di Michele Paris

A conferma del progressivo deterioramento dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Pakistan, il governo di Karachi qualche giorno fa ha chiesto a Washington un considerevole disimpegno dalle operazioni in corso sul proprio territorio. Le richieste di Islamabad sono giunte in concomitanza con alcuni incontri bilaterali ad alto livello e s’inseriscono in un’atmosfera di crescente ostilità nei confronti degli americani, diffusa ormai non solo tra la popolazione locale ma anche tra le élites pakistane, sempre più diffidenti verso gli obiettivi del potente alleato.

Ad esporre ufficialmente la nuova presa di posizione del governo pakistano agli USA sarebbe stato l’autorevole capo delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani. Agli americani sarebbe stato chiesto di ridurre sensibilmente il numero di agenti CIA e delle Operazioni Speciali impiegati in Pakistan, così come lo stop ai bombardamenti nelle aree di confine con l’Afghanistan che gli stessi servizi segreti a stelle e strisce conducono con i cosiddetti droni (velivoli senza pilota).

Gli agenti operativi da richiamare in patria, secondo fonti pakistane anonime citate da alcuni giornali americani, sarebbero più di trecento, compresi tutti i contractors privati; il numero corrisponde a circa il 40 per cento del totale dei loro uomini attivi nel paese. Il messaggio di Kayani agli americani è stato recapitato il giorno successivo alla visita di lunedì scorso negli Stati Uniti del numero uno della principale agenzia di intelligence pakistana (ISI), generale Ahmed Shuja Pasha. Quest’ultimo ha incontrato a Washington il direttore della CIA, Leon Panetta, e il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen.

Nonostante i portavoce della CIA abbiano assicurato che durante le quasi quattro ore di colloquio non si sia fatto alcun riferimento all’imminente richiesta di ridurre le operazioni statunitensi in Pakistan, ciò risulta in realtà estremamente probabile e rivela a sufficienza le tensioni più o meno latenti tra i servizi segreti dei due paesi. Tanto più che l’ISI (Inter-Services Intelligence Directorate) è alle dipendenze proprio delle forze armate pakistane, guidate dal generale Kayani, e che quest’ultimo è in piena sintonia con Pasha. Recentemente, infatti, è stato proprio Kayani a chiedere al suo governo di prolungare la permanenza di Pasha al vertice dell’influente agenzia spionistica.

Da parte della CIA, come ha riportato il Washington Post, si continua a negare che le autorità pakistane abbiano chiesto di ritirare agenti e interrompere gli attacchi con i droni. L’intelligence USA ha tuttavia confermato i contrasti con il Pakistan, annunciando che verranno prese alcune iniziative per soddisfare le preoccupazioni dell’ISI, a cominciare dalla trasmissione di maggiori informazioni circa gli agenti di stanza nel paese e da una maggiore collaborazione nella scelta degli obiettivi dei droni.

La contesa sul ruolo degli agenti della CIA è esplosa in particolare dopo la vicenda della spia americana Raymond Davis, arrestato a Lahore lo scorso gennaio per l’uccisione di due cittadini pakistani che seguivano la sua auto a bordo di una motocicletta. Gli USA avevano chiesto la liberazione immediata del loro uomo, facendo appello all’immunità diplomatica. Dopo alcune settimane di carcere, Davis è stato rilasciato grazie ad un accordo, perfettamente legale secondo la legge pakistana, che ha garantito alle famiglie delle due vittime un cospicuo risarcimento in denaro.

Il caso di Raymond Davis, sia pure risolto secondo quanto auspicato fin dall’inizio dai due governi, ha peggiorato innegabilmente i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan. L’insistenza con cui gli Stati Uniti ne chiesero il rimpatrio - lo stesso presidente Obama fece un appello al governo di Islamabad - tradisce l’importanza e la delicatezza del ruolo da lui ricoperto in Pakistan. Per questo, gli americani andarono su tutte le furie di fronte alle resistenze della giustizia pakistana e, soprattutto, dopo i quattordici giorni d’interrogatori a cui Davis venne sottoposto dai servizi segreti locali.

Su molti giornali sono apparse in queste settimane rivelazioni inquietanti sull’incarico di Raymond Davis in Pakistan. I suoi oscuri rapporti con alcune organizzazioni ribelli, è stato ipotizzato, potevano essere finalizzati a favorire attacchi terroristici in Pakistan, così da destabilizzare un governo centrale già debole e giustificare un intervento diretto degli americani. Non è un segreto, d’altra parte, che le forze armate pakistane ritengano che il vero obiettivo degli USA sia un’escalation delle operazioni militari nel loro paese, così come la messa in sicurezza delle armi nucleari di cui dispone.

Le possibili informazioni estorte a Raymond Davis dagli interrogatori dell’ISI e il crescente malcontento popolare nei confronti degli Stati Uniti, potrebbero aver spinto dunque le autorità pakistane - significativamente quelle militari, di gran lunga più autorevoli e influenti rispetto a quelle civili - ad alzare la voce con Washington. La campagna dei droni, in particolare, risulta avversata dalla popolazione locale, alla luce delle numerose vittime civili innocenti causate da questi attacchi che dovrebbero colpire invece esclusivamente esponenti di gruppi terroristici.

Queste incursioni si sono intensificate negli ultimi due anni e, secondo gli americani, sarebbero indispensabili per rimediare all’incapacità del Pakistan di colpire i gruppi ribelli che operano oltre il confine, nell’Afghanistan occupato. Anche da Washington, peraltro, non vengono risparmiate lamentele nei confronti di Islamabad, dove ogni anni viene recapitato qualcosa come un miliardo di dollari in aiuti. Solo qualche giorno fa, ad esempio, un rapporto della Casa Bianca al Congresso ha evidenziato come gli sforzi del governo pakistano per contrastare i talebani e le altre organizzazioni estremiste non abbiano praticamente alcuna possibilità di successo.

L’atteggiamento ambiguo del Pakistan riflette d’altronde una risaputa necessità strategica di vitale importanza. I militari pakistani non intendono cioè distruggere realmente la resistenza dei ribelli, continuando a considerare i talebani un potenziale alleato per esercitare la propria influenza sull’Afghanistan in un futuro senza la presenza americana, ovviamente in funzione anti-indiana. Non a caso i talebani pakistani (Lashkar-e-Taiba) continuano a mantenere stretti legami con i servizi segreti pakistani.

In questi oscuri intrecci di rapporti tra i vari protagonisti sul campo e con interessi contrastanti in gioco, è evidente come le relazioni tra Stati Uniti e Pakistan si basino su fondamenta assai precarie. La mano pesante degli americani ha finito poi, inevitabilmente, per suscitare la dura reazione del governo di Islamabad, mettendo a repentaglio una collaborazione che da Washington si continua a ritenere fondamentale nella guerra di occupazione in corso in Asia centrale.

Ciò che attende i due paesi nell’immediato futuro sembra essere allora una revisione complessiva dei loro rapporti bilaterali, le cui conseguenze sul futuro della guerra in Afghanistan e sugli equilibri nell’intera regione saranno tutte da valutare.

di Carlo Musilli 

Dove non arriva la lunga mano di Washington, forse può arrivare quella di Riyadh. La crisi yemenita non sembra ancora vicina a una soluzione, ma può darsi che i negoziati abbiano finalmente imboccato una strada credibile. Il piano di mediazione proposto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo prevede che Ali Abdullah Saleh, dittatore del Paese da oltre 30 anni, lasci la poltrona al suo vice, Abdrabuh Mansur Hadi. A quel punto verrebbe costituito un governo provvisorio guidato dall'opposizione, che avrebbe il compito di traghettare lo Yemen fino alle sue prime elezioni democratiche, probabilmente nel 2013.

Agli insorti il piano è apparso subito un po' troppo vago e indulgente. Lunedì è arrivato un secco rifiuto da parte dei partiti di opposizione. Secondo il Washington Post, addirittura decine di migliaia di persone sarebbero scese in piazza a Sana'a, Taiz, Hudaydah, Ibb e nella provincia meridionale di Hadramaut per protestare contro il piano del Consiglio.

Già dopo 24 ore, tuttavia, i loro rappresentanti hanno abbassato la tensione, cercando di aprire un dialogo coi mediatori del Golfo. In particolare, hanno chiesto loro di spiegare se siano previste le dimissioni immediate di Saleh, condizione primaria per arrivare a un accordo. Il piano non specifica, infatti, quali siano i tempi della transizione al potere. Altro nodo fondamentale è il destino che attende il dittatore e i membri della sua famiglia, alcuni dei quali ricoprono ancora oggi ruoli di primo piano nel governo e nell'esercito. Il Consiglio sembra orientato a garantire loro l'impunità, con tanto di esilio dorato chissà dove. Per l'opposizione questo è impensabile: devono essere tutti processati. Mercoledì i capi dei partiti ribelli hanno incontrato gli ambasciatori di Arabia Saudita, Kuwait e Oman per avere chiarimenti su questi aspetti.

Saleh dal canto suo ha accettato subito la proposta. Sono mesi che temporeggia proprio per evitare di finire alla berlina come Mubarak. Questa è un'occasione irripetibile. L'unica incomprensione si è avuta giovedì scorso, quando l'incauto primo ministro del Qatar, Sheik Hamad bin Jassim al-Thani, ha detto che la mediazione del Golfo avrebbe finalmente levato di mezzo il dittatore yemenita. Saleh gli ha subito risposto per le rime, dicendogli di non intromettersi. Parole che i media hanno interpretato come un ripensamento circa la disponibilità a trattare. Ma non era così. Solo uno screzio, nulla di grave.

Intanto in ogni angolo dello Yemen migliaia di manifestanti anti-Saleh continuano a scontrarsi con militari e poliziotti fedeli al leader. La conta dei morti prosegue ogni giorno. Ormai è evidente che la rivoluzione armata non è una strada percorribile fino in fondo. Gli insorti possono contare sull'aiuto di alcuni reparti dell'esercito passati dalla loro parte, ma non hanno comunque una capacità militare adeguata alle dimensioni del conflitto.

Martedì la polizia ha attaccato alcuni ufficiali schierati dalla parte del generale ribelle Ali Mohsen. E' successo in un posto di blocco ad Amrane, 170 chilometri dalla capitale Sana'a. Il bilancio è stato di cinque morti e dieci feriti. Vittime anche nel sud del Paese, ad Aden, dove le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro una folla di dimostranti scesi in piazza per uno sciopero generale. Due i manifestanti uccisi.

Nel frattempo, secondo quanto riferito dall'agenzia cinese Xinhua, l'esercito yemenita è impegnato anche su un altro fronte. Domenica i militari si sono scontrati con i miliziani di Al Qaeda in diverse regioni della provincia meridionale di Abiyan. Prima hanno indietreggiato, poi si sono ritirati.

Tutte le parti in campo sanno che, se non si trovasse un accordo di pace per via politica, la guerra civile continuerebbe ancora per molto tempo e probabilmente consegnerebbe il Paese nelle mani dei capi tribù, dei gruppi indipendentisti e dei terroristi islamici. Un rischio che fuori dallo Yemen nessuno ha intenzione di correre.

Gli Stati Uniti da tempo facevano pressioni sull'Arabia Saudita perché intervenisse a riportare la stabilità. E il principale alleato arabo di Washington alla fine si è mosso. Al Consiglio di Cooperazione del Golfo prendono parte anche i ministri degli esteri di Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, e Emirati Arabi Uniti. Ma, com'è ovvio, quando si tratta di prendere decisioni cruciali è il loro collega saudita a stabilire le mosse.

Non a caso la settimana scorsa il Consiglio aveva invitato Saleh e i suoi oppositori a incontrarsi proprio a Riyadh (ma anche in questo caso non era stata proposta alcuna data). La mediazione che si profila all'orizzonte potrebbe avere successo anche perché l'Arabia Saudita è da sempre il primo tra i finanziatori esteri dello Yemen. Soldi che, negli anni, hanno comprato la fiducia di Saleh.

di Michele Paris

Con un ennesimo voltafaccia, qualche giorno fa l’amministrazione Obama ha annunciato la rinuncia a qualsiasi tentativo di garantire un processo equo a cinque detenuti nel carcere di Guantánamo accusati di aver progettato gli attacchi dell’11 settembre 2001. Il cambiamento di rotta della Casa Bianca nega ai presunti terroristi la garanzia di un giudizio di fronte ad un tribunale civile e, invece, rimette in moto il discutibile sistema fondato sui tribunali militari istituito da George W. Bush, i cui sistemi di “lotta al terrore” il presidente democratico ha ormai finito per abbracciare completamente.

La decisione, che ha di fatto smentito quanto da lui stesso stabilito poco più di un anno fa, è stata resa nota dal Ministro della Giustizia americano (Attorney General), Eric H. Holder, in una conferenza stampa. Dietro sua indicazione, i pubblici ministeri militari di Guantánamo potranno ora presentare le loro accuse di crimini di guerra contro gli imputati.

L’accusato di spicco è Khalid Sheikh Mohammed, pakistano membro di Al-Qaeda, ritenuto una delle menti degli attentati alle Torri Gemelli. Con lui saranno alla sbarra anche gli yemeniti Waleed bin Attash, accusato di essere a capo di un campo di addestramento in Afghanistan, e Ramzi bin al-Shibh, sospettato di aver selezionato le scuole negli USA dove i dirottatori presero lezioni di volo.

Insieme a lui anche il pakistano Ali Abd al-Aziz Ali (ovvero Ammar al-Baluchi), accusato di aver facilitato l’ingresso degli attentatori negli Stati Uniti e di aver trasferito loro circa 120 mila dollari per far fronte alle spese, e il saudita Mustafa al-Hawsawi, anch’egli sospettato di aver aiutato economicamente e materialmente gli autori degli attacchi.

Nel novembre 2009 era stato appunto lo stesso Holder a deliberare che il processo a questi cinque imputati doveva essere celebrato in una corte civile di New York, sollevando immediate polemiche da più parti. Nei mesi successivi, il Congresso, con l’appoggio di parlamentari repubblicani e democratici, aveva allora approvato una serie di provvedimenti per impedire lo stanziamento di fondi per trasferire i detenuti di Guantánamo sul suolo americano.

Di fronte alla dura opposizione bipartisan, l’amministrazione Obama aveva così fissato una serie di procedure per dare una parvenza di legalità al sistema dei tribunali militari. Ai primi di marzo, poi, era giunta la decisione del presidente di annullare l’ordine da lui emanato due anni prima e che fermava gli stessi procedimenti militari contro i presunti terroristi.

Il più recente annuncio di Holder, infine, ha suggellato la definitiva rinuncia da parte del governo americano di smantellare l’edificio pseudo-legale costruito da Bush per combattere il terrorismo dopo l’11 settembre e che Obama aveva fortemente criticato durante la campagna elettorale per la Casa Bianca.

Lo stesso proposito iniziale dell’attuale amministrazione prevedeva in realtà un doppio approccio alle sorti dei detenuti di Guantánamo. Il dirottamento verso i tribunali civili doveva riguardare infatti soltanto alcuni casi, mentre per i prigionieri più problematici - cioè quelli troppo pericolosi per essere eventualmente rilasciati e allo stesso tempo difficilmente perseguibili in sede civile - rimaneva l’opzione della detenzione indefinita senza alcun processo.

Il tentativo, ora definitivamente abortito, di istituire alcuni procedimenti civili non era insomma nient’altro che una manovra esteriore, adottata per dimostrare la volontà di prendere le distanze dagli eccessi della precedente amministrazione. Nonostante l’ordine firmato da Obama all’indomani del suo insediamento nel gennaio 2009, infatti, non si è mai andati nemmeno vicini alla chiusura del carcere di Guantánamo e, in ogni caso, le detenzioni senza fondamento legale sono proseguite.

Mentre i repubblicani e buona parte dei democratici al Congresso hanno applaudito al voltafaccia di Obama, le associazioni a difesa dei diritti umani hanno mostrato tutto il loro sdegno. Il direttore dell’ACLU (American Civil Liberties Union), Anthony Romero, ha definito “il cambio di rotta del Ministro della Giustizia devastante per il sistema legale” americano.

Nel dicembre 2008, Khalid Sheikh Mohammed e gli altri quattro co-imputati avevano espresso l’intenzione di dichiararsi colpevoli anche di fronte ad un tribunale militare. L’arrivo di Obama alla Casa Bianca poco più tardi aveva però bloccato il lavoro delle commissioni di Guantánamo, ordinando la revisione dell’intera politica del suo predecessore.

Per gli oppositori dei processi civili nei confronti dei presunti ideatori dell’11 settembre i timori principali sembrano essere legati a motivi di sicurezza. Soprattutto, però, a destare preoccupazioni tra i falchi dell’antiterrorismo negli USA è la possibilità che gli stessi imputati possano anche non essere condannati in sede civile, come accadde in parte ad Ahmed Khalfan Ghailani, accusato degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania del 1998 e prosciolto da ben 280 capi d’accusa da un tribunale civile di New York.

Il ricorso esclusivo alle commissioni militari, in definitiva, rappresenta un sistema di dubbia legalità per avere la certezza che gli imputati non potranno sfuggire ad una condanna. Un obiettivo quest’ultimo troppo incerto con un procedimento civile che fornisca pieni diritti alla difesa.

In un tribunale civile, inoltre, esiste il rischio concreto di mettere in piazza ancora una volta i sistemi brutali impiegati in questi anni nei confronti dei detenuti con l’accusa di terrorismo, per non parlare degli oscuri legami tra l’intelligence d’oltreoceano e gruppi terroristici come Al-Qaeda.

Le cosiddette prove di colpevolezza sono state infatti frequentemente estorte tramite tortura o grazie a testimonianze tutt’altro che affidabili. Metodi insomma non ammissibili per la giustizia civile. Lo stesso Khalid Sheikh Mohammed, come ammesso dal governo americano, è stato sottoposto a “waterboarding” in ben 183 occasioni.

Con la ratifica dei tribunali militari per i detenuti definiti “nemici combattenti illegittimi” dal Military Commissions Act firmato da Bush nel 2006, l’amministrazione Obama continua così a negare ai sospettati di terrorismo i diritti costituzionali previsti dal sistema legale statunitense e assicura tristemente la permanenza in vigore di quei sistemi aberranti che hanno segnato una delle pagine più nere della storia americana.

di Roberto Giardina

BERLINO. Arme Angela, povera Cancelliera. La sua Germania è stato il primo paese a uscire dalla crisi, i disoccupati continuano a scendere (tra qualche mese saranno meno di 3 milioni, livello mai raggiunto dalla riunificazione) l´industria è in pieno boom, i tedeschi esportano di tutto e fanno fatica a far fronte alle ordinazioni, soprattutto verso India e Cina. Per il 2011, è previsto un aumento del Pil del 3,5, il triplo di quello italiano. Eppure la coalizione di Frau Merkel, alle elezioni regionali a metà legislatura va incontro a una disfatta dopo l´altro. Sono folli questi tedeschi?

Anche all´estero, Frau Bundeskanzlerin raccoglie solo critiche, per la sua ostinazione a non seguire i partner europei, tanto da essersi guadagnata il soprannome di “Madame Non”. Due anni fa, in piena crisi, rifiutò di partecipare a un piano comune: “Ci metteremo anni a trovare un accordo. Intanto faccio da me”. A quanto sembra, non ha avuto tutti i torti. Oggi, è disposta ad aiutare i “cattivi”dell´euro, la Grecia, l´Irlanda, e il Portogallo, ma aggiunge: “Non siamo gli ufficiali pagatori della Comunità. Adesso bisogna cambiare le regole.” Dura, ma irragionevole?

Più grave ancora, il “No” reciso a partecipare alla campagna di Sarkozy e di Cameron contro Gheddafi. Berlino ha voltato le spalle agli alleati, per unirsi alla Cina e alla Russia di Putin, l´hanno accusata. Berlino ha rotto l´asse con Parigi e si è isolata in Europa. E´un torto finire in minoranza se si ha ragione, come l´andamento della situazione in Libia sta dimostrando?

La Merkel deve tener da conto i suoi elettori. “Abbiamo tagliato gli aiuti ai disoccupati e ai poveri e oggi troviamo miliardi per le banche e per i greci”, accusa Die Linke, il partito dell´estrema sinistra. Qualche dichiarazione demagogica va messa in conto. Poi dovrebbero contare i fatti, e la Germania si dimostra europeista, al di là delle parole. Solo il 55 % dei tedeschi giudica positivamente la moneta unica, il che in fondo non è poco, e Frau Angela li ammonisce: “La nostra prosperità dipende anche dall´euro”.

Lei paga soprattutto il cedimento degli alleati liberali. L´FDP che due anni fa aveva sfiorato il 15 %, se si votasse domani rischierebbe di non superare nemmeno lo sbarramento minimo del 5. Colpa di promesse elettorali non mantenute, anche a causa della crisi (investire il 15 % del Pil nell´istruzione). I tedeschi non dimenticano. A guadagnare non sono i socialdemocratici, che continuano a perdere ovunque, ma i “verdi” che stanno diventando un partito a larga base popolare, approfittando dei guai altrui.

Non sono tutti di sinistra, come si ritiene all´estero. E i “Grünen” sono stati favoriti anche dalla tragedia nucleare in Giappone. Oggi accusano la Merkel di aver prolungato la vita delle centrali lo scorso settembre. Ma il loro Joschka Fischer, quando era vicecancelliere e ministro degli esteri con Gerhard Schröder, prese pragmaticamente la stessa decisione.

Nelle elezioni del Baden-Württemberg, 37mila kmq e 11 milioni di abitanti, un Pil quasi pari a quello del Belgio, e da sempre una roccaforte cristianodemocratica, i verdi per la prima volta guideranno la nuova coalizione insieme con l´SPD, sia pure per un solo seggio (36 a 35). Ma il loro primo ministro, Winfried Kretschmann, 62 anni, non è affatto un ribelle. Severo professore di liceo, non ama le decisioni avventate e idealistiche, tanto da essere stato a lungo contestato dal suo stesso partito.

Se si votasse la prossima domenica, Frau Merkel sarebbe costretta a sloggiare. La sua CDU/CSU otterrebbe un modesto 33%, l´FDP rischierebbe di non entrare al Bundestag e i socialdemocratici potrebbero riformare la coalizione con i verdi, come nel 1998 (fino al 2005). Paradossalmente, potrebbe risultare un vantaggio il continuo cedimento dell´SPD, a cui mancano personalità di rilievo. Secondo i sondaggi otterrebbero appena il 26 % contro il 24 dei Grünen. Quasi un testa a testa.

Ma se fra due anni avvenisse un sorpasso come a Stoccarda? Al voto nazionale, i tedeschi potrebbero avere il timore di ritrovarsi con un Cancelliere verde. E quale? I vecchi leaders nazionali sono diversi dagli ecologisti della provincia, più arroganti e imprevedibili. Inoltre, in questi due anni i verdi dovranno saper gestire il potere. Come chiudere le 4 centrali nucleari che forniscono il 60 % dell´energia al Baden - Württemberg, la regione più avanzata e innovativa d´Europa, che ospita industrie come Daimler, Porsche, Bosch?

Si brucerebbero 5 miliardi di euro, rischiando migliaia di posti di lavoro. A Stoccarda i Grünen hanno anche promesso di bloccare la costruzione della nuova stazione che, secondo loro, sconvolge il cuore della città, e devasta la zona con le linee per i treni superveloci. Kretschmann è un realista ed è in grado di giungere a un compromesso. Sarà sufficiente per gli elettori?

La Merkel confida nel tempo ed è più che probabile che nel 2013, dopo anni di potere, possa tornare a guidare una Grosse Koalition insieme con i socialdemocratici. Senza escludere la possibilità di un´alleanza tra cristianodemocratici e Grünen, come ad Amburgo. “Madame Non” non è ancora matura per la pensione.

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Tutto era nell’aria, ma in Russia nessuno aveva avuto il coraggio di parlarne per primo. Così ci ha pensato lui, il presidente Medvedev (classe 1965) da sempre considerato un lilliput di Putin. Sembrava un quisling fedele e privo di iniziative. Prono. Ed eccolo invece impegnato a sparare una serie di raffiche contro i vertici del potere organizzato da Putin. Tutto questo va in onda ad appena 12 mesi dalle prossime presidenziali.

La storia, vista dalle rive della Moscova, riporta indietro a quel 1934, quando con il pretesto dell’assassinio per mano di presunti trotzkisti di Sergej Kirov, Stalin, per rafforzare ulteriormente la propria egemonia, diede avvio a una stagione di epurazioni interne.

E così chiunque fosse sospettato di essere oppositore veniva allora imprigionato e quindi deportato in Siberia o direttamente eliminato. Le “purghe” staliniane andarono a colpire soprattutto i membri del Comitato centrale del Partito comunista, tra cui importanti dirigenti come Zinov’ev, Bucharin e gli ufficiali dell’Armata Rossa. I tempi sono fortunatamente cambiati. Nessuna vittima, nessuno spargimento di sangue. Ma i furbetti del quartiere moscovita finiscono da parte. Ci pensa il professor Medvedev che con la sua aria sbarazzina si dichiara stanco di assecondare il duro Putin. E passa all’attacco.

Ha cominciato, nei mesi scorsi, cacciando a calci il potente sindaco della capitale, Jurij Luskov, re di tangentopoli e massacri urbanistici stratosferici (coadiuvato da Elena Baturina, una moglie palazzinara) ed ora in fuga all’estero. Ed ecco che, dopo aver sistemato alla guida di Mosca il siberiano Sergej Sobjanin (che ha messo a nudo scandali faraonici legati anche a quel tempio che è la metropolitana della capitale) passa alla seconda fase delle purghe che assumono un significato strategico.

Rotolano così molte teste doc sui sanpietrini della Piazza Rossa. Sono allontanati, sospesi, cacciati, sostituiti personaggi che sembravano intoccabili e che avevano dato vita ad una nuova casta post-sovietica. Personaggi tutti di scarsissimo valore. Spesso usciti dalle caserme della sicurezza (ex Kgb). Ambiziosi che si erano sistemati soprattutto nei gangli delle aziende di Stato.

Il Cremlino scarica così una sfilza di decreti che escludono dai vertici ministri e vice primi ministri dai consigli di amministrazione delle aziende pubbliche.  Si tratta di veri e propri oligarchi che si erano sistemati sotto le ali protettive dell’attuale premier Vladimir Putin. Personaggi accolti bene anche in Italia e introdotti negli ambienti della nostra economia, pubblica e privata.

E parte l’elenco dei nomi. Viene cacciato quel vice primo ministro Igor Sechin (classe 1960) da sempre considerato il braccio destro di Putin e soprannominato “zar del petrolio” ed “eminenza grigia del governo”. Una delle figure più enigmatiche del vertice russo. E via anche Viktor Zubkov, primo vice ministro e presidente di quella piovra economica che si chiama “Gazprom”. Fuori dal Cremlino anche Anatolij Serdyukov, titolare del dicastero della difesa. Viene cacciato senza gli onori delle armi.

Assieme a tutti questi uomini dell’alta nomenclatura vengono colpiti dall’ukaz di Medvedev anche diversi altri personaggi che non possono essere però ricondotti al gruppo dei silovikì, come vengono chiamati gli uomini che provengono dai ministeri «armati», cioè difesa, interno, Fsb (ex Kgb). Tra questi, il ministro delle Finanze Alexei Kudrin una figura estremamente ambigua. Un personaggio legato ai mondi della finanza degli Usa e di Israele.

E mentre il palazzo russo si agita per questi improvvisi cambiamenti ci si interroga sul significato di questi ukaz che hanno tutti il sapore di purghe. Non si è, ovviamente, ad un nuovo Russiagate, quello scandalo che sconvolse il mondo della politica russa e che sembrò destinato ad allargarsi a macchia d'olio, con uno sfondo che andava dalla mafia alla finanza alla nomenclatura del Cremlino.

Ma è certo che si è ad una fase di estrema delicatezza. Proprio perché la mossa di Medvedev anticipa nuove lotte di potere e nuove soluzioni. Si è ad una riedizione di quel “periodo dei torbidi” per la Russia? E cioè quegli anni d’interregno dominati da una anarchia assoluta e così ben narrati dallo storico Karamzin e dal Puskin del “Boris Godunov”?  Si dirà: altre epoche, altri uomini. Ma il Cremlino - con i suoi attuali inquilini - sembra sempre lo stesso.

 


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