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di Vincenzo Maddaloni
TEHERAN. L’ultima esternazione è di qualche giorno fa, quando ha affermato che l'eliminazione di Osama bin Laden é stata tutta una montatura per aiutare Barack Obama a riconquistare la Casa Bianca nel 2012. Con l’occasione il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha pure affermato che gli americani avevano già nelle loro mani «da un po' di tempo» il fondatore di al Qaeda e che hanno deciso di ucciderlo «per motivi di politica interna».
La notizia sull’intervento del Presidente iraniano potrebbe concludersi con queste battute se non fosse che - udite,udite - l’uomo che l’Occidente vede come un minaccioso oscurantista, da qualche tempo a questa parte appare agli iraniani come un liberal, un laico sovversivo. http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704693104575638210916460270.html .
All’origine, si sussurra, c’è la lotta tra gli ayatollah per la successione a Khamenei che scuote il Paese. Ma se restiamo ai fatti, vanno ricordati i ripetuti attacchi con i quali il partito conservatore mira ad erodere progressivamente il potere del Presidente. Ad Ahmadinejad si rimprovera l’impegno più volte dichiarato di voler celebrare gli antichi fasti di in un Paese dove la popolazione tuttora parla di “invasione araba” per eventi che risalgono a oltre un millennio fa e continua a utilizzare con orgoglio la lingua persiana, sopravvissuta all’imperialismo arabo che convertì l’antica Persia all’Islam.
Infatti, Ahmadinejad e il suo consigliere più fidato, Esfandiar Mashaei, hanno rivalutato, con tutta una serie di celebrazioni, il concetto di “Islam Iraniano”, facendo del nazionalismo una colonna portante della politica governativa e rievocando in più occasioni la grandezza pre-islamica dell’Iran. Naturalmente, le mosse del presidente hanno irritato il clero più conservatore, poiché malgrado in ogni paese l’elogio delle memorie antiche sia ben accetto, nella Repubblica Islamica invece, esso è considerato un’eresia.
Il conflitto tra gli ayatollah e Ahmadinejad è diventato pubblico dopo che a metà aprile il presidente ha costretto alle dimissioni il ministro del Servizi segreti, Heydar Moslehi, molto legato alla guida suprema, l’ayatollah Khamenei. Pochi giorni dopo, però, egli è stato di nuovo reintegrato nella carica e nel medesimo tempo l’ufficio di Khamenei ha diffuso un comunicato nel quale si dichiarava che il comportamento di Ahmadineijad equivaleva a un «rinnegamento della fede» http://www.nationalreview.com/articles/254072/islamist-turkey-vs-secular-iran-daniel-pipes .
Un’accusa pesante, poiché nella Repubblica islamica dell’Iran spetta ai preti l’ultima parola su ogni singolo atto del governo della nazione. Essi conserveranno questo potere che li pone al di sopra di tutto e di tutti fino a quando non ricomparirà sulla terra il “Dodicesimo Imam”, il Mahdî, come promette il credo sciita. Quindi il solo tentativo di governare lo Stato come un ente a sé stante, senza interpellare le tonache che rappresentano la volontà divina diventa, in Iran, blasfemia.
E dunque Ahmadinejad avrebbe peccato non soltanto per l’eccessiva indulgenza con la quale è stata “concessa” alle donne la possibilità di presenziare alle manifestazioni sportive, ma perché egli ha rivendicato la centralità della sua figura di Presidente laico nel sistema teocratico vigente a Teheran, dichiarando non indispensabile l’approvazione del Parlamento per ogni suo atto. Così facendo egli ha innescato una sorta di conflitto istituzionale subito stoppato dall’intervento di Ali Khamenei che ha nominato una commissione arbitrale per la risoluzione della controversia. Il che significa, in questa parte di mondo, che bisogna prepararsi al peggio.
Tuttavia, Ahmadinejad non sembra preoccuparsene, perché ha licenziato altri tre ministri (del Petrolio, del Benessere sociale e dell’Industria) senza chiedere al Parlamento l’autorizzazione. L’obiettivo è evidente: ridurli da 21 a 17 perché con meno ministri e dovendo egli da ora rappresentare anche i tre ministeri, vede accrescere il suo potere. http://news.yahoo.com/s/afp/20110516/bs_afp/iranoilopec_20110516072527. E’ accaduto benché il presidente del Parlamento, Ali Larijani, gli avesse intimato di non trasgredire la Costituzione, «perché la nomina e l’assetto del governo sono una prerogativa parlamentare». Sicché la Guida suprema si ritrova con un’altra grana sulla scrivania, e sarà costretta a prendere una decisione che in ogni caso allargherà la frattura all’interno delle istituzioni. http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-11824142. Ecco perché sostenere che ci si “prepara al peggio” non è affatto un’esagerazione.
Evidentemente, Ahmadinejad non agisce a caso. Il suo stile populista fa ancora presa sui poveri e i ceti bassi, soprattutto è condiviso sul piano culturale. Ha ancora la sua Peugeot vecchia di 30 anni, e continua a ripetere che « i soldi delle mafie del petrolio devono finire sul sofreh degli iraniani poveri», con un riferimento al tappeto su cui le famiglie più umili si siedono per mangiare. L’umile figlio della rivoluzione, il semisconosciuto sindaco di Teheran, è diventato - ricordate - il presidente più temuto della Terra nel modo più brutale con quella dichiarazione:«Israele va cancellata dalle carte geografiche», con la quale si era guadagnato le prime pagine dei giornali a livello internazionale.
Apriti cielo, da allora non ci siamo persi una battuta. Anche quando, qualche tempo dopo, alla Conferenza islamica alla Mecca, in un clima di estrema religiosità, se ne uscì con una dichiarazione bomba quando affermò che l’Israele deve essere trasferita in una località dell’ Europa o del Canada o dell’ Alaska. Poi ancora, nella città di Zahedan, quando aveva definito l’olocausto «un mito» raccogliendo l’ovazione delle «genti più povere». E infine - pochi giorni fa - quando commentando l’uccisione di bin Laden ha detto di essere in possesso di «precise informazioni» a comprova della sua versione dei fatti, aggiungendo che l'ex presidente americano George W. Bush «ha invaso la nostra regione per salvare l'economia degli Usa e guadagnare i voti degli americani, e il suo successore è arrivato al potere seguendo la stessa linea».
Per meglio capire, si tenga a mente che sul versante religioso, il primo mentore di Ahmadinejad è l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi. E’ uno che conta, uno tosto, un accanito sostenitore del confronto non soltanto ideologico. http://en.wikipedia.org/wiki/Mohammad-Taqi_Mesbah-Yazdi. Egli è il titolare della più agguerrita scuola islamica del centro religioso della città santa di Qom, a cento chilometri da Teheran, ma soprattutto è il leader di un’associazione islamica che in questi anni in Iran si è mossa come una consorteria potentissima. Il teologo pubblicamente guida l’Istituto Imam Khomeini, la più ricca università islamica di Qom, e discretamente benedice l’associazione Hogiatieyeh, una sorta di Opus Dei islamica, fondata all’inizio del 1900 e che lavora nell’ombra, adocchiando e allevando gli studenti migliori nelle madrasse di Qom, seguendoli nell’ingresso nel mondo del lavoro, collocandoli - soprattutto dopo la rivoluzione - nei posti chiave, ma anche in quelli di medio livello di tutte le organizzazioni che contano.
Con l’ayatollah Mesbah Yazdi il presidente Ahmadinejad tiene da sempre, come usa dire, un rapporto da discepolo a maestro, e quindi di stretta consulenza, che ricade su ogni sua azione politica connotandola di sapori ecclesiali. Yazdi l’ha plasmato come si conviene. Infatti, per mantenere alto il consenso interno Ahmadinejad sempre più nei suoi discorsi cita Abul-Kasim Muhammad che per gli sciiti duodecimani è il dodicesimo Imam, il Mahdî (“ben guidato [da Dio]”), l’ “Imam nascosto” colui che ha il compito di ristabilire la giustizia prima del Giudizio Universale e di guidare la comunità persiana fino alla fine del mondo.
Sicuramente l’ayatollah Yazdi continua a vegliare sul suo pupillo sul quale ha investito molto del suo prestigio e perciò si adopera - è opinione diffusa - per ricucirgli lo strappo con Khamenei, anzi come si sostiene qui il “gesto d'insubordinazione” nei confronti della Guida Suprema, che è dovuta più volte intervenire per riaffermare il primato delle “teste fasciate”. Tuttavia l’ayatollah Yazdi, che ha tanto di sito web personale, e i suoi testi teologici sono offerti su Amazon, sa che l’Ahmadinejad furibondo, il quale per una decina di giorni ha disertato gli impegni istituzionali, riassume il crescente malessere delle masse.
Accade in un Paese nel quale la Banca centrale ha appena annunciato che l’inflazione sui generi alimentari è del 25 per cento e la disoccupazione reale intorno al 30 per cento (anche se un importante membro del Parlamento ha dichiarato che si tratta di cifre ritoccate, e che i dati reali sono più preoccupanti). La novità comunque è che anche loro, le classi più povere, le più numerose si sono stancate di questo governo di preti che continua a promettere e non riesce a concretizzare.
Ne è la conferma più evidente Ahmadinejad che prende le distanze da un establishment clericale con il prestigio compromesso e in erosione, e lo sfida in vista delle elezioni del prossimo anno per il rinnovo del Parlamento dove appunto forte è la presenza dei preti. Egli conta, così facendo, di aumentare la propria popolarità. In quest’ottica la decisione di sfoltire i ministri sarebbe soltanto il primo atto di un confronto che dovrebbe concludersi con un ridimensionamento del potere politico degli ayatollah.
Non si annuncia facile poiché da una parte c’è il clero che si arroga il diritto di governare perché - sostiene - esso si radica sulla sovranità di Dio, sulla centralità dell’Onnipotente e sul consenso di coloro che vengono governati. Dall’altra parte c’è soltanto la constatazione che nella culla del modello teocratico dell’Islam sciita, l’ultimo elemento, il consenso, si sta sbriciolando. Un dato comunque non da poco per chi vuol perseverare nel confronto. Che in questa parte di mondo è ideologico, religioso, culturale, sociale, politico. Non sul Bunga bunga, per intenderci.
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di Michele Paris
Le attività dell’ENI costituiscono da tempo un motivo di apprensione per gli Stati Uniti. L’indipendenza del gigante energetico italiano sembra suscitare profonde preoccupazioni per Washington soprattutto a causa delle relazioni stabilite con la compagnia (semi) pubblica russa Gazprom e del coinvolgimento in progetti estrattivi in Iran. A rivelare le manovre messe in atto da Washington per convincere l’ENI e il suo amministratore delegato, Paolo Scaroni, a conformarsi ad una politica più consona agli obiettivi strategici americani ed europei, sono alcuni cablo recentemente divulgati da Wikileaks, che lasciano intravedere anche i veri motivi che stanno dietro all’aggressione in corso contro il regime di Gheddafi in Libia.
Si deve premettere che gli oltre 250 mila cablo della diplomazia americana su cui ha messo le mani Wikileaks continuano a vedere la luce su svariati giornali di tutto il mondo. Negli USA, la testata McClatchy ha raggiunto un accordo con il sito fondato da Julian Assange per la pubblicazione di quasi 24 mila documenti. Tra questi ve ne sono molti che descrivono con perizia come a guidare la politica estera americana sia principalmente la necessità di controllare le fonti energetiche del pianeta.
Proprio McClatchy ha pubblicato qualche giorno fa due cablogrammi che riguardano l’ENI, redatti dall’ambasciatore americano a Roma tra il 2005 e il 2009, Ronald P. Spogli. Il primo documento è datato 12 gennaio 2007 e indirizzato al Dipartimento di Stato sotto la classificazione di “segreto”. In esso si racconta di un incontro del precedente 9 gennaio tra Spogli e Scaroni, nel quale quest’ultimo riferisce di un’offerta fatta all’ENI da parte del Ministero dell’Energia iraniano a margine di una conferenza OPEC. I funzionari del governo di Teheran in quell’occasione proposero alla multinazionale italiana la possibilità di investire nei giacimenti petroliferi di Azadegan e South Pars.
Nel diligente resoconto fatto agli americani, Scaroni afferma di aver risposto agli iraniani che l’ENI era interessato all’investimento, ma ad alcune condizioni. I ricavi dell’ENI dovevano essere cioè basati sul prezzo internazionale di petrolio e gas naturale piuttosto che su importi predefiniti in relazione al prodotto estratto, mentre i nuovi investimenti sarebbero dovuti rientrare nell’ambito dei contratti già in essere con l’Iran. In questo modo sarebbe stata soddisfatta la terza condizione posta dal manager italiano, quella di non incorrere nelle sanzioni applicate contro la Repubblica Islamica a causa del suo presunto programma nucleare.
Della proposta iraniana Scaroni aveva discusso con l’allora premier Prodi e con il Ministro degli Esteri D’Alema, e all’ambasciatore USA aveva confermato il desiderio dell’ENI di avere un rapporto trasparente con Washington riguardo i propri rapporti d’affari con l’Iran. Per alleviare i timori statunitensi, Scaroni aveva sottolineato come l’Iran fosse l’unica valida alternativa alla Russia per l’approvvigionamento di gas naturale destinato al mercato Europeo.
Le rassicurazioni di Scaroni non fecero tuttavia nulla per dissipare le perplessità americane. Spogli, infatti, fece intendere chiaramente come il suo governo fosse contrario a qualsiasi investimento che andava a favorire il regime di Teheran. L’ambasciatore americano a Roma sollecitava poi l’Amministrazione Bush a premere allo stesso modo su Scaroni nel corso del suo imminente viaggio a Washington (4 e 5 febbraio 2007) per il forum dell’Aspen Institute su energia e sicurezza.
Per Spogli gli incontri di Scaroni con i funzionari USA sarebbero stati un’eccellente opportunità per far comprendere all’ENI le conseguenze di eventuali nuovi investimenti nel settore energetico dell’Iran, dove la compagnia ha peraltro già investito 2,5 miliardi di dollari a partire dagli anni Cinquanta.
Anche nel secondo cablo pubblicato da McClatchy si riscontrano identiche preoccupazioni per gli affari dell’ENI in Iran (“vorremmo che l’ENI abbandonasse l’Iran”, sostiene senza mezzi termini l’ambasciatore americano), ma a prevalere sono in questo caso le inquietudini per gli stretti legami con Gazprom. La data è quella del 24 aprile 2008 e la classificazione è “confidenziale”. Un’altra visita di Scaroni a Washington, in programma tra il 5 e il 6 maggio dello stesso anno, secondo l’ambasciatore Spogli avrebbe fornito l’opportunità di ricordare “in maniera molto chiara” al numero uno dell’ENI la posizione americana circa le attività della sua compagnia.
Lo scrupolo immediato per gli Stati Uniti è rappresentato dal fatto che ENI è un partner al 50 per cento di Gazprom nel progetto South Stream, il gasdotto che dovrebbe collegare la Russia con l’Europa passando per il Mar Nero. Anche se un dirigente della compagnia italiana aveva confidato all’ambasciata USA che vi erano difficoltà nell’avanzamento del South Stream a causa di contrasti con Serbia e Romania. Per Washington questo progetto continuava a rappresentare una minaccia alla costruzione del gasdotto Nabucco, sponsorizzato dagli stessi americani e dall’Unione Europea per trasportare il gas estratto dai giacimenti nel bacino del Mar Caspio e ridurre così la dipendenza dalle forniture russe.
La diversificazione degli approvvigionamenti europei viene continuamente citata nel cablo diffuso da Wikileaks e ritorna in un passaggio chiave per comprendere forse anche le origini dell’aggressione militare in corso in Libia. L’ambasciatore Spogli fa riferimento a un recente “accordo con Gazprom secondo il quale ENI faciliterebbe l’accesso dei russi ai giacimenti di gas naturale in Nord Africa” - più precisamente in Libia - in cambio della concessione alla stessa ENI di operare in quelli situati in Russia.
Per convincere Scaroni a rinunciare all’alleanza con Gazprom - che nell’ottica americana minaccia il controllo delle ingenti risorse energetiche nordafricane da parte di Washington - si propongono allora pressioni sul premier in pectore Silvio Berlusconi, fresco vincitore dalle elezioni politiche (13 e 14 aprile 2008) e autore della nomina dello stesso manager al vertice dell’ENI nel 2005. Se i rapporti di Berlusconi con Putin sono visti come una complicazione, gli americani intravedono però maggiori possibilità di intesa con altre personalità che stavano per far parte del nascente governo, a partire da Giulio Tremonti.
Al futuro Ministro dell’Economia viene attribuito un commento negativo sulle attività dell’ENI (“è andato troppo in là”) che indicava un possibile malcontento all’interno del nascente gabinetto Berlusconi circa la condotta di Scaroni. Con la consueta fermezza, l’ambasciata americana a Roma - dopo aver citato le accuse di corruzione sollevate in tempi più o meno recenti nei confronti di Scaroni - raccomanda ancora una volta di manifestare all’ENI tutto il dissenso del governo di Washington e di “sollecitare … un riallineamento dei progetti e della politica aziendale agli sforzi dell’UE nel diversificare le fonti dei rifornimenti energetici”.
Mentre dalle precedenti visite negli Stati Uniti Scaroni era tornato con l’impressione che gli affari dell’ENI non rappresentavano motivo di grave preoccupazione per Washington (sostiene il diplomatico americano) nell’imminente incontro dei primi di maggio del 2008 sarebbe stato utile, al contrario, trasmettergli una maggiore consapevolezza della profonda disapprovazione degli USA per la vicinanza a Gazprom e le operazioni condotte in Iran.
Se le iniziative diplomatiche statunitensi non riuscirono nell’obiettivo di escludere la compagnia russa dalla Libia e dal Nord Africa, maggiore successo hanno avuto le operazioni militari attualmente in corso, non a caso duramente criticate da Mosca. Puntualmente, un mese dopo l’inizio dei bombardamenti NATO contro il regime di Gheddafi, i vertici di ENI e Gazprom hanno annunciato, infatti, il congelamento “temporaneo” dell’accordo che avrebbe consentito alla compagnia russa di assicurarsi una buona fetta del petrolio e del gas libico.
Un epilogo inevitabile con l’arrivo delle bombe occidentali sulla Libia e che, come mostrano i documenti resi pubblici da Wikileaks, gli Stati Uniti auspicavano, e per il quale si erano adoperati, a partire almeno dal 2008.
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di Carlo Musilli
Lo chiamano Saif Al-Adeli, "Spada della Giustizia", ma il suo vero nome è Muhammad Ibrahim Makkawi. Secondo la Cnn, che ha ripreso alcune indiscrezioni apparse sulla stampa pakistana, sarebbe il successore di Bin Laden. Makkawi è un cinquantenne egiziano, ex ufficiale delle Forze speciali poi diventato comandante del ramo di Al Qaeda attivo nel suo Paese. Ci dobbiamo credere? Sembra tanto un'investitura di comodo, arrivata perché proprio non se ne poteva fare a meno.
Pare che negli ultimi giorni la comunità jihadista abbia espresso su internet un certo nervosismo. Dopo la morte dello sceicco, la latitanza del successore non giovava alla loro causa. D'altra parte, Al-Adeli non è stato eletto secondo copione. E' un tantino pericoloso riunire il Consiglio della Shura proprio adesso, quindi alla nomina ci hanno pensato una manciata di leader sparsi tra Afghanistan e Pakistan. Qualcuno dice che tra i fondamentalisti siano nate tensioni perché la scelta è ricaduta su un egiziano: avrebbero preferito un islamico puro, originario della penisola arabica.
Nemmeno questa posizione è tanto credibile. Se non altro perché è egiziano anche Al Zawahiri, ex braccio destro di Osama, da molti considerato suo naturale successore. Era la sua investitura che il mondo aspettava. Secondo Noman Benotman, ex militante di un gruppo libico affiliato al network terroristico e oggi analista a Londra, "il ruolo assunto da Al-Adeli non è di leadership complessiva, ma solo di natura operativa e militare".
Anzi, sempre secondo Benotman, la sua nomina "ad interim" aprirebbe addirittura la strada "all'ascesa di Al Zawahiri", che avrà più tempo per convincere la base dell'organizzazione della propria fedeltà. Pur essendo lui il più vecchio fra i pretendenti al trono (ha 59 anni), i vertici di Al Qaeda in Iraq e nello Yemen hanno già dato l'ok alla sua elezione.
Fin qui tutto chiaro, ma il punto è un altro. Ammettiamo che Bin Laden, prima di beccarsi una pallottola in faccia, avesse avuto ancora un ruolo concreto nel coordinamento dell'intera organizzazione. Ammettiamo che fosse stato ancora un vero capo e non più che altro un simbolo. Che speranze avrebbe avuto un suo eventuale successore di svolgere la stessa funzione? Poche.
Ormai da anni Al Qaeda continua a spezzettarsi come una tavoletta di cioccolata. La nuova frammentazione non è la ragione principale per cui l'organizzazione appare meno pericolosa di un tempo, ma certo rende meno credibile l'immagine del grande burattinaio che regge i fili dal suo misterioso bunker pakistano.
Nella rete dei terroristi, le lotte tra fazioni sono all'ordine del giorno. Le primavere del mondo arabo non hanno sicuramente giovato ai rapporti fra il ramo egiziano e quello libico di Al Qaeda, che già da qualche tempo erano piuttosto conflittuali. Per non parlare delle dispute generazionali all'interno dei singoli schieramenti. O delle visioni contrastanti sulle tattiche e le strategie da seguire.
La maggior parte delle azioni ormai viene progettata e realizzata in completa autonomia dalle diverse cellule. Qua e là nascono ancora gruppi di jihadisti che si autodefiniscono "membri di Al Qaeda", ma che in realtà difficilmente hanno contatti con i vertici dell'organizzazione. In uno scenario del genere, la figura di Bin Laden svolgeva quantomeno una funzione di collante ideologico. Il suo carisma era tale da suscitare una sorta di ammirazione spirituale nei seguaci della guerra santa. Per molti non era più un comandante da seguire direttamente sul campo di battaglia, ma poteva ancora rappresentare un punto di riferimento simbolico per adepti vecchi e nuovi.
Bin Laden poteva. Al Zawahiri, semplicemente, non può. Quel carisma a lui manca. Forse anche per questo l'organizzazione ha scelto di mettere in prima linea, almeno per il momento, uno come Al-Adel. Di natura più pragmatica, la nuova guida potrebbe ispirare un ritorno alle azioni in grande stile.
Il curriculum non gli manca. E' stato lui a ideare gli attacchi del 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania che provocarono 86 morti e oltre mille feriti. Fuggito in Iran dopo l'invasione americana dell'Afghanistan, fu messo agli arresti domiciliari. Secondo la stampa araba é stato rilasciato un anno fa e da allora si muove nell'area di confine tra il nord del Pakistan e l'Afghanistan. Sulla sua testa l'Fbi ha messo una taglia da 5 milioni di dollari
Resta da capire quali siano le attuali capacità operative dei terroristi. In Afghanistan non possono più contare sull'appoggio diretto dei talebani, che già da qualche tempo si sono defilati per tentare di riconquistare il potere battendo altre strade. Il Pakistan invece deve recuperare in termini d’immagine dopo l'operazione di Abbottabad, che ha rivelato la sfiducia di Washington nell'intelligence di Islamabad, troppo compromessa con il terrorismo. Ora più che mai ad Al Qaeda servirebbe qualcosa di più che un leader di facciata. La tenaglia tra le esigenze di Washington e quelle di Islamabad é letale.
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di Michele Paris
Un anno fa di questi tempi, gli Stati Uniti erano alle prese con la colossale fuoriuscita di petrolio causata dall’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon, gestita dalla BP nel Golfo del Messico. A seguito del più grave incidente di questo genere mai avvenuto sul suolo americano, nel paese si era diffusa un’ondata di proteste nei confronti delle compagnie petrolifere, accusate di mettere i loro profitti davanti alle norme di sicurezza e al rispetto dell’ambiente. La stessa Casa Bianca aveva messo in atto una moratoria sulle trivellazioni dei pozzi ritenuti più pericolosi e, allo stesso tempo, aveva vincolato il rilascio di nuovi permessi all’implementazione di una serie di regole più severe sulla sicurezza.
Alle nuove norme si era accompagnato un tacito accordo sulla rinuncia ad aprire alle esplorazioni petrolifere nuove aree costiere degli Stati Uniti, revocando così la promessa che il presidente Obama aveva fatto alle compagnie private solo poche settimane prima dell’incidente.
Ora, a oltre un anno di distanza, durante il suo intervento radiofonico settimanale, qualche giorno fa lo stesso Obama ha invece annunciato imminenti iniziative volte a promuovere i già sostanziosi profitti dell’industria petrolifera e a fare potenzialmente scempio di ampie aree al largo delle coste americane. La decisione dell’amministrazione democratica, oltre ad assicurare incentivi fiscali alle compagnie, consentirà nuove esplorazioni non solo nel Golfo del Messico ma anche nell’Oceano Atlantico e, soprattutto, in Alaska, dove sono in molti a sollevare timori per la fragilità dell’ecosistema.
A giustificazione dell’ennesima marcia indietro della sua amministrazione, Barack Obama ha citato la necessità di fare qualcosa per fronteggiare l’impennata dei prezzi dei carburanti e di ridurre le importazioni di petrolio aumentando la produzione domestica. Malgrado i proclami, le nuove concessioni richiederanno svariati anni per contribuire in maniera significativa al fabbisogno energetico statunitense, mentre il sollievo per le tasche degli automobilisti sarà praticamente nullo.
Tra gli altri provvedimenti in arrivo c’è poi l’estensione automatica di un anno delle concessioni già assegnate alle compagnie petrolifere nel Mare Glaciale Artico e nel Golfo del Messico, così da compensare la moratoria imposta dopo il disastro dello scorso anno. Obama ha inoltre promesso l’accelerazione degli studi sull’impatto ambientale di eventuali nuovi pozzi nell’Oceano Atlantico, dove l’attuale legislazione proibisce trivellazioni almeno fino al 2018.
Ancora più significative sono infine la riduzione delle “royalties” da corrispondere al governo per le compagnie che inizieranno l’estrazione di petrolio entro tre anni dall’ottenimento delle concessioni e gli incentivi per quelle che avvieranno le trivellazioni dei pozzi già concessi in passato ma tuttora in attesa di essere sfruttati.
A suscitare particolare apprensione sono in particolare le operazioni che potrebbero essere presto avviate presso la costa settentrionale dell’Alaska. Qui si trova infatti la cosiddetta Riserva Petrolifera Nazionale dell’Alaska, un’area di quasi cento mila chilometri quadrati dove nidificano milioni di uccelli migratori e vivono numerose altre specie animali. In questa riserva, dove cacciano e pescano le popolazioni indigene, attualmente non ha luogo alcuna attività estrattiva.
Secondo i piani dell’amministrazione Obama, già nel 2011 verrà rilasciata una concessione per le trivellazioni in quest’area, a cui se ne aggiungeranno altre due il prossimo anno. L’apertura alle estrazioni in questa regione dell’Alaska è stata fortemente voluta sia dalle compagnie petrolifere, sia dai due senatori dello stato, la repubblicana Lisa Murkowski e il democratico Mark Begich.
Assieme a queste misure, Obama ne ha annunciate altre che dovrebbero teoricamente contenere gli aumenti dei prezzi dei carburanti e penalizzare le stesse compagnie petrolifere. Ben poco di concreto potrà però fare la task force istituita presso il Dipartimento di Giustizia che dovrebbe indagare su possibili manipolazioni del mercato e sull’eccessiva speculazione. Ugualmente inefficace sarà anche lo sforzo promesso di tagliare benefici fiscali pari a quattro miliardi di dollari riservati annualmente alle stesse multinazionali private.
L’impegno del presidente fa il paio con un progetto di legge presentato dai democratici al Senato nel tentativo di presentarsi come strenui oppositori dei giganti del petrolio. Il partito di maggioranza al Senato ha infatti presentato una proposta per sopprimere gli incentivi fiscali riservati a questi ultimi e che ammontano a 21 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. Il progetto di legge non ha alcuna possibilità di essere approvato, dal momento che incontra l’opposizione compatta dei repubblicani, in maggioranza alla Camera dei Rappresentanti e numericamente in grado di ostacolare ogni iniziativa dei democratici anche al Senato.
Con l’aumentare del malcontento tra la popolazione americana, i tagli alle tasse per compagnie petrolifere che stanno incassando miliardi di dollari in profitti sono da qualche tempo al centro del dibattito politico. La settimana scorsa, ad esempio, i vertici delle principali aziende del settore energetico sono stati convocati dalla Commissione Finanze del Senato, di fronte alla quale hanno assistito alle sfuriate di alcuni democratici. Nonostante siano stati messi per qualche ora alla berlina, i manager hanno comunque lasciato il Campidoglio con la certezza che da Washington che non verrà adottata alcuna iniziativa ostile nei loro confronti.
Il vento, anzi, sembra soffiare ancor più a loro favore, come dimostra il passaggio alla Camera di tre progetti di legge nelle ultime due settimane che vanno ben al di là dei provvedimenti annunciati da Obama sull’apertura alle esplorazioni on e off-shore negli Stati Uniti. Proprio l’accelerazione voluta dai repubblicani sulle trivellazioni, nonostante le smentite della Casa Bianca, sembra aver convinto il presidente democratico a promettere maggiori spazi di manovra alle compagnie del petrolio.
Una mossa, da parte di Obama, che s’inserisce in una strategia avviata almeno a partire dalla batosta elettorale nelle elezioni di medio termine dello scorso novembre e che, a fronte di un sentimento di ostilità per i poteri forti ampiamente diffuso tra la popolazione, riflette lo sforzo di conquistare il consenso dei grandi interessi economici e finanziari del paese per assicurarsi le risorse necessarie a condurre una imminente e costosissima campagna per la rielezione.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Come se l’Unione europea non avesse abbastanza problemi, dieci anni dopo l’entrata in vigore degli accordi di Schengen la Danimarca reintroduce controlli permanenti alle frontiere con Germania e Svezia, mettendo ulteriormente in discussione un’Europa che, nonostante i buoni propositi di tutti, di acqua ne fa già tanta. Il dado, a quanto pare, è tratto: perché Bruxelles, spaventata dal rischio di un’influenza negativa sugli altri Paesi membri, valuta la possibilità di citare il Governo danese in giudizio di fronte alla Corte Costituzionale Europea con l’accusa di violazione del trattato di Schengen.
A reclamare la misura di protezione di frontiera a Copenaghen è stato il Partito Popolare Danese (DF), la forza conservatrice- populista che ha venduto da tempo la propria fedeltà al primo ministro liberale Lars Lokke Rasmussen (V) in cambio di una politica anti-immigrazione più decisa. Ora siamo alla resa dei conti: Rassmussen ha bisogno dell’appoggio dei Popolari per l'approvazione del piano economico del 2020 e, per ottenerlo, non ha esitato a sacrificare la propria credibilità di fronte all’Eurozona e al mondo.
La decisione di Copenaghen ha suscitato il disappunto della maggior parte dei politici europei, tra cui anche quello dei governi notoriamente più conservatori, ma non solo. A quanto pare, la reintroduzione delle frontiere controllate potrebbe implicare gravi conseguenze anche a livello giuridico. L’attuale presidente della commissione europea José Manuel Barroso ha minacciato di portare il Governo danese di fronte alle Corte Costituzionale Europea con l’accusa di violazione di contratto: Barroso fa riferimento a una possibile infrazione della convenzione di Schengen, cui la Danimarca ha aderito nel 2001.
Perché, in effetti, l’abbattimento dei controlli doganali e di documenti alle frontiere è parte integrante del trattato di Schengen, firmato nell’ormai lontano 1985 e valido oggi per ben 28 Paesi tra membri della zona euro e Stati terzi, e metterlo in discussione non è diritto di nessuno Stato firmatario. La reintroduzione dei controlli di frontiera, di qualsiasi tipo e a qualsiasi livello, è incompatibile con le basi teoriche e legali dell’affidabilità dell’Eurogruppo.
Senza dimenticare che il provvedimento anti-immigrazione potrebbe comportare anche conseguenze economiche: la Danimarca rischia di mettere in discussione anche la libera circolazione dei beni e Barroso farà esaminare alla Corte anche questo successivo punto. L’unica sicurezza, per il momento, è la ferita che Copenaghen ha inferto all’Unione europea e alla sua ragione d’essere.
Eppure, nonostante le minacce di Barroso, il Governo danese continua a considerare la riorganizzazione dei propri confini assolutamente legittima. Copenaghen ha giustificato la mossa sulla base di un presunto aumento della criminalità gestita dagli immigrati provenienti dall’Europa dell’Est. I controlli saranno semplicemente mirati a individuare criminali e profughi irregolari, hanno spiegato i Popolari, precisando inoltre anche che la Danimarca non ha intenzione di lasciare lo spazio Schengen.
Ai confini tra Danimarca, Germania e Svezia saranno posti dei sistemi di controllo elettronico e apparecchi per l’identificazione delle targhe automobilistiche, hanno spiegato a Copenaghen. A questo proposito il Governo è pronto a stanziare 150 milioni di corone danesi, circa 20 milioni di euro. Oltre a costituire dei punti di controllo permanenti, una sorta di polizia di confine che possa ispezionare occasionalmente il traffico in entrata, Copenaghen ha stabilito di rinforzare le squadre mobili sui convogli ferroviari internazionali. Per queste altre misure, Rasmussen spenderà ulteriori 120 milioni di corone.
Le tappe della corsa all’isolamento della Danimarca sembrano già scritte, quindi, e la preoccupazione del Parlamento europeo è grande. La scelta anti-immigrazione di Copenaghen potrebbe offrire una scusa valida a quei Governi EU che cercano scappatoie per risolvere il problema dell’immigrazione in modo facile ed estremo, dando il via a una reazione a catena che rischierebbe di mettere in gioco l’Unione europea stessa.
Con una densità di 129 abitanti per chilometro quadrato e un Prodotto interno lordo (Pil) individuale di quasi 60mila dollari nel 2009, la Danimarca conta fra i Paesi più ricchi dell’intero spazio Schengen. Basti pensare che, in Italia, per ogni chilometro quadrato vivono 200 persone e il Pil è poco più della metà rispetto a quello dello Stato nordico. Come devono comportarsi, dunque, quei Paesi di confine europeo, tra cui Italia e Spagna, che hanno problemi più gravi sebbene non irrisolvibili?
La situazione danese mostra inoltre il pericolo concreto che rappresentano i partiti populisti e di estrema destra in Europa: fomentano la paura dei cittadini nei confronti degli immigrati attraverso i media, sfruttano l’angoscia che creano per farli votare la loro politica di protezione, arrivano a Governi e Parlamenti e si rendono indispensabili alle forze in carica, a volte senza avere quote di rilievo. E una maggioranza in Parlamento, a quanto pare, a volte può valere più di tutto il sogno europeo.