di Mario Braconi

Una nuova generazione di “oligarchi” sta razziando le risorse del Sud Africa? A questo sembra alludere la storia che Martin Plaut della BBC racconta nel suo programma radiofonico Crossing Continents. Le miniere di Orkney e di Grootvlei, che davano lavoro ad oltre 5.000 persone, appartenevano alla società Pamodzi Gold Ltd. Ad ottobre 2009, a circa sei mesi dal fallimento della Pamodzi Gold, si è fatto avanti un possibile acquirente, Aurora, con un’offerta di 605 milioni di rand (oltre 60 milioni di euro ai cambi attuali). Un curatore fallimentare, nominato dall’Alta Corte, attribuì ufficialmente ad Aurora il controllo dei due siti a dispetto del fatto che nessuno dei suoi dirigenti potesse vantare un’esperienza, sia pur minima, nell’industria estrattiva. Come vedremo, le credenziali degli alti papaveri della Aurora erano di tipo diverso.

Nonostante le solenni promesse del management ai sindacati, nei primi cinque mesi del 2010 i lavoratori non hanno ricevuto lo stipendio; ad agosto del 2010 un dirigente della Aurora convocò addirittura una conferenza stampa per spiegare che ormai si era al termine del tunnel, e che il giorno successivo le competenze dovute sarebbero state liquidate (una somma che a novembre 2010 si aggirava attorno ai 16 milioni di rand, 1,6 milioni di euro al cambio attuale). Ma non è stato liquidato niente.

Dopo lo sciopero indetto per protesta, Aurora ha cessato le sue operazioni estrattive, lasciando negli stabilimenti solo un centinaio di lavoratori, a svolgere operazioni di manutenzione. Gli oltre 5.000 lavoratori non sono stati propriamente licenziati: semplicemente, non è richiesto il loro lavoro, per cui vivono in un limbo. Non hanno più alcuna fonte di reddito e sono costretti a sopravvivere negli ostelli per minatori, costruzioni-ghetto semi-fatiscenti realizzate a distanza di chilometri dalle miniere. Significativamente, le sole attività che dimostrano una qualche vivacità all’interno di questi villaggi sono i mercatini in cui la gente si scambia cose usate: vestiti, apparecchi elettrici, mobilia.

Non sono mancati episodi drammatici: ad agosto, a Grootvlei, sono stati trovati quattro cadaveri con segni di ferite da arma da fuoco. Secondo il presidente di Aurora, i quattro erano minatori illegali (come se questo bastasse a giustificare il loro assassinio); il sindacato sostiene invece che si trattava di lavoratori messi a riposo forzato, introdottisi illegalmente nella miniera per procurarsi con il proprio lavoro (illegale?) qualcosa da vendere per campare.

Plaut intervista due minatrici rimaste senza salario da più di un anno: il bel volto della signora Primrose Javu è pieno di rabbia e dignità: “E’ dura, sa, vivere della carità degli altri”, confessa al giornalista. Già, perché, per sopravvivere, Primrose e i suoi compagni di sventura possono contare solo sui pacchi-dono di alimentari, gentilmente messi a disposizione da qualche “filantropo” tutt’altro che disinteressato. In tempi migliori, a regalare cibarie era il sindacato, il NUM (National Union of Mineworkers).

Ma oggi quell’istituzione tanto vicina al potere (ovvero all’African National Congress), rimasta con le mani in mano di fronte allo scempio, è comprensibilmente non molto popolare. In compenso, sono molto attivi quelli dell’ANC, subentrati al sindacato, guarda caso in tempo di elezioni. Ma Primrose, e le persone come lei l’hanno capito e lo dichiarano alla stampa senza tanti giri di parole: quelli dell’African National Congress, mirano solo ai voti degli ex-minatori disperati.

Il rappresentante di un’altra sigla sindacale, più rappresentativa dei lavoratori specializzati, fa notare anche che, da quando le mani di Aurora si sono piazzate sulla facility di Grootvlei, la miniera è stata saccheggiata di tutta l’attrezzatura di valore, presumibilmente rivenduta come materiale di scarto: un vero e proprio furto, dato che ad oggi Aurora non ha ancora tirato fuori nemmeno uno degli oltre 600 milioni di rand che si era impegnata a pagare in sede di selezione. E dire che un dirigente di alto livello parlò di fatturati potenziali compresi tra i cinque e i dieci miliardi di dollari, da sviluppare in pochi anni.

Com’è possibile che le istituzioni sudafricane ignorino questo dramma, restando indifferenti agli abusi e alle violenze di Aurora? Forse la risposta è nella composizione dei primi livelli della dirigenza di Aurora: amministratore delegato di Aurora è infatti Zondwa Gadaffi Mandela, nipote di Nelson, mentre il presidente è Khulubuse Zuma, nipote dell’attuale presidente. Né si può dire che quanto sta accadendo a Orkney e a Grootvlei sia un caso isolato; molto scalpore ha suscitato nel Paese anche la vendita del 26% della ArcelorMittal South Africa all’Ayigobi Consortium, di cui è membro anche il figlio di Zuma, Duduzane.

Per usare le parole di Steven Friedman, direttore del "Johannesburg’s Centre for The Study of Democracy", queste sono dimostrazioni di come “taluni, facendo leva sui contatti politici più che sulle competenze, riescano a mettere le mani sulle risorse del paese a danno dei lavoratori”. Segno dunque che la giovane democrazia sudafricana, nata dalle ceneri dell’abominio razzista, deve oggi lottare anche contro nemici meno ovvi di quelli di un tempo: corruzione e nepotismo prima di tutto. Senza dimenticare ovviamente gli interessi esteri: secondo Bloomberg, infatti, la filiale tedesca della nostra Unicredit è tra i creditori più esposti verso Aurora, che rischia di passare alla storia come l’azienda sudafricana che affama i sudafricani.

di Carlo Musilli

Usare la democrazia come contentino, annunciare riforme vaghe per calmare gli animi nelle piazze. Da un paio di mesi il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, cerca di salvare la sua poltrona battendo questa strada. Ma ormai potrebbe non bastare più. L'opposizione non è disposta a credergli, pretende un cambiamento concreto e radicale. Purtroppo la lezione di Tunisia ed Egitto non è penetrata a sufficienza in terra d'Algeria. Il fronte della protesta è ancora troppo frammentato e ricattabile per organizzare una vera rivolta. Tuttavia le false promesse del governo illiberale che regge il Paese non abbagliano più la società civile. E le manifestazioni continuano.

L'ultima trovata di Bouteflika è arrivata mercoledì scorso. Dopo una riunione del Consiglio dei ministri, ha annunciato una road map per le riforme. A guidare il cambiamento sarà Abdelkader Bensalah, presidente del Consiglio della Nazione (la Camera alta algerina) e probabile successore del Presidente. Lavorerà a stretto contatto con i partiti e con "personalità nazionali" in rappresentanza della società civile.

Chi siano queste "personalità" non è dato sapere. Molte leggi subiranno una "revisione profonda", ma i cambiamenti dovranno compiersi nel rispetto di non meglio precisati "valori nazionali". Gli ambiti d’intervento andranno dal modello elettorale all'informazione, attualmente controllata dal governo. Fin qui soltanto belle parole. Poca sostanza. Bouteflika ha spiegato che alcune riforme arriveranno in Parlamento entro la fine dell'anno. Per quanto riguarda le modifiche alla Costituzione, invece, bisognerà aspettare fino alle prossime elezioni, che si terranno nel maggio del 2012. Il Presidente deve aver capito che tutto questo non sarebbe stato sufficiente a calmare le acque. Così ha messo mano al portafoglio.

Lunedì scorso il governo ha stabilito di alzare la spesa pubblica addirittura del 25%, attingendo alle ampie riserve di liquidità del Paese (circa 150 miliardi di dollari). Gli interventi dovrebbero creare nuovi posti di lavoro, aumentare i salari e abbassare i prezzi alimentari. L'opposizione si aspettava mosse del genere da parte di Bouteflika e non ci sta a farsi comprare. Il Presidente aveva annunciato il programma di riforme politiche ed economiche già a metà aprile, ma le proteste erano continuate come nulla fosse. Naturale quindi che tentasse un ulteriore passo avanti, dando alle sue promesse una veste solo leggermente più credibile.

Il Coordinamento nazionale per il cambiamento e la democrazia (Cncd) ha giocato d'anticipo, mettendo per iscritto già a fine aprile le rivendicazioni condivise con le altre forze d'opposizione. Chiede che venga istituito un Consiglio nazionale di transizione, che dovrebbe rimanere in carica un anno. Il suo compito sarebbe di nominare un governo provvisorio che scriva una nuova costituzione. Dovrebbe inoltre essere creato un Consiglio indipendente "per stabilire la verità e la giustizia" sulle attività di governo. Non basta quindi cambiare le leggi: le opposizioni chiedono la metamorfosi delle istituzioni e soprattutto che l'intera oligarchia corrotta a capo del Paese sia sostituita.

Se non inizierà un vero dialogo fra Bouteflika e i suoi avversari, la situazione potrebbe precipitare verso uno scenario a cui nessuno è preparato. Le manifestazioni sono state proibite in Algeria lo scorso dicembre, ma da allora diverse comunità di studenti universitari sono scese in piazza lo stesso per protestare contro il governo.

A febbraio l'Esecutivo ha ritirato lo stato d'emergenza imposto al Paese nel 1992, ma nemmeno questo è stato utile a riportare la stabilità. Anzi, il provvedimento ha dato ulteriore motivazioni ai manifestanti. Lo scopo annunciato era di ripristinare la liberà d'espressione e di associazione, ma per ora tutte le restrizioni restano al loro posto. E questo la dice lunga sulle reali intenzioni del governo.

Le ultime promesse di Bouteflika sono soltanto l'ennesimo specchietto per le allodole. Non è quindi sorprendente che manifestazioni, violenze e illegalità continuino ad essere all'ordine del giorno in Algeria. Mercoledì scorso centinaia di medici in sciopero sono scesi in piazza davanti al palazzo presidenziale di Algeri. La polizia li ha aggrediti. Molti sono stati arrestati e non se ne è più saputo nulla. Gli agenti hanno sequestrato i telefonini e malmenato i reporter perché nessuno venisse a sapere dell'accaduto.

L'unica storia d'Algeria che in questi giorni gode di una qualche risonanza è quella di Ahmed Kerroumi, professore universitario e membro del Cncd, trovato morto la settimana scorsa. Era stato rapito il 19 aprile. Frank La Rue, relatore speciale dell’Onu sulla libertà d’espressione, ha condannato la morte dell'attivista algerino e ha chiesto al governo che sia aperta un'inchiesta indipendente sul caso. Chissà che a lui diano ascolto.

 

di Luca Mazzucato 

PROVIDENCE. Secondo Romano Prodi, i movimenti epocali che stanno sconquassando il Nord Africa potranno dare frutti solo se faremo partire un nuovo “Piano Marshall.” Chi ci guadagnerà dalla guerra in Libia, una volta che le bombe smetteranno di cadere? Turchia e Cina, che fino ad ora non hanno aperto bocca...Il Professore si è ritirato dalla vita politica: la sua esperienza è ora al servizio degli studenti e della ricerca. Nulla a che fare con il famoso “semaforo” di Corrado Guzzanti: da quando non è più Presidente del Consiglio, Romani Prodi non sta fermo un attimo. Passa il suo tempo visitando le più prestigiose università del pianeta ed è “molto contento,” ci confessa con un sorriso sornione. Lo incontriamo durante un seminario al Dipartimento di Scienze Politiche della Brown University in Rhode Island.

Il tema dell'incontro è il parallelo tra le rivolte in Medioriente e la crisi finanziaria del 2008. Secondo il politologo Mark Blyth, la parola d'ordine è “constrained volatility, ovvero “volatilità vincolata.” Nessuno ha previsto lo scoppio delle rivolte, così come nessuno aveva visto arrivare l'esplosione della bolla immobiliare. Ovvero, “tutto è stabile, finché non lo è più.” I governi occidentali hanno sempre confermato gli autocrati mediorientali in nome della “stabilità”, creando una vera e proprio “bolla politica”.

Il motivo? Non c'era alcun modo di valutare il rischio che si sarebbe presentato nel caso di cambio di regime. Il fenomeno è lo stesso che ha portato al salvataggio delle grandi banche: l'impossibilità di calcolare il rischio. E quando il sistema salta, la scossa è imprevedibile. Nessuno ha anticipato la rivolta giovanile, perché tutti gli analisti occidentali si sono concentrati soltanto sul pericolo islamico, che si è dimostrato del tutto trascurabile.

“Tutti sapevamo della grande ingiustizia e della povertà e delle tensioni sociali presenti nei Paesi del Nord Africa da almeno quarant'anni - dice Prodi - ma nessuno aveva idea di quello che sarebbe successo. Un mese prima della rivolta in Egitto ho partecipato ad un incontro con esperti mediorientali. L'unica domanda sul tavolo era: quando Mubarak se ne andrà, il successore sarà suo figlio oppure Omar Suleiman? Lo scoop del momento: uno dei suoi sarti aveva notato che Mubarak aveva perso qualche chilo e quindi forse era ammalato”…

“In un Paese turistico come l'Egitto - prosegue l’ex Premier italiano - non si può oscurare per molto tempo Internet, oppure bloccare i telefoni cellulari e così via. Per questo la rivolta ha avuto un'enorme diffusione. Si possono invece controllare la stampa e la televisione, media che però non influenzano la giovane popolazione urbana. Anni fa, mi trovavo ad una conferenza stampa ad Alessandria d'Egitto, due ore di discussione con i giornalisti egiziani in cui abbiamo parlato di tutto. Alla fine, i giornalisti mi hanno ringraziato per la meravigliosa discussione, confessandomi però che il giorno seguente avrebbero potuto scrivere solo un articolo sulla moglie di Mubarak. Ma Internet non si può oscurare, perché altrimenti come fai la prenotazione all'albergo”?

“Non saprei dire se si tratti di rivoluzione o rivolta - ha aggiunto il professore - ma quando questa cosa è successa in Egitto, politicamente tutta la zona ha iniziato a trasformarsi. L'Egitto è fondamentale per tutto il mondo arabo, le università egiziane sono il punto di riferimento culturale a cui tutta la cultura musulmana e il resto dell'Africa guardano”.

Quale scenario, dunque, a breve-medio termine? “Guardiamo al futuro: l'esercito è al potere. L'esercito non è la temuta polizia di Mubarak, ma un'istituzione rispettata e relativamente meritocratica. I Fratelli Musulmani d'altra parte rappresentano l'unica forza organizzata nel Paese e hanno costruito un'enorme rete di stato sociale per la popolazione. Ma succedono cose strane: i Fratelli Musulmani sono l'unica forza politica al mondo che parteciperà alle elezioni cercando di perdere! Sono consapevoli che la loro vittoria sarebbe vista con sospetto negli Stati Uniti. Il nuovo equilibrio è dunque tra il movimento islamico e l'esercito. Ma c'è un grossissimo problema: l'economia egiziana è al tracollo, durante i primi giorni della rivolta una buona parte dei capitali finanziari investiti in Egitto hanno levato le tende. Dal punto di vista politico si sta facendo progresso con le future elezioni, ma la situazione giornaliera della popolazione è in rapido declino.”

Per l’ex presidente della Commissione europea “un cambiamento sicuramente ci sarà presto. Nessun governo egiziano sarà abbastanza forte da continuare il blocco totale di Gaza, come aveva fatto Mubarak. Dunque il confine tra Gaza ed Egitto sarà finalmente aperto. Gli israeliani, d'altro canto, hanno un atteggiamento ambivalente sulla rivolta egiziana: vorrebbero un esercito forte che rispetti i trattati di pace con Israele, ma per alcuni se l'esercito egiziano collasserà, l'unica minaccia reale per lo Stato ebraico sparirà”.

Scenario diverso, invece, quello tunisino: “In Tunisia la situazione è diversa: il ruolo dell'esercito è marginale. Ma il problema della corruzione è impressionante, tutto il Paese era in mano alla famiglia di Ben Alì. Era uno Stato familiare. Una volta Ben Alì mi disse: “Tu non sai niente di me, ma io so tutto di te! Io ho i miei servizi segreti e tu non ce li hai”! Non vi dico le conversazioni che ho avuto con Mubarak perché erano allucinanti... Ma la Tunisia è meno importante dell'Egitto e più tranquilla, il Paese è piccolo, la società è più benestante e l'Europa è vicina e può far ripartire l'economia.”

Lo sguardo si allarga a Tripoli: “La situazione in Libia è ancora una volta completamente diversa. Un Paese di sei milioni di abitanti, con un milione d’immigrati che sono la forza lavoro del Paese. Lo stesso modello dell'Arabia Saudita. Socialmente, la Libia è spaccata in due. Ma anche geograficamente lo è: Cirenaica e Tripolitania sono divise dall'epoca romana. Non si sono mai unificate realmente. Gheddafi viene dalla Tripolitania, mentre il re che ha spodestato veniva dalla Cirenaica”. La guerra in Libia è cominciata con motivazioni nobili: proteggere i civili dai mercenari di Gheddafi. Ma nessuno sa veramente chi stiamo aiutando. Le varie tribù sono in lotta tra loro, i migliori leader ribelli sono ex alleati di Gheddafi. Tutte le nostre scommesse sono riposte su dei traditori: un bel rischio!”

Del resto, a detta del professore, “l''Unione Africana fatica a mediare, perché è già coinvolta in Costa d'Avorio, oltre ad essere vista dai ribelli come un'estensione del potere di Gheddafi, che la finanzia sostanzialmente. Il mandato dell'ONU è molto limitato e l'unico modo di far vincere i ribelli è di istruirli militarmente e armarli. La personalità di Sarkozy sarà determinante anche negli sviluppi futuri, così come lo è stata finora. Gli attacchi aerei, una volta distrutte le strutture militari di Gheddafi, non possono far più nulla. Dunque siamo in uno stallo, in cui l'Europa è spaccata e gli Stati Uniti sono riluttanti ad azioni ulteriori.”

Ci si chiede quali conseguenze avranno gli attacchi militari occidentali sulla regione nordafricana e il Professore propone una lettura delle ricadute sull’Italia in termini d’immigrazione: “Per dare un semplice esempio, trentottomila cinesi sono stati evacuati dalla Libia nei primi giorni di guerra. Centinaia di migliaia di lavoratori stranieri si sono riversati in Egitto e Tunisia e li stanno destabilizzando. In Italia non abbiamo mai avuto immigranti dalla Tunisia, ora per la prima volta ne stanno arrivando a migliaia.”

L’Italia, del resto, poteva giocare un ruolo diverso, ma non ne ha avuto la volontà e la capacità. “Non vorrei parlare dell'Italia - prosegue Prodi - ma visto che insistete... Il governo italiano all'inizio ha sottovalutato la gravità della situazione in Libia. Pensavano si trattasse di un piccolo problema, ma l'opinione pubblica europea ha appoggiato inizialmente le rivolte, e dunque il governo italiano, come quello francese, si è adeguato. All'interno del nostro governo si è dibattuta la convenienza di un intervento militare e si è deciso di farlo. Chiaramente l'Italia è il Paese che soffrirà più di ogni altro per gli eventi in Libia. La maggior parte del petrolio libico si trova in Cirenaica dai ribelli. Pensa all'attivismo di Sarkozy: Total, la compagnia petrolifera francese, è l'unica che finora non ha avuto pozzi in Libia. Per Sarkozy e Cameron è stata anche una grande occasione per uscire dall'angolo in cui si trovavano in politica interna. Dopo l'iniziale tentennamento, il governo italiano è leale all'alleanza occidentale. Ma in sordina. Se, al contrario, avesse mantenuto la posizione neutrale della Germania,  potrebbe essere cruciale come mediatore tra i ribelli e Gheddafi. Ora non è più possibile farlo”.

E ancora: “Cina e Turchia sono nella posizione più favorevole rispetto alla Libia e finora non si sono espressi. Dovevi esserci quando ho visitato due mesi fa l'Università di Pechino: mi hanno spremuto come un'arancia. I cinesi volevano sapere tutto della Libia, fin nei minimi particolari”.

Inevitabile porsi domande circa gli sbocchi futuri della situazione in nord Africa: “Per tornare alle prospettive future, le città nordafricane sono esplose grazie al fatto che la maggior parte della popolazione attiva è formata da giovani, che hanno studiato e sanno usare Internet, ma sono disoccupati. Un'intera generazione di diseredati. Oltre ad essere il motore della rivolta, questo è anche il problema principale: per cambiare la situazione in Egitto bisogna creare un milione di posti di lavoro all'anno per dieci anni. Sembra impossibile. Chiunque vincerà le elezioni si troverà di fronte a questo”.

E l’Occidente, par di capire, non sembra ancora aver trovato una linea politica comune per far fronte a questo scenario. “Se non ci sarà un nuovo Piano Marshall coordinato tra Stati Uniti, Europa e Cina, non credo che potrà succedere nulla di buono per la popolazione del Nord Africa. In Egitto il potere è ancora in mano ai militari, ma anche se passerà ai civili, rimane il problema della disoccupazione di massa. Un altro esempio: non c'è più acqua nel Nilo da quando l'Etiopia ha deciso di usarla a piene mani per l'irrigazione e anche il cibo scarseggia in Egitto, dove l'ottanta percento viene importato dall'estero. Con un Piano Marshall - conclude Prodi - si potrebbe persino usare la leva finanziaria per dettare i termini della svolta politica verso la democrazia. Ma al momento non c'è niente di simile all'orizzonte”.

di Michele Paris

Il secondo summit del Gruppo di Contatto Internazionale, impegnato nell’aggressione militare contro la Libia, si apre oggi a Roma per cercare di dare un nuovo impulso ad un’operazione che fatica a centrare gli obiettivi fissati dai paesi occidentali. Ospite di spicco dei lavori sarà il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, giunta già ieri sera nella capitale nel tentativo di potenziare la partecipazione italiana ad un conflitto che sta causando non poche spaccature tra gli alleati della NATO.

Il primo vertice tra i governi delle potenze occidentali e di alcuni paesi arabi che stanno appoggiando l’avventura libica era andato in scena lo scorso mese di aprile a Doha, nel Qatar. A presiedere questo secondo incontro, al quale parteciperanno le delegazioni di ventidue governi più quelle delle organizzazioni internazionali e dei paesi osservatori, saranno il Ministro degli Esteri italiano Frattini e il suo omologo del Qatar, Sheik Hamad bin Jassim bin Jabr al-Thani. Da parte sua, la Clinton vedrà successivamente, nel pomeriggio, il premier Berlusconi a Palazzo Chigi in un giro di colloqui che dovrebbe includere anche Napolitano e lo stesso Frattini.

Il vertice romano sulla Libia giunge in un momento molto delicato per i paesi aggressori, in evidente difficoltà e in disaccordo sulla condotta da tenere nell’iniziativa militare. Le divisioni all’interno dell’alleanza erano emerse già all’indomani della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, approvata il 17 marzo, visto che la NATO è andata subito ben al di là del mandato che le era stato conferito.

La no-fly zone imposta alla Libia per difendere i civili, infatti, è stata ben presto superata da bombardamenti che nulla hanno a che vedere con l’impegno umanitario. Un’ulteriore prova di ciò si è avuta solo pochi giorni fa, quando un’incursione aerea ha colpito il complesso residenziale Bab al-Azizyah di Gheddafi a Tripoli, causando la morte del suo ultimo figlio, Saif al-Arab, e di tre giovanissimi nipoti.

Il tentativo del tutto illegale di assassinare il leader libico, peraltro già avvenuto una prima volta nelle scorse settimane, è la conferma che l’obiettivo della NATO va ben oltre le ragioni umanitarie a cui fa appello la risoluzione ONU. La pretesa di colpire esclusivamente le installazioni militari o le forze armate coinvolte nella repressione dei civili è stata completamente smentita, solo per citare i più recenti episodi, anche da due raid occidentali sulla sede della televisione di stato libica mentre Gheddafi stava parlando in diretta e, addirittura, su una scuola per bambini disabili.

Nonostante le smentite dei governi alleati e del comando NATO, è evidente che l’obiettivo principale dei bombardamenti rimane il cambiamento di regime e la rimozione di Gheddafi, anche tramite un assassinio mirato contrario al diritto internazionale. Oltre due mila incursioni aeree occidentali non sono state d’altra parte sufficienti all’esercito ribelle di stanza a Bengasi per condurre un’offensiva militare efficace contro le forze fedeli al rais. Uno scenario questo che suscita più di un dubbio circa l’effettivo sostegno raccolto nel paese da parte di un gruppo di ribelli formato per lo più da ex membri del regime, uomini della CIA ed estremisti islamici.

Di fronte ad un panorama simile, le questioni sul tavolo durante il summit di Roma saranno le stesse che sono rimaste irrisolte dopo il precedente incontro di Doha. Secondo la retorica ufficiale, la comunità internazionale dovrà cioè prendere iniziative per risolvere la crisi libica, continuando ad assicurare la protezione dei civili. In altre parole, dietro il paravento dell’intervento umanitario, si proverà ad aggirare nuovamente la risoluzione del Consiglio di Sicurezza così da consentire un impegno più incisivo della NATO in Libia, senza escludere l’invio di truppe di terra, cui si oppongono però ancora molti paesi.

L’altra questione urgente è poi quella degli aiuti da far pervenire in qualche modo ai ribelli. Anche in questo caso si è già ampiamente trasgredito al mandato ONU, con vari paesi che stanno fornendo armi e contributi finanziari agli insorti, violando la prescrizione di non schierarsi a fianco di una delle due parti coinvolte nel conflitto in corso.

Il denaro da far pervenire a Bengasi, una volta trovato un meccanismo per superare gli ostacoli legali, dovrebbe provenire dai fondi esteri della famiglia Gheddafi già congelati da molti paesi e dalla vendita del petrolio estratto dai pozzi della Cirenaica e per il quale il Qatar si è offerto di agire da intermediario.

Le pressioni su Gheddafi proseguono poi anche sul fronte diplomatico. Proprio un paio di giorni fa, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, ha infatti chiesto ufficialmente al leader libico di farsi da parte per evitare ulteriori spargimenti di sangue. L’appello di Erdogan rappresenta una svolta significativa, dal momento che la Turchia era stata una delle voci più moderate nella NATO ed aveva cercato di promuovere una soluzione concordata della crisi.

L’inversione di rotta della Turchia è arrivata in seguito alle pressioni esercitate dagli stessi rappresentati del governo provvisorio libico che da tempo accusavano Ankara di fare il doppio gioco nei confronti di Tripoli e di frenare l’azione militare della NATO.

Un cambio di marcia nell’impegno in Libia sarà verosimilmente richiesto da Hillary Clinton anche al governo italiano. Il coinvolgimento del nostro paese ha in ogni caso già subito un’accelerazione con la recente decisione di partecipare ai raid aerei. In precedenza, inoltre, l’Italia era stata il terzo paese - assieme a Francia e Qatar - a riconoscere ufficialmente il governo provvisorio dei ribelli libici.

Come ha affermato il ministro Frattini ieri alla Camera, in riferimento ai bombardamenti italiani nella ex colonia nordafricana, “non potevamo stare a guardare”; non certo per fermare un massacro di civili la cui portata è ancora tutta da verificare, quanto per non perdere terreno nei confronti di Stati Uniti, Gran Bretagna e, soprattutto, Francia in un’eventuale spartizione delle ricchezze energetiche libiche una volta caduto il regime di Gheddafi.

Il governo Berlusconi sembra poi aver superato le divisioni interne con l’approvazione alla Camera di una mozione che dovrebbe fissare dei paletti all’impegno in Libia. La messinscena della maggioranza era scaturita dalle perplessità della Lega Nord sulla partecipazione ai bombardamenti degli aerei da guerra italiani.

I dubbi dei leghisti, peraltro, non derivavano da scrupoli morali o umanitari, bensì dal timore di nuovi possibili sbarchi sulle coste italiane. Il via libera ai raid da parte della Lega doveva essere perciò vincolato a una data precisa per la fine delle ostilità in Libia.

Nella mozione di maggioranza si chiede così al governo italiano di stabilire assieme agli alleati e alle organizzazioni internazionali un termine temporale certo delle operazioni militari contro il regime di Gheddafi. Nonostante i consueti toni trionfalistici dei leader di maggioranza sulla coesione del governo, la mozione appena approvata non ha in realtà alcuna rilevanza, tanto che la possibilità di fissare una data alla fine dei bombardamenti è stata respinta dallo stesso Frattini alla vigilia del voto alla Camera.

La NATO, inoltre, ha fatto sapere chiaramente che non esiste al momento alcuna possibilità di concordare uno stop all’aggressione militare alla Libia. La fine degli attacchi arriverà infatti solo una volta ottenuta l’eliminazione di Gheddafi e l’instaurazione di un governo fantoccio pronto ad assecondare gli interessi strategici dei paesi occidentali e dei loro alleati nel mondo arabo.

di Eugenio Roscini Vitali 

E’ il gennaio 2006 quando ha inizio la guerra civile palestinese, un conflitto che vede di fronte Fatah ed Hamas e che in quasi 18 mesi fa più di 600 vittime: mercoledì 4 maggio, a 5 anni da quei tragici fatti, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, e il leader politico di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Hamas), Khaled Meshal, s’incontreranno al Cairo per sottoscrivere l’accordo di riconciliazione mediato dall’Egitto.

L’intesa prevede la formazione di un governo tecnico di unità nazionale, l’istituzione di un organismo congiunto in materia di sicurezza e la creazione di una commissione che avrà il compito di organizzare e monitorare tutte le attività collegate alle elezioni parlamentari e presidenziali che dovrebbero tenersi entro otto mesi.

E’ chiaro però che non tutti sono favorevoli al ritrovato dinamismo politico palestinese e c’è chi guarda al  nuovo corso come ad un ostacolo al già agonizzante processo di pace mediorientale, un’occasione per ricordare che Hamas è ancora considerato un  pericoloso gruppo terroristico e come tale non può diventare uno dei futuri interlocutori di Israele.

L’annuncio fatto nei giorni scorsi dal portavoce di Fatah ha subito scatenato le prime reazioni: il ministro israeliano delle Finanze, Yuval Steinitz, ha reso noto che Tel Aviv sospenderà il versamento dei fondi alle casse dell’Anp, 50 milioni di euro al mese di tasse e dazi doganali raccolti per conto del governo palestinese. Stesso tono da parte del direttore politico del dipartimento di Stato USA, Jacob Sullivan, che alla stampa ha ricordato come l’amministrazione americana sia pronta a rivedere la sua politica di aiuti verso Ramallah: «Il nostro attuale sostegno all'Autorità palestinese rappresenta un forte contributo alla costruzione delle istituzioni palestinesi necessarie a un futuro Stato, ma se dovesse nascere un nuovo governo dovremo valutare i suoi principi politici e decidere quali saranno le conseguenze sul nostro aiuto, definito dalla legge americana».

Washington è pronta a sostenere la riconciliazione palestinese a patto che gli accordi del Cairo incoraggino comunque la pace e che il nuovo governo di unità nazionale s’impegni a rispettare le condizioni imposte dal Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu): fine delle violenze, riconoscimento dei trattati firmati in passato da Israele e dai rappresentanti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e riconoscimento del diritto allo Stato ebraico di esistere.

Pur non dichiarandosi disposto a dare al governo unitario palestinese il mandato per portare avanti i negoziati con Israele, Hamas sembra comunque pronto a collaborare. Il Movimento di resistenza islamico ha infatti garantito di non imporre a Fatah l’abbandono del processo di pace e, per favorire l’accordo di riconciliazione, il primo ministro in carica nella Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh, ha confermato la propria disponibilità a rassegnare le dimissioni: «Questo accordo è molto importante e dobbiamo moltiplicare gli sforzi per porre fine alle divisioni ed incoraggiare l’unità del popolo palestinese».

Chi più di ogni altro è rimasto spiazzato da questo nuovo corso della storia politica palestinese è senza dubbio il governo israeliano, che ora si trova a dover ridefinire la propria posizione e lo deve fare prima del 24 maggio, prima cioè che primo ministro, Benyamin Netanyahu, si rechi a Washington per parlare di fronte alle Camere riunite. Tra i banchi della Knesset il fronte degli intransigenti é sempre ampio e molti membri dell’Esecutivo hanno già fatto appello affinché i principali paesi della comunità internazionale boicottino l’accordo di riconciliazione tra Fatah ed Hamas.

Ma non tutta l’opinione pubblica israeliana è concorde; in un editoriale pubblicato dal quotidiano Haaretz, lo scrittore Gideon Levy denuncia una posizione di diritto che non da nessuna risposta al problema israelo-palestinese e chiede che al Movimento di resistenza islamico sia data una chance: “Non c’è ancora una riconciliazione, ma in Israele il pianto degli oppositori si è già fatto sentire; il contenuto è sempre lo stesso, parola per parola, come negli anni  ’70 e ’80, un’organizzazione terroristica con la quale non si potrà mai negoziare”.

Appoggiato dal suo Gabinetto, Netanyahu ha liquidato l’argomento, affermando che con i terroristi non si tratta: «Fatah scelga, la pace con Israele o la pace con Hamas»; ancora più drastico è il giudizio del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che alla stampa ha parlato di “linea rossa varcata” e di inevitabili conseguenze. Il leader del partito ultranazionalista Israel Beitenu è certo che pur guidato da Abu Mazen, un governo di unità nazionale porterà alla liberazione dei rispettivi prigionieri, terroristi attivi che invaderanno la Cisgiordania e che metteranno in pericola la sicurezza dello Stato ebraico.

Lieberman è convinto che le due organizzazioni sentono la pressione delle rivolte mediorientali e che l’accordo non è altro se non una via d’uscita per recupera il terreno politico perso in Siria, dove Hamas rischia di veder sfumare l’appoggio del presidente Bashar al Assad, sempre più vicino ad una resa dei conti ormai inevitabile, e in Egitto, dove Fatah paga gli effetti della “rivoluzione del 25 gennaio” che ha portato alla caduta di Hosni Mubarak e ha rilanciato i Fratelli Musulmani, la potente organizzazione pan-islamica ideologicamente molto più vicini a Gaza che a Ramallah.

 


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