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di Carlo Musilli
La svolta è arrivata sabato scorso. Ali Abdullah Saleh, dittatore dello Yemen dal 1978, ha accettato il piano di transizione messo a punto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo con la collaborazione di Usa e Ue. Sembra ora più vicina la fine della crisi politica e delle proteste che da oltre tre mesi sconvolgono il Paese. Fin qui, secondo Amnesty International, negli scontri quotidiani fra esercito e manifestanti sono morte almeno 120 persone.
Se le parti sottoscriveranno il piano, il Presidente dovrà lasciare il potere entro 30 giorni. Durante questo periodo Saleh guiderà un governo di unità nazionale insieme a un altro primo ministro scelto dall’opposizione. Nuove elezioni presidenziali si terranno 60 giorni dopo le dimissioni del dittatore, come previsto dalla costituzione yemenita.
L’opposizione ha accettato il piano lunedì, a condizione che le proteste siano autorizzate a continuare fino al definitivo abbandono del Presidente. Questo è un nodo ancora da sciogliere. Saleh sabato scorso aveva dato la propria disponibilità a collaborare solo se le manifestazioni si fossero immediatamente interrotte.
Sarebbe questo uno dei temi da affrontare lunedì prossimo a Riyadh, in Arabia Saudita, dove una delegazione del partito di governo (il Congresso Generale del Popolo) dovrebbe incontrare le opposizioni per siglare formalmente l’accordo. Ancora non si ha alcuna certezza. Saleh infatti non sarà presente all’appuntamento. I suoi avversari hanno fatto sapere che parteciperanno ai colloqui di Riyadh solo se prima il dittatore avrà firmato il piano. La sua parola non basta.
Al momento, l’unica verità è che l’accordo verbale raggiunto con il governo ha creato una frattura profondissima fra l’opposizione politica e quella di strada. Non è solo mancanza di fiducia. I manifestanti sono contrari al piano dei Paesi del Golfo soprattutto perché garantirebbe l’immunità al Presidente e alla sua famiglia.
E’ inaccettabile l’idea di un esilio dorato per chi ha massacrato il Paese negli ultimi 30 anni. Devono finire in tribunale e poi in carcere. Per calmare le acque, Saleh ha sostenuto ai microfoni della BBC che Al Qaeda si sia infiltrata negli accampamenti dei manifestanti. Parole che, insieme al nuovo compromesso raggiunto, hanno infiammato ancor di più le proteste in tutto il Paese. E le violenze continuano, insieme alla conta dei morti.
Martedì a Taez (200 chilometri a sud di Sana’a) alcuni cecchini appostati sui tetti hanno fatto fuoco su una folla di ragazzi, uccidendone uno e ferendone almeno dieci. Mercoledì un altro manifestante è morto in uno scontro con l’esercito nella città di Aden. Lo stesso giorno anche i terroristi si sono fatti sentire. Si sospetta che ci sia proprio Al Qaeda dietro ad un attacco avvenuto a Zinjibar, capoluogo della provincia meridionale di Abyan. Un uomo ha aperto il fuoco contro un checkpoint dei militari, uccidendo due soldati e ferendone altri cinque.
Ormai storie del genere sono diventate ordinaria amministrazione per gli yemeniti. E non è che facciano poi così notizia fra la popolazione civile. Lo Yemen è il più povero dei Paesi arabi. Secondo il Programma Alimentare Mondiale, un terzo della sua popolazione (più di 7 milioni di persone) fatica a procurarsi il cibo. In alcune zone del Paese, l’emergenza malnutrizione è talmente grave da essere paragonabile a quella che si registra in Afghanistan e in Niger.
La crisi politica ha causato un ulteriore aumento dei prezzi alimentari. Anche il petrolio costa troppo: in molti sono tornati a bruciare legno e carbone. Nel frattempo, la moneta yemenita - il Riyal - continua a perdere terreno rispetto al dollaro. Secondo alcuni analisti è ormai vicina al collasso definitivo. Gli aiuti umanitari internazionali non bastano. Negli ultimi mesi il programma amministrato dalle Nazioni Unite è riuscito a recapitare a mala pena la metà delle risorse necessarie. Tutto questo dà la misura di come i giochi di potere e gli scontri armati fra manifestanti e polizia siano solo una delle preoccupazioni del popolo yemenita.
Se davvero il piano dei Paesi del Golfo andrà a buon fine, lo Yemen imboccherà forse la strada della riconciliazione istituzionale. Smetterà di essere una preoccupazione per chi è interessato solo agli equilibri geopolitici. A quel punto, con ogni probabilità, sarà di nuovo dimenticato. Comunque vada a finire, la tragedia yemenita non finirà a Riyadh.
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di Michele Paris
Da qualche giorno, parallelamente all’intensificarsi della repressione delle rivolte in Siria, i governi occidentali stanno aumentando le pressioni sul regime di Damasco. Mentre sono ancora poche le voci che chiedono apertamente la deposizione del presidente Bashar al-Assad, verosimilmente per timore del caos che ne potrebbe seguire, l’atteggiamento sempre più aggressivo mostrato dagli Stati Uniti e dai loro alleati lascia intravedere a breve un probabile maggiore coinvolgimento per modellare il futuro di questo paese strategicamente fondamentale negli equilibri mediorientali.
Fin dall’inizio delle proteste in Siria lo scorso mese di marzo, i media di tutto il mondo hanno descritto ripetutamente l’approccio molto cauto dei governi di USA e Israele. Se, da un lato, entrambi hanno condannato la mano pesante nel reprimere le proteste da parte del regime, dall’altro hanno evitato di spingere troppo in là le proprie critiche. Com’è risaputo, nonostante sia sulla lista nera di Washington e Tel Aviv, la Siria di Assad rappresenta in realtà una sorta di nemico affidabile. Come tale, ha ad esempio assicurato finora una certa stabilità al confine settentrionale israeliano.
Inoltre, le profonde divisioni settarie all’interno del paese e la consueta apprensione per un ipotetico ruolo di spicco che potrebbero giocare i gruppi islamici nella Siria del dopo Assad stanno suggerendo una certa prudenza nelle capitali occidentali. Con un’opposizione ancora frammentata e dall’identità tutta da verificare, la destabilizzazione immediata del paese sembrerebbe insomma comportare più rischi che vantaggi.
D’altro canto, però, un cambiamento di regime in Siria rappresenterebbe un colpo importante per i governi di Stati Uniti e Israele che solo poco più di due mesi fa faticavano a tenere il passo con gli effetti dell’ondata di malcontento diffuso in Nord Africa e in Medio Oriente. La Siria, infatti, pur non disponendo di considerevoli risorse energetiche, confina con paesi alleati degli americani, come Iraq, Giordania, Israele, Libano e Turchia. Come se non bastasse, la Siria appoggia Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina ed è anche e soprattutto l’unico paese arabo alleato dell’Iran.
Per questi motivi, la posta in gioco a Damasco appare davvero troppo invitante per l’Occidente e per Israele, per non cogliere l’occasione. Si cerca quindi di volgere a proprio favore il malcontento comprensibilmente diffuso nel paese e, possibilmente, coltivare un movimento di opposizione pronto a garantire un trasferimento dei poteri senza scosse. A premere esplicitamente per il cambio di regime in Siria sono per ora solo voci isolate, come hanno fatto qualche giorno fa, ad esempio, i senatori americani John McCain e Joe Lieberman sulle televisioni statunitensi.
I segnali del cambiamento di rotta sulla questione siriana in corso a Washington e in Europa si stanno nel frattempo moltiplicando, così come cresce d’intensità una campagna mediatica a senso unico che è difficile non accostare a quella che ha permesso l’intervento armato contro la Libia.
Al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Francia, Germania, Gran Bretagna e Portogallo stanno cercando in questi giorni di far approvare una risoluzione di condanna nei confronti del regime di Assad per la dura repressione delle manifestazioni di piazza. Dopo la manipolazione da parte della NATO della risoluzione 1973 che ha dato il via libera alle operazioni in Libia, le resistenze di Cina e Russia - ma anche del Libano - hanno per il momento impedito di trovare un accordo.
Sempre dal Palazzo di Vetro, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha poi proposto un’indagine indipendente sulle violenze in Siria, mentre l’ambasciatore americano, Susan Rice, ha sostenuto che gli Stati Uniti dispongono di prove che dimostrano il coinvolgimento dell’Iran nella repressione messa in atto da Damasco.
In precedenza, era stata l’amministrazione Obama a segnare il cambiamento di passo con l’annuncio di possibili nuove sanzioni. Questo provvedimento avrebbe in realtà un valore poco più che simbolico, dal momento che gli Stati Uniti impongono già pesanti sanzioni economiche alla Siria, con la quale peraltro hanno rapporti commerciali trascurabili. Ulteriori sanzioni americane servirebbero però a convincere i governi europei a muoversi di conseguenza. Sanzioni imposte dall’Europa avrebbero allora conseguenze più profonde sull’economia della Siria, il cui commercio estero avviene per circa un quarto proprio con i paesi UE.
Al coro di condanne si sono aggiunti poi anche i principali protagonisti dell’aggressione per motivi “umanitari” alla Libia. Il presidente francese Sarkozy, al termine del recente meeting con Berlusconi, ha avuto parole molto dure per Assad, minacciando un intervento militare che potrebbe avvenire in ogni caso solo con l’avallo dell’ONU. Il Ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha a sua volta chiesto al regime siriano di interrompere le violenze sui manifestanti ed ha confermato che l’UE sta valutando l’imposizione di sanzioni economiche.
In Siria, intanto, il soffocamento con la forza delle proteste si accompagna alle concessioni del governo di Assad, tra cui la revoca della legge sullo stato di emergenza, in vigore dal 1963 e che ha permesso al regime baathista di neutralizzare qualsiasi segnale di dissenso. La reale portata della repressione in atto nel paese rimane tuttavia difficile da valutare in maniera obiettiva.
Il regime non permette, infatti, l’ingresso di giornalisti stranieri nel paese e i dati circa le vittime e i manifestanti arrestati sono perciò forniti principalmente da attivisti locali. Questi ultimi si dimostrano spesso tutt’altro che imparziali oppure hanno legami con i governi occidentali, con l’Arabia Saudita o con l’opposizione dei Fratelli Musulmani, tutti ostili alla minoranza alauita al potere in Siria e ai legami che essa mantiene con l’Iran.
A conferma della presenza di formazioni tutt’altro che spontanee tra i manifestanti siriani, la settimana scorsa il Washington Post ha rivelato come il Dipartimento di Stato americano da qualche anno stia finanziando segretamente gruppi e partiti di opposizione al regime di Assad. Tramite il programma “Middle East Partnership Initiative” (MEPI), il governo americano fornisce sostegno economico, ad esempio, al cosiddetto Gruppo della Dichiarazione di Damasco, un raggruppamento di movimenti di opposizione - secolari e religiosi, come i Fratelli Musulmani - fondato nel 2005.
Sempre il Dipartimento di Stato ha contribuito alla creazione di un partito islamico moderato, il Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo, modellato sull’omonimo partito di governo di Erdogan in Turchia e formato da esuli siriani di stanza a Londra. Nella capitale britannica opera con il denaro americano anche il network satellitare Barada TV, voce dell’opposizione espatriata e in queste settimane impegnata a diffondere gli aggiornamenti sulla situazione in Siria.
Come in Libia e altrove, dunque, anche le legittime proteste popolari in Siria rischiano di essere strumentalizzate dalle potenze occidentali, pronte a intervenire sì, ma solo per difendere i propri interessi nella regione. Un’evoluzione della crisi siriana che manda un segnale chiarissimo al regime di Bashar al-Assad, tuttora pericolosamente diviso tra volontà di vera riforma e rigurgiti di repressione violenta.
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di Carlo Musilli
Dio, patria e famiglia conditi con intolleranza, nazionalismo e retorica neofascista. Sono questi gli ingredienti fondamentali della nuova Carta Costituzionale approvata lunedì scorso dal Parlamento ungherese. Ben 262 voti favorevoli, solo 44 i contrari. Un testo vergognoso e palesemente antidemocratico che riporta la memoria agli anni bui dei totalitarismi. Peccato che oggi l'Ungheria sia membro della Nato e presidente di turno dell'Unione Europea.
La nuova Costituzione di Budapest non definisce più lo Stato nei termini di una repubblica, ma identifica la nazione politica con le sue radici etniche e cristiane. I diritti delle minoranze non vengono nemmeno contemplati. Negli articoli D e G si legge che il Paese "deve farsi carico del destino degli ungheresi che vivono fuori dai suoi confini", a quali sarà concesso diritto di voto, anche perché "il figlio di un cittadino ungherese è ungherese, a prescindere da dove si trovi". Frasi che molti hanno interpretato come la rivendicazione dei territori sottratti al Paese dopo la prima guerra mondiale, oggi divisi fra Serbia, Romania, Croazia e Slovacchia.
Il testo definisce poi il Cristianesimo come elemento fondante della nazione. Un'affermazione che non solo discrimina gli atei e i cittadini di fede diversa, ma umilia anche i diritti delle donne e degli omosessuali. Nell'esaltare il valore della famiglia, infatti, l'Ungheria vieta per legge l'aborto e s’impegna a proteggere "il matrimonio, inteso come unione coniugale fra un uomo e una donna".
Ce ne sarebbe già abbastanza per parlare di atteggiamento medievale, ma non è finita. La parte più spaventosa della nuova Costituzione è quella che sconvolge l'assetto dei poteri. Una serie di organi di garanzia, fino a ieri indipendenti, vengono portati sotto il controllo del governo. L'esecutivo ha il diritto di nominare i membri della Corte Costituzionale, che viene privata delle sue competenze in tema di bilancio, fisco e dogane.
Nel documento viene poi riconosciuto esplicitamente il ruolo dell'Nmhh, l'autorità di controllo dei media instituita quattro mesi fa. Nemmeno a dirlo, i suoi membri sono di nomina governativa. Sarà invece direttamente il Premier a scegliere i componenti del nuovo Consiglio Fiscale della Banca Nazionale, che avrà potere di veto sui temi di bilancio. Una bocciatura del Consiglio consentirebbe al Presidente di sciogliere il Parlamento. E non è un dettaglio: se questo governo cadesse, infatti, il nuovo esecutivo sarebbe tenuto in ostaggio da uomini fedeli al vecchio premier.
Completano il rassicurante quadretto una serie di altre norme. Fra queste, ricordiamo la non commutabilità del carcere a vita, la possibilità di tenere in casa armi da fuoco pur non avendo la licenza, la definizione del lavoro come "dovere" e non più come "diritto".
Questa nuova Costituzione sostituisce quella comunista del 1949, più volte modificata in senso democratico dopo la caduta del Muro, nel 1989. Fino alla settimana scorsa l'Ungheria era l'unico Paese dell'ex area sovietica a non aver completamente riscritto la sua Carta fondamentale dopo la caduta dell'Urss. Come sono arrivati, proprio ora, a un abominio del genere?
Il principale responsabile dello scempio istituzionale è stato il Premier, Viktor Orban, che si è cucito addosso una riforma perfetta per istituzionalizzare la dittatura. Una volta era un leader liberale, ma recentemente lo spirito di qualche imperatore austroungarico deve averlo posseduto. L'anno scorso il suo partito, la Fidesz, ha vinto le elezioni con il 52% dei voti, il che gli ha permesso di occupare oltre due terzi dei seggi parlamentari.
Questo significa che, per far passare qualsiasi riforma, Orban non ha bisogno dell'appoggio di nessuno, né dei socialisti, né dell'estrema destra. La nuova Carta Costituzionale, infatti, è stata votata e approvata soltanto dalla Fidesz. Per protesta, le sinistre hanno abbandonato l'aula. Comitati di cittadini si sono subito attivati per chiedere un referendum abrogativo, ma il governo ha già fatto sapere che non sarà concesso.
L'Unione Europea intanto galleggia fra l'imbarazzo e la sonnolenza. Non sono mancate le critiche contro l'esecutivo di Budapest da parte di singoli Paesi, ma generalmente ci si è limitati a reprimende moraleggianti. Il Consiglio d'Europa ha fatto presente che la bozza della nuova Costituzione è stata presentata solo il 14 marzo, rendendo impossibile qualsiasi confronto con l'Ue. Una puntualizzazione interessante, peccato che non si sia vista nemmeno l'ombra di un intervento concreto.
La voce più autorevole che si sia alzata è stata quella del vice ministro degli Esteri tedesco, Werner Hoyer. La Germania "guarda a quello che sta accadendo in Ungheria - ha detto - con grande attenzione e non senza una certa preoccupazione". Il governo di Budapest ha definito l'intromissione "sorprendente" e "inaccettabile".
Molto meno diplomatica Amnesty International, che ha parlato della nuova Costituzione ungherese come di una violazione "alle norme internazionali ed europee dei diritti dell'uomo". L'Ue dovrebbe "garantire conformità" fra "l'ordinamento ungherese" e "le norme europee". Già, dovrebbe.
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di Michele Paris
Nel secondo dei tre appuntamenti elettorali in programma in Nigeria durante il mese di aprile, qualche giorno fa il presidente in carica Goodluck Jonathan ha conquistato una chiara vittoria già al primo turno. L’affermazione dell’ex vice-presidente ha però scatenato violente proteste da parte dei sostenitori del suo più immediato rivale, facendo riemergere tutte le tensioni religiose e sociali che pervadono il più popoloso stato africano.
La più recente tornata elettorale è andata in scena sabato scorso ed è stata definita dalle autorità locali e dalla maggior parte degli osservatori internazionali come la più corretta dal 1999, anno che ha segnato la fine del regime militare in Nigeria. In precedenza, il 9 aprile, si era tenuto in maniera pacifica il voto per l’Assemblea Nazionale, mentre il 26 gli elettori saranno chiamati a scegliere i propri rappresentanti a livello locale.
Secondo i dati resi noti dalla Commissione Elettorale Indipendente lunedì scorso, Goodluck Jonathan del partito di governo PDP (Partito Democratico del Popolo) ha ottenuto il 57 per cento dei consensi, contro il 31 per cento raccolto dal generale Muhammadu Buhari, già a capo di un governo militare in Nigeria tra il 1983 e il 1985.
Il voto per le presidenziali ha messo in evidenza le profonde divisioni che caratterizzano questo paese. Mentre Jonathan, di religione cristiana, ha trionfato nelle regioni meridionali, Buhari ha potuto contare su un largo seguito nel nord del paese, in prevalenza musulmano. I risultati superiori al 90 per cento in alcuni stati hanno spinto il principale sfidante del presidente in carica a denunciare diffusi brogli durante le operazioni di voto.
Alimentando ulteriormente un violento conflitto già esploso più volte negli ultimi anni, il malcontento tra gli sconfitti ha scatenato numerosi incidenti, soprattutto nel nord del paese. Le città settentrionali di Kano e Kaduna, in particolare, sarebbero state teatro di violenti scontri. In tutto il paese il bilancio provvisorio è già di oltre cento morti. A rendere incandescente il clima in cui si sono svolte le elezioni non sono stati soltanto gli annosi problemi che affliggono la Nigeria, come la lotta armata del Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (MEND) o il persistente conflitto tra cristiani e musulmani. È stata infatti la stessa ascesa alla presidenza di Goodluck Jonathan ad aver sollevato pesanti critiche.
Le inquietudini tra le élites locali erano iniziate in seguito alla prolungata assenza dell’allora presidente Umaru Yar’Adua, il quale per gravi motivi di salute si era recato in Arabia Saudita nel novembre 2009. La sua partenza era avvenuta praticamente all’insaputa del governo nigeriano, provocando una crisi del sistema politico. Nella confusione più totale, e al di fuori delle regole costituzionali, nel febbraio 2010 l’Assemblea Nazionale trasferì allora le funzioni presidenziali di Yar’Adua al suo vice, Goodluck Jonathan. Solo nel maggio successivo, quest’ultimo è infine diventato presidente a tutti gli effetti, in seguito al decesso di Umaru Yar’Adua.
Oltre alle manovre di dubbia legalità che hanno accompagnato la scalata alla guida del paese di Jonathan, anche la sua candidatura per le presidenziali del 2011 ha contribuito ad innescare nuove tensioni inter-etniche in Nigeria. L’equilibrio politico raggiunto a partire dal ritorno alla “democrazia” dodici anni fa si era basato sull’alternanza alla presidenza del paese tra un cristiano del sud e un musulmano del nord per otto anni (due mandati) ciascuno. Allo stesso modo, durante il mandato di un presidente musulmano, il suo vice dovrebbe essere un cristiano e viceversa.
Dal momento che il defunto presidente musulmano Yar’Adua era stato eletto per la prima volta nel 2007, il suo successore aveva inizialmente promesso che, una volta completato il mandato quadriennale, la candidatura alla presidenza per il PDP sarebbe toccata ad un politico di fede islamica. Al momento della scelta del candidato, tuttavia, Jonathan si è mosso per conquistare la nomination – secondo alcuni pagando profumatamente i delegati del partito – a spese del musulmano Atiku Abubakar, già vice del presidente Olusegun Obasanjo tra il 1999 e il 2007.
La candidatura e l’elezione di sabato scorso di Goodluck Jonathan hanno così decretato la fine di un accordo di spartizione del potere - peraltro tra politici finora tutti appartenenti allo stesso partito - che, come ha scritto l’autorevole magazine americano Foreign Affairs, “rappresentava un importante strumento in mano alle élite per controllare le innumerevoli divisioni all’interno della Nigeria”.
La fine dell’accordo, nonché la deposizione di Yar’Adua di fatto ancora prima della sua morte, è stata peraltro orchestrata tra Jonathan e i governi occidentali, in primo luogo quello americano. A rivelarlo è un cablo del febbraio 2010 pubblicato da Wikileaks lo scorso dicembre. In esso viene descritto l’impegno del presidente nigeriano ad interim nel cercare l’appoggio dei diplomatici statunitensi per il suo progetto di successione e il via libera di Washington, nonostante il rischio di far riesplodere la violenza nel paese e di dividere la stessa classe dirigente nigeriana.
Ben consolidata è d’altra parte l’intromissione delle potenze occidentali in un paese la cui rilevanza strategica difficilmente può essere sopravvalutata. La Nigeria è infatti il maggior produttore di petrolio di tutta l’Africa e provvede al dieci per cento delle importazioni di greggio degli Stati Uniti. Considerevoli depositi onshore e offshore ne fanno inoltre il decimo paese con le maggiori riserve di gas naturale. Con la terza economia del continente e i sui 150 milioni di abitanti, la Nigeria contribuisce anche in maniera determinante alla stabilità dell’intera Africa occidentale.
L’interventismo occidentale è perciò giustificato, in primo luogo, da motivi di politica energetica ed è completamente al servizio delle compagnie petrolifere che in Nigeria detengono un potere comparabile, se non superiore, a quello dello stesso governo centrale. Fin dall’arrivo della Shell nel 1927 per iniziare lo sfruttamento delle riserve petrolifere situate nel delta del fiume Niger, i colossi del petrolio hanno puntualmente messo in atto politiche che hanno calpestato i diritti e le esigenze della popolazione locale, causando oltretutto gravissimi danni ambientali.
Lo strapotere dei cartelli del petrolio in Nigeria è stato reso possibile grazie alla complicità di una classe politica che, come in molte altre realtà africane e mediorientali, ha prodotto differenze sociali colossali, con una ristretta oligarchia corrotta arricchitasi alle spalle di ampi strati della popolazione ridotti in misera. Per tutelare le proprie compagnie operanti in Nigeria, i governi occidentali devono dunque poter contare su un presidente - come Goodluck Jonathan e i suoi predecessori - che amministri secondo il loro volere i vasti poteri riconosciutigli dalla Costituzione in merito alla spartizione dei profitti derivanti dall’attività estrattiva.
La gran parte della popolazione continua invece ad essere esclusa da qualsiasi beneficio derivante da una tale ricchezza del sottosuolo. Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre il 70 per cento degli abitanti è costretto a vivere con meno di un dollaro al giorno e la Nigeria è tra i venti paesi più poveri del pianeta in termini di reddito effettivo pro-capite.
Le condizioni politiche, sociali ed economiche del paese non sono altro che la diretta conseguenza del sistema imposto dalla cerchia di potere indigena, dai governi occidentali e dai giganti privati del petrolio e che, inevitabilmente, la recente elezione di Goodluck Jonathan alla presidenza non farà altro che perpetuare.
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di Roberta Pasini
E' giunta da pochi giorni la tanto attesa notizia dell'abolizione dello stato di emergenza in Siria in vigore senza interruzione da quasi 50 anni. L'eliminazione della legge d'emergenza appare a prima vista una vittoria significativa del movimento riformista siriano, che si è destato il 18 marzo scorso travolto, o forse sarebbe meglio dire ispirato, dal contestuale risveglio della società civile negli altri paesi arabi.
Lo stato di emergenza venne promulgato nel 1963, dopo che il partito Ba'ath salì al potere l'8 marzo dello stesso anno, ed è la legge che ha sottratto i cittadini siriani alla protezione costituzionale limitandone le libertà civili e individuali. Grazie a questa legge il regime siriano ha potuto estendere il suo rigido controllo sulla popolazione attraverso l'indiscriminato arresto dei cittadini sospettati di mettere a repentaglio la sicurezza dello stato.
A diffondere la notizia è stata l'agenzia stampa governativa Sana che annunciava la fine dello stato di emergenza, l'abolizione della Corte Suprema di Sicurezza dello Stato, organo responsabile dei processi ai prigionieri politici, e una nuova regolamentazione che prevede il diritto di protestare pacificamente, previa autorizzazione del Ministero degli Interni.
Lo stesso giorno però, sempre sull'agenzia Sana, appare il messaggio del Ministro degli Interni che fa appello ai cittadini siriani affinchè ''contribuiscano alla realizzazione della stabilità e sicurezza (del paese)'' e si ''astengano da qualsiasi manifestazione, marcia, o sit-in di qualsiasi tipo''. Una sorta di appello che suona più come una minaccia per chi avesse intenzione di continuare le proteste pubbliche.
Tra le altre proposte di legge discusse si parla anche di alcune riforme economiche per la creazione di 10.000 nuovi posti di lavoro in posti pubblici e per favorire l'impiego giovanile e contrastare in questo modo la crescente crisi economica. Il Presidente Bashar al-Asad assicura infine che nelle intenzioni del governo c'è in programma anche una nuova legge di riforma che regoli l’attività dei partiti politici e dei mezzi d’informazione.
Intanto questo primo importante decreto per l'abrogazione della legge di emergenza, dopo essere stato approvato dal Consiglio dei Ministri, per entrare pienamente in vigore deve aspettare l'approvazione del Parlamento che con tutta probabilità non si riunirà prima d’inizio maggio. Ma aldilà dei tempi tecnici, questo importante e simbolico atto di riforma politica rimane offuscato da meno ecclatanti ma ugualmente preoccupanti segnali contraddittori.
A cominciare dalle definizioni che le autorità governative stanno usando per descrivere le manifestazioni di protesta e di malcontento di un numero crescente di cittadini. Inizialmente indicati come ''atti di sabotaggio'', lunedì scorso il Ministro degli Interni non ha esitato ad attribuire i disordini che stanno agitando la Siria a ''un'insurrezione armata di gruppi armati appartenti a organizzazioni salafite (gruppi islamisti radicali ndr), specialmente nelle città di Homs e Baniyas''. Il linguaggio politico usato dal regime non lascia presagire una sostanziale inversione di rotta, ma al contrario legittima la repressione.
Passando dalle parole ai fatti, ben più allarmante è stata la reazione delle forze di sicurezza durante le manifestazioni a Homs, città industriale a nord di Damasco, dove solo poche ore dopo la notizia dell'eliminazione dello stato di emergenza, le forze di polizia non hanno esitato a sparare sulla folla, provocando un numero ancora non accertato di morti. Non solo uccisioni ma anche nuove ondate di arresti. Lunedì sera, sempre dalla città di Homs, arriva la notizia della cattura del militante di opposizione, Mahmud Issa, prelevato dalla propria abitazione dalle forze di sicurezza siriane dopo un'intervista con l'emittente televisiva al-Jazeera.
Non è la prima volta che le autorità siriane incarcerano Mahmud Issa, conosciuto per il suo impegno a favore della democrazia. L'ultima volta nel 2006, quando scontò una pena di tre anni di reclusione, reo di aver firmato la Dichiarazione di Beirut-Damasco con la quale 300 attivisti e intellettuali chiedevano la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi dopo l'assassinio di Rafiq Hariri a Beirut del 2005.
Nemmeno dopo l'approvazione della fine della legge d'emergenza sono stati bloccati gli arresti arbitrari, che stanno proseguendo anche in questi giorni. Attivisti on line denunciano l'arresto e le percosse ai danni di decine di manifestanti, soprattutto giovani e studenti, durante le agitazioni degli ultimi giorni che si stanno verificando in diverse città della Siria. Le stime arrivano a calcolare almeno un centinaio di arresti.
Manifestazioni studentesche sono state organizzate ieri presso le Università di Aleppo, Damasco, al-Hasakah e Daraa, manifestazioni che sono continuate anche oggi. Secondo al-Jazeera solo ad Aleppo sono almeno 37 gli studenti arrestati. Altre città, piccole e grandi, in cui si sono registrate manifestazioni sono Homs a nord di Damasco, Baniyas, Lattakia e Saraqib a nord-est del paese, e al-Kiswah, a sud.
Sembra difficile a questo punto che la popolazione faccia marcia indietro, dimenticando i morti e gli arresti che il governo sordo alle richieste di maggiori libertà civili ha provocato. Dalle iniziali, timide invocazioni ''il popolo siriano non deve essere umiliato'', le rivendicazioni politiche per la libertà si sono fatte via via più precise, chiedendo la liberazione dei prigionieri, la fine delle leggi d'emergenza e l'attuazione di riforme democratiche, si è arrivati ora a richiedere a voce chiara e ferma la caduta del governo, rivendicazione impensabile solo fino a qualche settimana fa.
La maggior parte dei commentatori concorda nel dire che l'abrogazione dello stato d'emergenza, oltre ad arrivare con troppo ritardo nel tentativo di sedare le rivolte, non sarà sufficiente a migliorare le condizioni dei diritti civili in Siria se non sarà accompagnata da ulteriori radicali trasformazioni del regime. Nonostante, infatti, questa sia la principale forma di limitazione delle libertà civili, che proibisce incontri pubblici tra i cittadini e consente l'arresto di chiunque sia sospettato di costituire una minaccia per la sicurezza dello stato, se questo provvedimento non sarà accompagnato da un cambio di politica reale e dall'introduzione di ulteriori leggi che limitino il potere delle forze di sicurezza e dei servizi segreti, vera fonte di terrore per i cittadini, da solo non basterà a placare il dissenso della popolazione.
Le ''vere'' riforme auspicate dagli attivisti per i diritti umani e la democrazia prevedono, oltre all'abolizione dello stato di emergenza, la liberazione di tutti i prigionieri politici incarcerati proprio in virtù di questa legge speciale e la cancellazione delle attuali procedure giudiziarie che consentono l'applicazione della legge militare anche per processi civili. Nel frattempo, invece, il governo si prepara ad elaborare una nuova legge per la cosiddetta lotta contro il terrorismo, che potrebbe rivelarsi anche peggiore dello stato d'emergenza.