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di Mario Braconi
Mentre nei Territori le scuole e gli edifici del governo restano chiusi per le dimostrazioni a favore della “marcia” di Abbas alle Nazioni Unite, l’Amministrazione americana, per bocca del suo Presidente e della sua diplomazia, si sforza come può di freddare ogni entusiasmo. Nel suo discorso all’Assemblea Generale, il presidente americano ha ammonito: “Non vi sono scorciatoie per porre fine ad un conflitto che si è protratto per decenni; non si otterrà la pace con dichiarazioni o risoluzioni ONU; se fosse così facile, sarebbe già stato fatto”.
Un’interessante posizione, che stride però con le dichiarazioni fatte dallo stesso presidente all’Assemblea Generale del 2010: “Quando ci ritroveremo in questo stessa assise l’anno venturo, c’è la possibilità che avremo un accordo che possa condurre all’ingresso di un nuovo membro delle Nazioni Unite, uno stato di Palestina indipendente e sovrano, che vive in pace con Israele”.
Benché le parole di Obama - si sono affrettati a precisare i suoi - erano da considerarsi più un auspicio che un impegno concreto, è evidente che in questo momento esse costituiscono un segnale chiarissimo della distanza tra le buone intenzioni di ieri e il nulla di fatto di oggi, e un’ottima occasione per i Palestinesi, che hanno buon gioco a definire quella frase ristoratrice “la promessa di Obama”. In questo senso è abbastanza ironico l’atteggiamento degli Stati Uniti che, ancora ieri, sempre per bocca del loro Presidente, continuavano a sostenere l’ovvio, cioè che Israeliani e Palestinesi debbano organizzare colloqui per accordarsi sulle questioni che li dividono, sempre tragicamente le stesse da sempre: confini, sicurezza, confini e Gerusalemme. Mentre languono da anni i negoziati, di cui si sono arrogati unilateralmente il monopolio.
C’è però da segnalare un elemento nuovo, che da solo sembra dare ragione all’insistenza palestinese nell’incardinare la lotta presso le Nazioni Unite. A quanto sembra, lo scalpore causato dall’iniziativa palestinese è riuscita nell’eroico obiettivo di svegliare dal coma un Paese europeo, di solito interessato a dimostrare al mondo di avere a cuore i problemi del mondo arabo. Nicolas Sarkozy ha mostrato segni di vita politica: “I Palestinesi non devono aspettarsi di ottenere un’associazione piena alle Nazioni Unite come stato membro [cosa che tra l’altro è impedita dal veto americano ndr]” ha dichiarato il presidente francese, ma ha paventato il rischio di un’ondata di violenza in Medio Oriente se tale veto verrà effettivamente posto.
A parte questa dichiarazione inutile e imbelle, Sarkozy ha messo sul piatto un possibile piano che si articolerebbe nel modo seguente: approvazione dello stato di osservatore all’Assemblea Generale (e per questo i Palestinesi non hanno bisogno del suo permesso e del suo sostegno, avendo già una maggioranza certa dell’assise), inizio di nuovi colloqui entro un mese, sei mesi per discutere dei confini e giungere ad un “accordo definitivo” che dovrebbe concretizzarsi entro un anno.
Non è dato sapere se la proposta di Sarkozy sia una boutade dettata solo dalla sua mania di protagonismo, o se invece verrà sostenuta con la necessaria forza e coerenza: ma il solo fatto che sia saltata fuori come un coniglio dal cilindro fa pensare che forse Obama sia in errore quando dice che la strada per la pace in Medio Oriente non possa passare (anche) per i corridoi del Palazzo di Vetro.
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di Michele Paris
In un’apparizione televisiva dal Rose Garden della Casa Bianca, lunedì scorso Barack Obama ha presentato l’ennesimo piano per la riduzione del colossale debito pubblico statunitense. Il nuovo progetto del presidente democratico prevede questa volta una riduzione della spesa pari a 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio, da raggiungere per mezzo di modesti aumenti delle tasse per i redditi più alti e “riforme strutturali” dei popolari programmi sanitari pubblici Medicare e Medicaid.
Per la maggior parte dei media americani, quella che Obama ha inaugurato ufficialmente con l’intervento di lunedì è una nuova fase della sua presidenza. L’inquilino democratico della Casa Bianca sarebbe cioè diventato più combattivo da qualche tempo, meno disposto al compromesso con i repubblicani e ben deciso a battersi per misure finalmente d’impronta progressista.
Il presunto nuovo corso di Obama, in realtà, appare più che altro dettato da opportunismo politico. In un momento di grave crisi del paese, gli indici di gradimento del presidente sono crollati drasticamente. Così, di fronte ad una base democratica profondamente delusa dalle mancate promesse di cambiamento e con l’inizio della campagna per la rielezione alle porte, Obama e i suoi strateghi hanno deciso di esibire il consueto tono populista cui il partito ricorre puntualmente all’approssimarsi del voto.
La “manovra” disegnata da Obama e da uno staff di consiglieri economici rinnovato da poco verrà trasmessa alla speciale Commissione bipartisan del Congresso già incaricata di proporre entro la fine dell’anno misure per ridurre il debito di 1.500 miliardi di dollari. Questa commissione, composta da sei parlamentari democratici e altrettanti repubblicani, è stata istituita nell’ambito dell’accordo trovato lo scorso mese di agosto per l’innalzamento del tetto del deficit americano e le sue conclusioni dovranno essere votate dal Congresso a fine dicembre senza possibilità di emendamenti.
In maniera insolita, nel corso del suo intervento pubblico Obama ha minacciato di esercitare il potere di veto nel caso sul suo tavolo dovessero giungere provvedimenti approvati dal Congresso che contengono esclusivamente tagli alla spesa pubblica. “Non darò il mio appoggio a nessun piano che farà pagare la riduzione del nostro deficit alla maggioranza dei cittadini americani”, ha spiegato il presidente. “Metterò il veto su qualsiasi legge che comporterà modifiche per coloro che fanno affidamento su Medicare senza aumentare la quota di entrate provenienti dagli americani più ricchi e dalle corporation”.
In altre parole, esclusivamente per convenienza politica, Barack Obama sosterrà provvedimenti che devasteranno programmi pubblici che coprono le spese sanitarie di decine di milioni di americani solo se saranno accompagnati da misure poco più che simboliche destinate ad aumentare modestamente il carico fiscale per i redditi più elevati.
La stessa Casa Bianca, però, ha ammesso che le proprie iniziative per innalzare le tasse a carico dei privilegiati hanno ben poche probabilità di essere approvate al Congresso. Qui la resistenza dei repubblicani - in maggioranza alla Camera dei Rappresentanti - è infatti tale da far escludere per ora qualsiasi cedimento sulla questione fiscale, come ha ribadito in questi giorni lo speaker John Boehner.
Per Obama si tratta in ogni caso di mostrarsi almeno dalla parte della classe media e dei lavoratori, così da convincere soprattutto gli elettori indipendenti della sua volontà di trovare un compromesso equo con i repubblicani sulla questione del debito e scaricare su questi ultimi la responsabilità del mancato accordo.
Concretamente, il piano di Obama che, nelle parole di un membro dello staff presidenziale, prevede “parecchie sofferenze”, include tagli per 320 miliardi di dollari nel prossimo decennio a Medicare (248 miliardi) e Medicaid (72), i piani sanitari pubblici destinati rispettivamente agli anziani e ai più poveri.
Esclusi almeno per ora dalla scure della Casa Bianca sono invece gli interventi sul sistema pensionistico e l’innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, anche se Obama ha fatto intendere che potrebbero esserci tagli da subito anche in questo ambito se i repubblicani si mostreranno disponibili ad accettare i modesti aumenti alle tasse previsti per i più ricchi.
I tagli nel settore della sanità si materializzeranno, tra l’altro, nell’aumento dei premi a carico dei beneficiari di Medicare, nella riduzione dei rimborsi destinati agli ospedali che curano i malati coperti dallo stesso programma per gli anziani, nel pagamento di una parte dei servizi erogati ai malati che ricevono assistenza a domicilio e nell’abbattimento degli stanziamenti federali su cui gli stati fanno affidamento per pagare i servizi garantiti da Medicaid.
Dei 4 mila miliardi, poi, 1.500 dovranno arrivare da quello che viene definito un aumento delle tasse per i redditi più alti. È bene sottolineare tuttavia che l’obiettivo finale di Obama è quello di ridurre l’aliquota per i “creatori di posti di lavoro” del settore privato, mentre i risparmi dovrebbero arrivare pressoché unicamente dalla soppressione di scappatoie fiscali che consentono alle corporation di pagare meno tasse e da un nuovo limite fissato alle deduzioni, di cui beneficiano peraltro anche lavoratori e classe media.
Altri mille miliardi in minori spese saranno possibili in seguito al relativo disimpegno dai conflitti in Iraq e Afghanistan. Tra le altre misure previste ci sono anche la riduzione dei sussidi al settore agricolo (31 miliardi), l’aumento del contributo versato dai dipendenti pubblici per le loro pensioni e per l’acquisto dei medicinali da parte dei veterani delle forze armate, una sovrattassa sui biglietti aerei per finanziare le misure di sicurezza anti-terrorismo negli aeroporti, la riduzione delle ore lavorate e del personale addetto al Servizio Postale USA.
Nonostante gli interventi proposti da Obama finiscano dunque per colpire in maniera eccessiva proprio i redditi più bassi, già penalizzati dalla persistente crisi economica e dalle misure di austerity implementate in questi mesi, il presidente ha tenuto a respingere fermamente l’assurda accusa di portare avanti una “guerra di classe” contro i ricchi, lanciatagli dallo speaker repubblicano della Camera, John Boehner.
In una dichiarazione al limite del patetico, il direttore dell’Ufficio della Casa Bianca per il Bilancio, Jacob J. Lew, ha infatti rassicurato che il presidente non intende “prendere di mira i ricchi”. Un’affermazione, questa, significativamente rilasciata poco dopo la presentazione di misure che produrranno un ulteriore aggravamento delle condizioni di vita di milioni di persone e che mostra ancora una volta quali siano i soli interessi a cui fa riferimento l’intera classe politica americana.
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di Michele Paris
Con un’altra eclatante operazione nella capitale afgana, nella serata di martedì le forze ribelli che si battono contro l’occupazione occidentale nel paese centro-asiatico hanno portato a termine l’ennesimo attentato ai danni di una delle più autorevoli personalità del panorama politico locale. A cadere vittima della violenza talebana - anche se l’attentato non è stato ancora rivendicato ufficialmente - è stato questa volta l’ex presidente Burhanuddin Rabbani, attuale numero uno dell’Alto Consiglio per la Pace, incaricato precisamente di promuovere il processo di riconciliazione con gli “studenti del Corano”.
L’attentatore - del quale è stato diffuso solo il nome, Esmatullah - è risultato essere un messaggero talebano che godeva della fiducia dell’entourage di Rabbani, con cui era in contatto da almeno cinque mesi. Nella giornata di martedì, Esmatullah avrebbe contattato Rahmatullah Wahidyar, ex vice-ministro nel regime talebano e anch’egli membro dell’Alto Consiglio per la Pace, perché in possesso di un messaggio urgente da recapitare a Rabbani da parte della “Shura di Quetta”, il gruppo dirigente talebano con sede nell’omonima città del Pakistan.
Rabbani era da poco rientrato da una visita in Iran e, informato da Wahidyar, ha acconsentito a ricevere Esmatullah nella propria abitazione. Appena entrato nello studio dell’ex presidente afgano senza essere perquisito, l’attentatore si è fatto saltare facendo detonare l’esplosivo che nascondeva nel suo turbante. Oltre ad uccidere il 71enne Rabbani, l’esplosione ha ferito seriamente altre quattro persone presenti, tra cui lo stesso Wahidyar e un terzo membro dell’Alto Consiglio coinvolto nei colloqui di pace, Masoom Stanekzai. Il presidente afgano, Hamid Karzai, ha espresso il proprio cordoglio per la morte di Rabbani ed ha interrotto la sua trasferta alle Nazioni Unite per rientrare immediatamente in patria.
Quest’ultimo episodio conferma l’irrisoria facilità con cui gli “insorti” sono in grado di penetrare anche le aree di Kabul ritenute più sicure. L’attentato giunge infatti a pochi giorni da uno spettacolare attacco condotto dai Talebani nella capitale e che ha sollevato più di un dubbio sulla presenza di infiltrati tra le forze di sicurezza afgane che dovrebbero prendere in mano il controllo del paese una volta che le forze di occupazione NATO se ne saranno andate.
Solo negli ultimi tre mesi, poi, altre due personalità afgane di spicco erano state bersaglio di attentati fatali con modalità simili. A luglio, il potente fratellastro del presidente, Ahmed Wali Karzai, era stato ucciso nel proprio studio di Kandahar da una guardia del corpo, mentre pochi giorni più tardi un altro alleato del presidente, l’ex governatore della provincia di Oruzgan, Jan Mohammed Khan, sarebbe finito vittima di un attentatore introdottosi nella sua abitazione.
La morte di Rabbani rischia di infliggere un colpo devastante alle velleità di riconciliazione con i Talebani di Karzai e di Washington. Non solo l’ex presidente era considerato uno dei pochi uomini politici con l’esperienza e l’autorevolezza necessarie per cercare di convincere i Talebani a deporre le armi, ma la sua uccisione riporta a galla anche tutti i malumori diffusi in ampi strati della classe politica afgana per un complicato e improbabile processo di pace.
Numerosi politici - soprattutto di etnia diversa da quella Pashtun, a cui appartengono i Talebani - non hanno infatti esitato a manifestare pubblicamente tutta la loro contrarietà alla reintegrazione degli esponenti del precedente regime. “È tempo che il presidente Karzai apra gli occhi - ha dichiarato l’ex candidato alla presidenza Abdullah Abdullah in un’intervista - queste sono le persone che Karzai ha definito cari fratelli. Sono loro i responsabili di quanto accaduto”.
Burhanuddin Rabbani aveva ricoperto la carica di presidente dell’Afghanistan tra il 1992 e il 1996 durante la guerra civile che ha lacerato il paese dopo la partenza dei sovietici, per poi aprire la strada alla presa del potere da parte dei Talebani. Negli anni Ottanta, Rabbani aveva partecipato alla resistenza contro l’occupazione sovietica, creando uno dei tanti gruppi guerriglieri anti-comunisti sostenuti dagli USA e dall’Occidente operanti dal Pakistan (Jamiat-e-Islami).
Deposto dai Talebani nel 1996, Rabbani era diventato uno dei principali leader dell’Alleanza del Nord, composta per lo più da combattenti Tagiki - alla cui etnia apparteneva - e Uzbeki, che avrebbe appoggiato l’invasione americana nel 2001. Una volta rovesciato il regime talebano, Rabbani poté tornare alla politica attiva a Kabul, promettendo fedeltà al presidente Karzai. Una fedeltà che gli è costata cara.
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di Eugenio Roscini Vitali
Il primo prodotto del piano di cooperazione militare sottoscritto il 4 settembre scorso dai ministri della Difesa di Grecia ed Israele è l’approvazione da parte del Parlamento greco dell’acquisto di 400 kit di conversione SPICE (Smart Precise Impact and Cost Effective) 1000 e 2000, con equipaggiamenti per la trasformazione delle bombe a caduta della serie Mark-80 in armamenti guidati di precisione con una percentuale di acquisizione dell’obbiettivo pari al 95%.
Il kit, che nel caso delle MK-84/BLU-109B verrebbe installato su ordigni del peso nominale di oltre 900 kg capaci di penetrare corazze di metallo di 38 cm o colate di cemento armato di oltre 3 metri di spessore, verrà fornito all'Hellenic Air Force (HAF) dalla Rafael Advanced Defense Systems, industria israeliana produttrice di tecnologia high-tech per sistemi d’arma destinati al mercato degli armamenti e ad applicazioni spaziali.
L’operazione, il cui costo totale è calcolato in 155 milioni di dollari, rientra nel memorandum di intesa siglato lo scorso anno dal primo ministro greco George Papandreou e dall’omologo israeliano Benjamin Netanyahu. La bozza del contratto, finalizzato durante la visita a Gerusalemme del ministri della Difesa greco, Panos Beglitis, risale all’8 febbraio scorso, ma è dal 2005 che la Grecia mostra interesse per questo tipo di tecnologia e i primi contatto con la Rafael risalgono all’estate del 2009.
Per alcuni analisti la ragione della cooperazione militare va ricercata nel ruolo economico che Israele potrebbe svolgere nelle crisi finanziaria greca, ma l’annuncio della volontà israeliana di rafforzare i legami militari con Atene risale all’agosto 2010, dopo l'incidente della Freedom Flotilla e la rottura diplomatica tra Ankara e Tel Aviv. E’ in quella stessa estate che a Creta l’Hellenic Air Force e l’Israel Air Force (IAF) dettero vita ad un’esercitazione congiunta, con Atene che mise a disposizione dei piloti israeliani le batterie missilistiche russe S-300 perché potessero sviluppare un adeguato addestramento ai metodi di distruzione degli stessi sistemi di difesa aerea che Mosca era in procinto di vendere alla Repubblica Islamica e che aveva già fornito alla Siria.
Stessa cosa nel 2008, quando i bombardieri israeliani erano stati autorizzati ad entrare nello spazio aereo greco per effettuare missioni di addestramento a lungo raggio e di rifornimento in volo; in quel caso veniva sfruttata l’identica distanza che separa lo Stato ebraico dall’Iran e dalla Grecia (1.900 km) per preparare un attacco ai siti nucleari dello Stato sciita.
Sul piano strategico-militare gli effetti della rinvigorita cooperazione greco-israeliana trovano il primo banco di prova nelle acque a largo della Repubblica di Cipro, nella Zona Economica Esclusiva (Zee), dove la compagnia texana Noble Energy ha posizionata la piattaforma per trivellazioni petrolifere Homer Ferrington. Dopo aver condotto ricerche a largo di Ashdod, nell’area del giacimento israeliano off-shore noto come Noa, la Homer Ferrington sta infatti iniziando una fase di prospezione nel settore greco-cipriota denominato Blocco 12.
Il trasferimento della piattaforma, che dovrebbe cominciare le trivellazioni nei prossimi giorni, è stato monitorato dalla marina e dall’aeronautica militare turca, impegnate nell’esercitazione “Operazione Barbarossa”, un impegno di risorse militari gestito dal Comando navale di Izmir e al quale stanno assistendo, a dovuta distanza, la Sesta Flotta USA e le componenti navali degli Stati europei membri della NATO.
Com'era prevedibile, la Turchia non gradisce quello che, indubbiamente, appare come un accordo tra Atene e Tel Aviv destinato a rimettere in discussione gli equilibri dell’area. Ankara afferma che Cipro ed Israele non hanno alcun diritto a condurre ricerche nelle rispettive Zee e che le prospezioni condotte dal governo di Nicosia rappresentano un ostacolo per la continuazione dei negoziati per la riunificazione dell'isola.
Secondo le autorità turche una parte degli eventuali proventi derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti del Blocco 12 spetterebbe ai ciprioti che vivono nel settore dell’isola occupata militarmente dalla Turchia dal 1974 e se questo non dovesse avvenire Ankara sarebbe pronta a stipulare un accordo con la Repubblica turca di Cipro del Nord per condurre prospezioni nel tratto di mare a nord dell'isola.
E’ dal 14 settembre scorso che la Difesa turca segue con particolare apprensione gli spostamenti della Homer Ferrington e, secondo Tel Aviv, in questa fase le navi di Ankara sarebbero spinte a meno di 80 chilometri dalla acque territoriali israeliane. A questo si aggiunge il fatto che la Grecia ha già protestato per la presenza della marina militare turca nelle vicinanze dell’isola greca di Kastellorizo, dove si suppone stesse scortando la nave norvegese Bergen Surveyor, imbarcazione per ricerche geologiche che attualmente naviga tra Cipro e il golfo di Antalya.
Il rischio di un incidente è quindi elevato, soprattutto da quando i vertici politici del paese membro della NATO hanno autorizzato la marina ad avvicinare le navi israeliane fino ad una distanza di 100 metri e a prendere tutte le misure necessarie a disabilitarne i sistemi d’arma. La decisione di monitorare da vicino la Homer Ferringoton e di pattugliare con una massiccia presenza navale il Mediterraneo orientale deriverebbero comunque dallo scarso numero di aeromobile a pilotaggio remoto a disposizione. Il problema deriva soprattutto dalla decisione americana di negare i Predator ad un paese che minaccia Israele e c’è poi la questione degli Heron israeliani acquistati prima della crisi del 2010 e della decisione di espellere il personale tecnico che li gestiva.
Per ora nel settore dei velivoli senza pilota (UAV) l’aviazione militare turca può contare solo sui droni di produzione nazionale, gli Anka della Turkish Aerospace Industries (TAI), un velivolo che secondo gli israeliani ha lamentato problemi di quota e trasmissione dati in tempo reale durante la caccia ai guerriglieri del PKK tra le montagne Kurdistan turco. Per quanto riguarda gli Heron israeliani il dubbio è legato all’immediata capacità dei turchi di rimpiazzare i tecnici della Israel Aerospace Industries espulsi lo scorso anno e alla possibilità di mantenere in linea di volo un adeguato livello di efficienza. Secondo le ultime informazioni, del lotto di dieci velivoli acquistati nel 2008 i turchi ne avrebbe la metà; cinque sarebbero stati inviati in Israele per la manutenzione e mai più tornati indietro; due non sarebbero operativi e tre avrebbero gravi problemi tecnici al sistema di propulsione Rotax 914.
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di Fabrizio Casari
Alpha 66, l’organizzazione terroristica cubano-americana con sede a Miami, da ora potrà svolgere le sue attività anche a Madrid, dove il governo della Comunità Autonoma della capitale - diretto dall’esponente ultrareazionaria del Partito Popular, Esperanza Aguirre -gli ha permesso di aprire i suoi uffici. Una scelta sconcertante quella della Aguirre, perché la storia di Alpha 66 è tristemente nota per essere una storia di terrorismo.
Il gruppo paramilitare nasce, con l’aiuto della CIA, dopo la fallita invasione della Baia dei Porci nel 1962 e, in quasi 50 anni, si è reso responsabile di numerosi attentati terroristici a Cuba. Cominciò nel 1963 con un attacco ad un albergo di studenti a Tararà, quindici km fuori L’Avana, e proseguì con minacce alle ambasciate cubane in Messico, Ecuador, Brasile e Canada, uccisioni di pescatori, attacchi a imbarcazioni, bombe negli alberghi, tentativi di assassinio di Fidel Castro. Uno dei suoi capi, Andrès Nazario, è stato ripetutamente vincolato al narcotraffico: il terrore ha bisogno di quattrini.
Ebbene, questa specchiata organizzazione criminale, che si addestra alla guerra nelle everglades di Miami sotto l’occhio compiaciuto delle autorità Usa, ha ora i suoi uffici in una capitale europea grazie al PP. E’ vero che le posizioni del Partito popolare spagnolo nei confronti di Cuba non sono un mistero, dal momento che il suo leader (quello vero, non quello fittizio che si presenta agli elettori) Josè Maria Aznar, da sempre è il principale terminale europeo dei finanziamenti erogati dalla Fondazione Nazionale Cubano Americana (FNCA), cioé il catalizzatore pubblico delle diverse sigle armate di stanza in Florida che dirigono l’attività terroristica contro l’isola caraibica.
Non é storia di oggi. Durante tutta la durata del suo mandato (1996-2004) Aznar e il suo PP offrirono ogni sorta di appoggio pubblico a terroristi e fiancheggiatori cubano americani, mentre sul piano politico e diplomatico, con le pressioni politiche sulla Ue, portarono l’Europa alla “posizione comune” contro Cuba. Una delle idiozie più famose della diplomazia europea che è stata sonoramente ignorata da tutti, salvo ricevere l’applauso convinto degli Usa.
Il legame personale di Aznar con la FNCA è del resto universalmente noto. Nel 1996, da premier spagnolo, appoggiò con forza l’acquisto della grande corporazione spagnola Sintel da parte della MasTecInternational, la società di Jorge Mas Canosa, allora presidente della FNCA. Fino a quel momento la Sintel era in piena prosperità, con 21 filiali in tutto il mondo. Ma Aznar doveva restituire favori a Miami e la vendita venne effettuata con modalità ultrafavorevoli per Mas Canosa. Diverse testimonianze, tra le quali quelle degli eredi del defunto faccendiere cubanoamericano, evidenziano come si sia poi trattato di una frode completa ai danni della Sintel, dal momento che Mas Canosa liquidò la società spagnola con una serie di manovre finanziarie attuate tramite società anonime residenti nei paradisi fiscali e nelle banche di Lussemburgo, Haiti, Messico, Isole vergini, Porto Rico, Svizzera e Stati Uniti. La Sintel dichiarò fallimento e decine di migliaia di lavoratori spagnoli furono licenziati.
Una storia quindi da sempre torbida quella tra il vanesio leader della destra spagnola e il variegato insieme di mafiosi e terroristi cubano americani con sede a Miami. Non a caso nelle sue campagne elettorali Aznar non ha mai mancato l’appuntamento della Florida. E non certo perché vi risiedano un numero significativo di elettori con diritto al voto in Spagna, ma per raccogliere i fondi che le organizzazioni terroristiche anticubane generosamente gli consegnavano. Si riuniva con Jorge Mas Canosa, il defunto faccendiere e terrorista che fondò (su richiesta di Ronald Reagan) la FNCA e, in questo modo, dava un'autorevolezza "europea" a Mas Canosa, che la riteneva necessaria per forzare ulteriormente le pressioni della comunità cubanoamericana verso la Casa Bianca. Per questo il PP ha sempre permesso ad ogni elemento del variegato mondo del terrorismo anticubano di trovare udienza e rappresentanza nel paese iberico. Denaro in cambio di interlocuzione politica. Un modo per ricambiare le mazzette e per sostenere in forma attiva il legame con la famiglia Bush, che per i gusanos di Miami era e resta la principale sponda politica e finanziaria.
Sui legami tra la famiglia Bush e il terrorismo cubanoamericano ci si potrebbe dilungare con dovizia di particolari. Nato quando Bush padre era Direttore della CIA e proseguito quando divenne Vice-presidente Usa, dove diede in mano ai cubanoamericani parte dell'organizzazione della guerra contro il Nicaragua, si consolidò definitivamente in una campagna elettorale del 2001. Andando indietro con la memoria si potrà agevolmente ricordare come George W. Bush venne eletto Presidente dopo una notte di black-out elettorale che trasformò la maggioranza dei voti per Al Gore in maggioranza per Bush. Come tutti sanno, la FNCA fu la regista dell’operazione.
D’altra parte, il comune sentire della famiglia Bush con il terrorismo anticubano era pari a quello con le monarchie del Golfo: affari e passione ideale si sono sempre coniugate nell’epopea della famiglia dei petrolieri texani. A significare i legami che si sono tramandati di erede in erede, basta ricordare il perdono presidenziale, nel 1990, da parte di George Bush a Orlando Bosh, che con il suo compare Luis Posada Carriles, fu l’organizzatore di decine di attentati contro Cuba e non solo, il più grave dei quali fu la collocazione a bordo dell’aereo della Cubana de Aviaciòn che esplose sui cieli delle Barbados con un saldo di circa ottanta morti.
Per non essere da meno, il figlio, George W. Bush, in un raro momento di sobrietà, il 20 Marzo del 2003 invitò alla Casa Bianca il leader di Alpha 66, Diaz Rodriguez. Ad accompagnare Rodriguez c’era un altro esponente di Alpha 66, Jesus Penalver Mazorra, che il 12 Dicembre del 1995 era stato arrestato dalla polizia in California perché trovato in possesso di un vero e proprio arsenale; ma, guarda caso, non venne condannato. Un po’ come successe pochi anni orsono a Luis Posada Carriles, membro di Alpha 66, definito dalle organizzazioni per i diritti umani Usa il “bin Ladin delle Americhe”. Benché richiesta la sua estradizione da Cuba e Venezuela, dove gli sono imputati uccisioni e atti terroristici (tra tutti, quella dell’italiano Fabio di Celmo, ucciso da una bomba fatta collocare da Posada Carriles nell’Hotel Copacabana a L’Avana, della quale Posada si è autoaccusato ndr) Posada Carriles circola libero per Miami. Perché?
Perché arrestato e processato, dopo aver fatto intendere che avrebbe potuto raccontare qualcosa di sconveniente per gli USA, venne solo condannato (e quindi liberato) per essere entrato illegalmente negli Usa. Proveniva da Panama, Posada Carriles, dove era stato arrestato e si trovava in attesa di giudizio per aver organizzato un attentato al tritolo contro Fidel Castro in visita all’Università di Panama City. Ma era stato liberato con un decreto d’urgenza dalla ex-presidente Mireya Moscoso, a sua volta riparata a Miami per sfuggire alla giustizia panamense dopo aver saccheggiato le casse del paese. La liberazione di Posada fu il visto per gli Usa per la ex-presidente di Panama.
E, sempre per quanto riguarda i rapporti tra la famiglia Bush e il terrorismo cubano-americano, c'é un altro episodio significativo da citare. Non fosse abbastanza grave e imbarazzante che due terroristi fossero stati ospiti della Casa Bianca due mesi prima, il 2 Giugno del 2005 George W. Bush inviò una lettera pubblica di ringraziamento ad Alpha 66, confermando l’impegno al loro fianco e dicendosi interessato a conoscere le strategie del gruppo paramilitare. Lo stesso ardore é stato confermato anche da suo fratello Jeb, che non mai ha perso occasione per gridare ai quattro venti la sua passione per le organizzazioni terroristico-mafiose anticubane residenti a Miami. Senza il loro appoggio, non sarebbe mai diventato Governatore della Florida.
Per quanto riguarda la Spagna, che ha fatto dell’ostilità verso Cuba e Venezuela l’unico elemento significativo della sua politica verso il continente latinoamericano, non si può non cogliere il nesso tra l’atteggiamento di politica estera e quello del suo mainstream, con El Pais in testa. El Pais, infatti, è divenuto uno dei capisaldi della campagna diffamatoria e menzognera contro l’isola. Una versione iberica del Miami Herald, insomma, che ha trascinato in un triste epilogo quella che un tempo fu una testata degna di attenzione per tutti coloro interessati alla politica estera in generale e all'America Latina in particolare.
La notizia dell'autorizzazione ad aprire un ufficio di Alpha 66 a Madrid non ha avuto una grande eco nella stampa spagnola e, ovviamente, nessun accenno ne ha fatto El Pais. Eppure qualche domanda poteva essere posta. Ad ogni modo,il fatto che il governo cubano - con il quale la Spagna mantiene intense relazioni diplomatiche - consideri Alpha 66 un’organizzazione terroristica, non muove nemmeno un dubbio a Madrid. Sarebbe curioso vedere le reazioni in caso di reciprocità. Che ne direbbero a Madrid se all’Avana aprisse un ufficio l’Eta?
Vedremo se l’esito del prossimo voto in Spagna premierà - come si pronostica - il Partito Popolare. Ma nel dubbio circa l’esito del voto, almeno una certezza c’è: ancora una volta, la campagna elettorale del Partito Popolare, assodata la sua genuflessa disponibilità verso le organizzazioni di Miami, vedrà il consueto, significativo apporto in dollari proveniente dalla Florida. Sporchi o no di sangue, sempre dollari sono.