messa assieme grazie al favore dei reali sauditi nei confronti della sua compagnia di costruzioni, che avrebbe utilizzato più tardi per costruire una rete di adepti della guerra santa.
Il “giovane leone” - questo il significato del nome Osama - che era cresciuto giocando con i principi sauditi, sarebbe diventato dopo l’11 settembre 2001 il simbolo stesso del male per l’America sconvolta dagli attacchi alle Torri Gemelle. Nell’ultimo decennio, la sua immagine è stata evocata praticamente dopo ogni attentato o minaccia terroristica in qualsiasi angolo del mondo, facendo passare in secondo piano qualunque dubbio o responsabilità nascoste.
Tutto questo nonostante la nascita stessa dell’organizzazione creata da bin Laden affondi le proprie radici nel jihadismo sostenuto e finanziato da Washington contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, ancor più, alla luce dell’incertezza nella quale sono tuttora avvolti i contorni e la reale consistenza di Al-Qaeda.
Secondo le ricostruzioni ufficiali, l’operazione che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden era iniziata lo scorso mese di agosto, quando i servizi segreti americani, grazie alle informazioni fornite da alcuni detenuti nel carcere di Guantánamo, riuscirono a individuare l’uomo incaricato di tenere i contatti con il numero uno di Al-Qaeda nella città di Abbottabad, nel Pakistan settentrionale. Solo un mese più tardi la CIA sarebbe riuscita a stabilire la presenza certa di bin Laden in un edificio lussuoso ma privo di collegamento telefonico o a internet.
A partire poi dalla metà di marzo, Obama ha tenuto una serie di riunioni con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale per decidere il da farsi. Venerdì scorso, infine, il presidente ha firmato l’ordine che ha autorizzato il blitz delle forze speciali in territorio pakistano, tenendo all’oscuro dell’operazione le stesse autorità locali. L’intervento del commando americano ha innescato un conflitto a fuoco che ha causato la morte di cinque persone, tra cui Osama bin Laden. Il corpo di quest’ultimo è stato poi trasportato in Afghanistan e, da qui, seppellito in mare.
Nel suo annuncio, il presidente americano ha fatto ampio uso dei consueti proclami retorici che hanno accompagnato la lotta al terrorismo inaugurata dal suo predecessore e che hanno puntualmente nascosto agli americani le vere ragioni del conflitto seguito all’11 settembre. Il discorso di Obama e i toni celebrativi dei giornali rappresentano un tentativo di unire il paese in un momento di grave crisi economica e di profonda sfiducia per le avventure belliche in corso.
La descrizione degli eventi, in ogni caso, lascia aperti molti interrogativi sia sull’operazione che sugli sviluppi del conflitto in Pakistan e Afghanistan. Innanzitutto, Osama bin Laden non era latitante in un’inospitale località di confine tra questi due paesi, bensì in una confortevole abitazione alla periferia di una città situata ad una sessantina di chilometri dalla capitale pakistana, Islamabad, e ancora più vicina a Rawalpindi, ovvero il quartier generale dell’esercito del Pakistan. Come se non bastasse, ad Abbottabad è stata documentata la presenza di altri affiliati ad Al-Qaeda in passato e, lo scorso mese di marzo, proprio qui venne catturato un militante islamico di spicco, l’indonesiano Umar Patek, membro del gruppo Jemaah Islamiyah. Secondo le parole di Obama, poi, la localizzazione di bin Laden è stata il frutto della collaborazione con i servizi pakistani.
Com’è evidente, la presenza di bin Laden in Pakistan sarebbe stata del tutto impossibile senza la protezione dei vertici governativi, militari e, soprattutto, dell’intelligence di questo paese. Più che dal paziente lavoro dei servizi segreti e dall’efficienza delle forze speciali USA, la fine di bin Laden sembra dunque essere stata resa possibile, per motivi ancora da chiarire, dalla decisione dei pakistani di liberarsi dello scomodo ospite al quale da anni avevano garantito protezione.
Come ha scritto ad esempio la testata on-line Asia Times, inoltre, bin Laden potrebbe essere la vittima indiretta degli sconvolgimenti che stanno attraversando il mondo arabo in questo 2011. A decretarne la fine, secondo questa ipotesi, sarebbe stata la stessa Arabia Saudita da dove - va ricordato - provengono i più ingenti finanziamenti a beneficio di Al-Qaeda e degli altri gruppi integralisti che operano in Pakistan.
Per i sauditi, nonostante tutto, bin Laden e i suoi non rappresentavano finora una vera minaccia alla sopravvivenza del loro regime. Con le recenti ondate di protesta, però, si è concretizzato il rischio di destabilizzazione anche per Riyadh e il vicino Yemen, una eventualità che andrebbe a tutto favore degli arcirivali iraniani e che Al-Qaeda potrebbe strumentalizzare e rendere ancora più pericolosa.
Uno scenario da evitare ad ogni costo per l’Arabia Saudita - da dove è verosimile si conosca qualcosa circa i movimenti dei gruppi legati ad Al-Qaeda, visto il flusso di denaro a loro destinato e che da qui ha origine - così che la continua presenza di Osama bin Laden è sembrata diventare improvvisamente troppo rischiosa.
Il fatto che bin Laden trovasse rifugio in Pakistan conferma anche l’assurdità delle pretese americane di combattere in Afghanistan per proteggere gli USA da Al-Qaeda. In Afghanistan, per ammissione stessa del governo americano, opera solo una manciata di uomini legati ad Al-Qaeda, mentre i gruppi jihadisti sono attivi per lo più in Pakistan, frequentemente sotto la protezione di un governo alleato degli Stati Uniti. Ciononostante, Washington ha aumentato massicciamente il dispiegamento di proprie truppe in Afghanistan negli ultimi anni.
Oltre ai possibili attentati in Occidente da cui la Casa Bianca ha messo in guardia, la rappresaglia di Al-Qaeda per vendicare la morte di bin Laden finirà probabilmente per concentrarsi nel prossimo futuro contro il Pakistan, intensificando la recente escalation di episodi sanguinosi. I vari accordi di cessate il fuoco tra i gruppi ribelli e i militari pakistani potrebbero saltare del tutto, così come verranno verosimilmente interrotti i negoziati per una possibile riconciliazione tra i militanti e le autorità.
Dal momento che Osama bin Laden in questi anni era diventato sempre più una figura simbolica - lasciando la gestione delle operazioni sul campo ad altri leader, come il suo numero due, l’egiziano Ayman al-Zawahiri - l’attività di Al-Qaeda non dovrebbe subire trasformazioni significative. Allo stesso modo, l’uccisione del nemico giurato degli USA non produrrà cambiamenti di rilievo nella strategia americana contro il terrore, come ha fatto intendere Obama nel suo annuncio.
L’impegno militare in Afghanistan come altrove rimane infatti legato esclusivamente alla difesa degli interessi strategici di Washington nelle aree cruciali del globo. Le quasi tre mila vittime degli attacchi dell’11 settembre, a cui bin Laden è legato, diventarono il pretesto per l’occupazione del paese e del successivo espansionismo militare americano. La più recente aggressione della Libia, per non parlare dell’invasione irachena del 2003, conferma d’altra parte come spesso gli obiettivi degli USA coincidano in maniera singolare con quelli dei gruppi fondamentalisti legati all’organizzazione fondata da Osama bin Laden, alcuni dei quali fanno parte appunto delle forze ribelli sostenute dai bombardamenti NATO e che si battono per il rovesciamento del regime di Gheddafi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di mazzetta
Il nuovo governo egiziano, nonostante il suo stato di governo provvisorio per portare il paese alle prime elezioni democratiche della sua storia recente, è molto attivo nel cercare di distanziarsi dalle imprese della dittatura di Mubarak. Addirittura ardito per la velocità e l'efficacia con la quale ha ridisegnato la politica internazionale egiziana, in particolare nei confronti di Israele e Palestina.
In pochi giorni e senza destare sospetti nelle altre cancellerie, è riuscito nella difficile impresa di far siglare la pace tra Fatah ed Hamas, le due fazioni palestinesi che sembravano inconciliabili dopo che Fatah aveva emarginato Hamas a Gaza dopo aver tentato e fallito un golpe armato sostenuto proprio da Egitto, Israele e Stati Uniti contro la formazione radiclae che aveva vinto le prime elezioni palestinesi da anni, volute proprio da Stati Uniti ed Israele.
Ai palestinesi non più divisi l'Egitto ha offerto la liberazione di Gaza, a distanza di un paio di giorni dall'annuncio dello storico accordo il ministro degli esteri egiziano ha dichiarato in televisione che l'Egitto porrà fine all'assedio di Gaza aprendo il valico di Rafah, sigillato da Mubarak, d'accordo con Israele. per punire gli abitanti di Gaza, colpevoli di aver votato Hamas. La pretesa israeliana era quella di far così crollare il consenso per Hamas, ma è un'intenzione alla quale non ha mai creduto nessuno.
In più il governo egiziano si è posto come tutore e facilitatore dei nuovi rapporti tra Hamas e Fatah, approntando una missione militare di specialisti che avrà il compito di stabilirsi a Gaza e gestire l'applicazione dell'accordo e definirne i numerosi dettagli pratici ed operativi.
Abbandonato da tutti e pesantemente delegittimato dall'aver agito di concerto con i governi israeliani senza ottenere null'altro che l'aumento delle colonie illegali nella West Bank, Abbas ha colto l'occasione per uscire dall'impasse e dare un senso al suo progetto di dichiarare la costituzione dello stato palestinese a settembre. Stato già riconosciuto da diversi paesi, con una lista complessiva di ben centossessanta governi che hanno già dato il loro consenso a riconoscere il futuro stato di Palestina, un riconoscimento che si rafforza indubbiamente grazie alla ritrovata unità politica dei palestinesi.
Unità che sembra aver gettato nel panico il governo di Netanyahu, che ha gridato allo scandalo, annunciando che con un governo che comprende i "terroristi" di Hamas, Israele non potrà mai far la pace. Il suo discorso non è piaciuto a nessuno e non solo perché la pace si fa necessariamente con i nemici o perché gli ultimi governi d'Israele hanno sulla coscienza, tra punizioni collettive, omicidi mirati, la devastazione di Gaza e del Libano e la colonizzazione della West Bank, crimini paragonabili a quelli di Hamas.
Il governo israeliano è oggi isolato come non mai e non ha spazi di manovra. Il nuovo scenario è ben visto anche dagli Stati Uniti e dall'UE, che con un rumoroso silenzio hanno evitato di unirsi alle condanne israeliane e osservano con malcelata soddisfazione l'evoluzione degli eventi, che mantengono l'Egitto nella sfera d'influenza americana e che smuovono una situazione che sembrava immutabile quanto foriera di violenze insensate per gli anni a venire.
Tocca ora al governo israeliano cambiare politica, rinunciando al plateale boicottaggio del processo di pace dimostrato sulla carta dai Palestinian Papers e sul campo dall'ottusa spinta alla colonizzazione della West Bank e dalla pretesa, inventata quando ormai non c'era più nulla da inventare, di un riconoscimento da parte di arabi e palestinesi del carattere "ebraico" dello stato d'Israele. Un'assurdità inaudita, perché il riconoscimento internazionale non è mai condizionato alla religione dominante in un paese, nesuno riconosce l'Italia come paese cattolico o l'Arabia Saudita come paese islamico, il riconoscimento vale come licenza a fare del proprio paese quello che si vuole, non certo a scrivere da qualche parte che sarà ebraico, cristiano o musulmano nei secoli.
Anche perché l'annunciata decisione di Hamas di confluire in un'unica formazione politica con Fatah risolve alla radice il problema del riconoscimento d'Israele (già riconosciuto dall'OLP) e dello statuto di Hamas che invoca la distruzione d'Israele, due posizioni che Hamas si era sempre detta disposta a superare di fronte a colloqui di pace seri e che Israele ha sempre citato per giustificare il sabotaggio dei coloqui di pace.
L'evoluzione della politica egiziana nei confronti d'Israele corrisponde al sentire della maggioranza degli egiziani, ma anche, in maniera straordinaria, agli interessi degli Stati Uniti, che da tempo lamentano il prezzo straordinariamente alto richiesto dalla protezione di un paese, Israele, completamente isolato sulla scena internazionale. Un paese che reagisce con arroganza e disprezzo a qualsiasi sollecitazione esterna fidando proprio sulla protezione americana. Un atteggiamento che agli occhi delle opinioni pubbliche mondiali, ma soprattutto di quella americana, rende Washington corresponsabile della politiche di un governo dominato da elementi nazionalisti e razzisti e da partiti che rappresentano un fanatismo religioso in tutto simile a quello dei talebani o di altri estremismi islamici.
Forse è giunto anche per Israele il momento di cambiare drasticamente politica, di smettere d'insultare pubblicamente il presidente Obama e altri leader europei e di sostituire il ministro degli esteri Lieberman, che più che alla diplomazia sembra dedito ad esibizioni di pessimo gusto e che ha un repertorio molto monotono, fatto esclusivamente d'insulti e minacce, per tutti. Israele non può più contare sulla spaccatura tra i palestinesi, cha ha a lungo coltivato fin da quando ha favorito l'emersione di Hamas contro Fatah in una tragica riedizione del sostegno offerto dagli Usa agli estremisti islamici in Afghanistan in chiave anti-sovietica. Israele non può più nemmeno dirsi minacciata, perché la devastazione dell'Iraq, di Gaza e del Libano hanno dimostrato che non esiste alcun nemico in grado di minacciare veramente Israele, quanto piuttosto è ben presente il problema dell'aggressività israeliana.
Mubarak non c'è più, bisogna che il governo israeliano se ne renda conto la più presto. Non c'è più il leader corrotto, non c'è più suo figlio che prendeva tangenti da Israele per le forniture di gas e non c'è più la strategia della tensione di matrice governativa. Non c'è più un governo che fa gli attentati ai cristiani copti per offrirsi poi come protettore contro i qaedisti fantasma, non c'è più il governo che nel 2005 incolpò gli islamici per l'attentato di Sharm el Sheik, che oggi i documenti dei servizi israeliani hanno rivelato essere stato una rappresagli contro un concorrente di Gamal Mubarak nel settore del turismo e nella divisione delle tangenti israeliane.
Attentato nel quale morirono sei italiani: Sebastiano e Giovanni Conti, Giovanni Conti, Daniela e Paola Bastianutti, Daniela Maiorana e Rita Privitera, i parenti dei quali saranno ancora convinti che siano stati vittima dei feroci islamisti, visto che i media italiani non hanno dato nessuna evidenza alla notizia e che la Farnesina, che ha difeso fino all'ultimo Mubarak e si era mobilitata per aiutarlo nel "proteggere i cristiani", difficilmente li avrà informati degli sviluppi.
Tutto questo non esiste più, si è aperta una nuova era con la quale misurarsi e forse è tempo che anche in Israele si affaccino nuovi leader e un nuovo ceto politico, magari non scelto tra i generali come da tradizione israeliana. È tempo di una fuga in avanti verso la civiltà, lontano dagli scenari da Guerra Fredda e dalle miserie cresciute all'ombra prima del conflitto arabo-israeliano e poi degenerate negli anni di Bush e della War On Terror.
L'Egitto ha lanciato la palla nel campo israeliano, tocca ora ad Israele dimostrarsi all'altezza della sfida senza scappare negli spogliatoi dicendo che non vuole giocare con i cattivi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
Di quella villa rimane solo un immenso cratere. Per la seconda volta in due giorni le forze Nato hanno cercato di uccidere a suon di bombe intelligenti il rais libico, Muammar Gheddafi. E per la seconda volta hanno fatto cilecca. Il Colonnello si trovava con amici e parenti nella casa del suo ultimogenito ed è rimasto illeso. Secondo fonti libiche, a morire sono stati tre nipotini di Gheddafi e il più giovane dei suoi figli, Saif al-Arab, 29 anni.
Che il vero obiettivo del raid Nato fosse il rais in persona lo sostiene Mussa Ibrahim, portavoce del governo di Tripoli. Almeno su questo c’è da credergli. Difficile immaginare per l’Alleanza atlantica un uomo più inutile da uccidere di Saif. Della sua famiglia era probabilmente il membro più innocuo. Di certo quello meno coinvolto nella gestione dello Stato. Il giovane Said era piuttosto incline alla bisboccia e ai reati minori dei bulletti di strada.
Durante gli anni universitari passati a Monaco, ad esempio, rimase coinvolto in una rissa col buttafuori di un night per difendere l’onore della sua fidanzatina. In un’altra occasione la polizia tedesca gli sequestrò la Ferrari 430 per disturbo alla quiete pubblica. A Saif piaceva sgasare col suo bolide tenendo il cambio in folle. Insomma, il ragazzo non era davvero un obiettivo militare primario. A differenza di quanto previsto per gli altri cinque figli di Gheddafi, l’Onu non ha mai disposto per lui il sequestro dei beni all’estero, ma semplicemente il divieto di viaggiare.
Questo la dice lunga sulla famosa precisione chirurgica dei bombardamenti Nato. Sparare più o meno a caso su un quartiere residenziale di Tripoli, sulla base di informazioni sbagliate, non sembra una mossa astuta. Soprattutto, non sembra questo il modo di “assicurare la protezione dei civili e delle aree a popolazione civile”, com’è scritto nella risoluzione Onu 1973 sull’intervento militare in Libia. Di civili, infatti, ne sono morti troppi. A cominciare dai tre bambini di sabato, tutti sotto i dodici anni.
Ma per dei civili che muoiono, ce ne sono altri che festeggiano. E lo fanno scaricando in aria i caricatori delle loro mitragliatrici. “I ribelli sono così contenti che Gheddafi abbia perso suo figlio che stanno sparando in aria per celebrare l’evento”, ha detto il colonnello Ahmed Omar Bani, portavoce militare del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi.
Un evento che potrebbe trasformarsi in un boomerang per i paesi occidentali e che inevitabilmente modificherà la politica di Gheddafi. Poche ore prima dell’uccisione di Saif, il dittatore si era detto pronto a negoziare con i paesi Nato. Già allora le sue parole erano suonate come un clamoroso bluff, figuriamoci adesso.
Nella sua ultima comparsata televisiva, Gheddafi ha proposto un disarmante mix di inviti alla pace e minacce sanguinarie. Le più pesanti, nemmeno a dirlo, quelle contro il nostro Paese (“Porteremo la guerra in Italia”). Nel frattempo, i suoi uomini continuavano a sparare su Misurata e al porto della città veniva imposto il blocco navale. Alcune unità dell’esercito superavano il confine con la Tunisia per inseguire i profughi libici, spesso dei disertori.
Il regime userà la morte dei quattro membri della famiglia Gheddafi per ribadire l’illegalità dell’azione Nato. La risoluzione Onu 1973 definisce le finalità dell’intervento militare in termini esclusivamente umanitari. I jet possono bombardare praticamente tutti gli edifici pubblici: dai centri amministrativi agli uffici parlamentari fino alle sedi delle varie associazioni governative.
Quello che i top-gun dell’Alleanza atlantica non possono fare è prendere di mira singoli individui. Ma a nessuno dispiacerebbe se per caso una bomba cadesse chirurgicamente proprio sulla testa del rais. Ormai è fin troppo chiaro. Lo è soprattutto ai governi di Russia e Venezuela, che hanno criticato ufficialmente l’attacco Nato. “Quanto accaduto è una chiara conferma dell’uso indiscriminato della forza da parte della Coalizione - ha detto il deputato russo Konstantin Kosachev, secondo quanto riporta l’agenzia Interfax - i fatti indicano che l’obiettivo è distruggere fisicamente Gheddafi”.
Il rais era già sopravvissuto a un bombardamento in cui rimase ucciso uno dei suoi figli. Nell’aprile del 1986 gli Usa lanciarono un raid sulla residenza del dittatore a Tripoli. Anche allora il Colonnello rimase illeso. Perse la vita Hanna, sua figlia adottiva. All’epoca, Ronald Reagan si mosse dopo che una bomba libica aveva ucciso due americani in un club di Berlino Ovest. Ora si teme che l’ordine degli eventi possa invertirsi. Si teme che il nuovo raid significhi bombe in nuovi club, o magari stazioni o chiese. Ad avere più paura è il nostro Paese: "La minaccia non va sottovalutata. Non mi sento di dire che quelle di Gheddafi siano battute propagandistiche - ha detto il ministro degli Interni, Roberto Maroni - L'uccisione di uno dei figli farà arrabbiare Gheddafi ancora di più".
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
A poco più di due anni dal suo approdo alla Casa Bianca, il presidente Obama sta procedendo in questi giorni a un primo rimpasto dei vertici militari e dell’intelligence. Il trasferimento più significativo è quello che assegnerà la guida della CIA al generale David Petraeus, capo delle forze americane di occupazione in Afghanistan. Una nomina che sposterà al Pentagono l’attuale numero uno della principale agenzia spionistica statunitense, Leon Panetta, destinato a sostituire il Segretario alla Difesa uscente Robert Gates, scelto da George W. Bush per guidare l’apparato militare americano nel dicembre 2006.
La scelta di Petraeus come prossimo direttore della CIA la dice lunga sulla metamorfosi di Barack Obama da candidato alla presidenza a presidente degli Stati Uniti. Petraeus, già scelto da Obama lo scorso anno per sostituire Stanley McChrystal al comando delle forze armate in Afghanistan fu, infatti, il principale artefice dell’aumento di truppe in Iraq deciso da Bush nel 2007 - al quale Obama si era opposto - per cercare di invertire le sorti della guerra di occupazione in questo paese.
Nel suo successivo incarico a capo del Comando Centrale (CENTCOM) che comprende il Medio Oriente, l’Egitto e l’Asia Centrale, Petraeus si era distinto inoltre per l’impiego delle Forze Speciali in operazioni clandestine in paesi non in guerra con gli Stati Uniti come Yemen e Iran, ma anche Arabia Saudita e Giordania, per contrastare le presunte attività delle organizzazioni legate ad Al-Qaeda.
Il dispiegamento dei reparti speciali in queste operazioni - solitamente condotte dagli uomini della CIA - ha determinato il confondersi tra la sfera militare e quella dell’intelligence civile. Con l’arrivo del generale Petraeus a Langley, sarà dunque ancora più evidente il sovrapporsi tra i due ambiti, con il rischio di rafforzare un pericoloso sistema di potere militare e d’intelligence dai contorni non ben definiti, in grado di esercitare un’enorme influenza sulla politica estera americana al di fuori di qualsiasi controllo dell’autorità politica.
La strategia di Petraeus contro i cosiddetti “insorti” in Iraq è stata poi replicata in Afghanistan, traducendosi in un’escalation di violenza, spesso ai danni di civili innocenti, per mezzo degli attacchi con i droni e di raid notturni delle forze speciali che alimentano inevitabilmente l’odio delle popolazioni locali nei confronti degli occupanti americani. Sotto la sua guida è facile ipotizzare dunque un’ulteriore militarizzazione della CIA ed un ampliamento delle sue prerogative nelle zone nevralgiche del Medio Oriente e dell’Asia Centrale.
A mettere in guardia dalla militarizzazione dell’intelligence a stelle e strisce sono anche autorevoli voci di Washington, come Henry Crumpton, ex funzionario della stessa CIA e già membro dell’antiterrorismo americano al Dipartimento di Stato, in una recente intervista al New York Times,. Tanto più che l’attuale primo consigliere di Obama per l’intelligence, il direttore dell’Intelligence Nazionale, è anch’egli un ex generale dell’Aviazione, James Clapper, e che il prossimo vice di quest’ultimo sarà a sua volta un generale dell’esercito, Michael Flynn.
Questa evoluzione è d’altra parte una delle eredità più nefaste della guerra totale al terrorismo del post 11 settembre. Lo stesso direttore uscente della CIA, Panetta, pur provenendo dall’establishment politico democratico, in questi due anni ha dato un contributo non indifferente, nelle parole dello stesso Times, a “trasformare l’agenzia spionistica in un’organizzazione paramilitare”.
L’autorità di Petraeus all’interno dell’agenzia sarà tuttavia da verificare, dal momento che lo spionaggio americano nutre da sempre una certa diffidenza nei confronti dei militari. Petraeus in ogni caso sembra essere da tempo in sintonia con la CIA. Il già citato ordine di utilizzare le forze speciali in operazioni d’intelligence in Yemen e altrove, pare essere stato impartito dietro consultazione con i vertici dell’agenzia. I suoi stretti rapporti con la CIA iniziarono peraltro già durante la guerra nei Balcani negli anni Novanta e si sono consolidati più recentemente in Iraq e Afghanistan.
Molto vicino alla cerchia dell’ex presidente Bush, David Petraeus gode in ogni caso della stima di gran parte dei congressisti repubblicani, così che la sua conferma da parte del Congresso al vertice della CIA appare scontato. La nomina di Petraeus potrebbe però accrescere le tensioni già alle stelle con il Pakistan, dal momento che i suoi rapporti con i vertici militari e spionistici di questo paese sono stati molto difficili negli ultimi anni.
Sul fronte del Pentagono, il dirottamento di Panetta è stato giudicato dai principali media americani come una scelta fatta da Obama per facilitare l’implementazione dei modesti tagli alla spesa militare che si prospettano nel prossimo futuro e che richiederanno complicate trattative con il Congresso. Il 72enne figlio d’immigrati calabresi è decisamente ben inserito negli ambienti del potere di Washington. Tra il 1994 e il 1997 Panetta è stato il Capo di Gabinetto del presidente Clinton, mentre in precedenza aveva ricoperto l’incarico di direttore del budget per la Casa Bianca.
Con un militare alla CIA, l’amministrazione Obama ha optato così per un politico puro al Dipartimento della Difesa, anche se, al contrario di Petraeus, nella sua veste di direttore della CIA Panetta ha in questi anni coltivato rapporti più cordiali con i vertici dell’intelligence pakistana. Proprio dagli sviluppi delle relazioni di Washington con Islamabad e alle sorti dell’avventura ormai quasi decennale in Afghanistan, che ad esse sono strettamente legate, nei prossimi mesi si misureranno in buona parte gli effetti del rimescolamento delle carte all’interno dello staff di Obama.