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di Carlo Musilli
Il ritiro può cominciare, non c'è più il pericolo che assomigli a una ritirata. Mercoledì sera Barack Obama ha annunciato che entro quest'anno 10mila soldati americani rientreranno dall'Afghanistan. Nel settembre 2012 arriveranno a quota 33mila. A quel punto ne rimarranno 68mila, ma anche loro a poco a poco faranno le valige. Gli ultimi torneranno a casa nel 2014. Nel suo ultimo discorso alla nazione, il presidente degli Stati Uniti non ha nascosto un certo compiacimento: "Abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo dati nel dicembre 2009 mandando più truppe al fronte: spezzare lo slancio dei Talebani e impedire ad Al Qaeda di usare l'Afghanistan come base per nuovi attacchi contro gli Stati Uniti".
Parole degne di uno stratega, ma la verità è che rispetto agli ultimi mesi la situazione nella palude afghana non è cambiata poi molto. Ormai da tempo la minaccia terroristica più seria si è spostata altrove. Gli ultimi tentativi di attacchi sono giunti dal Pakistan, dallo Yemen e perfino dal Corno d'Africa. Quanto alle prospettive di democrazia per il popolo afgano, non si capisce come un eventuale compromesso politico fra il governo Karzai e i Talebani possa essere considerato un successo.
Ma per capire davvero il discorso di Obama bisogna tener conto dell'unico vero fatto epocale della storia recente. Il suo significato, naturalmente, è più che altro simbolico. Parliamo della morte di Osama Bin Laden. L'assalto alla diligenza dei Navy Seals è stato un vero spartiacque psicologico per gli americani, passati dalla percezione obiettiva di uno stallo irrisolvibile alla pretesa irrazionale e retorica di un trionfo compiuto.
Questo scarto decisivo consente oggi al Presidente di salvare la faccia mentre asseconda i capricci dell'opinione pubblica e del Congresso, entrambi esasperati dai problemi economici del Paese. Con la ripresa che implode, la disoccupazione alle stelle e il deficit fuori controllo, poter mettere da parte una delle guerre più inutili e costose della storia (1.000 miliardi di dollari dal 2001, di cui 120 solo quest'anno) è un bel sollievo.
Combattere i terroristi fa bene allo spirito nazionale, ma se le tasche sono vuote bisogna concentrarsi sui problemi di casa. Per questo il 56% dei cittadini Usa è convinto che il ritiro totale dall'Afghanistan debba avvenire il più presto possibile. Lo stesso segretario alla Difesa, Robert Gates, ha ammesso che la decisione di Obama è giunta dopo una riflessione "sulla situazione politica interna". E forse c'entrano qualcosa anche le elezioni presidenziali del 2012.
Era ovvio che il piano di ritiro a tappe forzate suscitasse l'opposizione dei Repubblicani. Dal punto di vista del Presidente, tuttavia, dovrebbe essere ben più preoccupante il contrasto con i maschi Alfa dello U.S. Army. Nessuna insubordinazione, com'è ovvio, ma quando si parla di Esercito americano anche i più piccoli mal di pancia hanno effetti difficili da prevedere.
Il super-generale David Petraeus, comandante uscente della coalizione Isaf e nuovo capo della Cia, ha definito il rientro dei soldati "più rapido di quanto consigliato". Ancora più esplicito il capo di Stato maggiore, l'ammiraglio Mike Mullen: "La decisione del Presidente è più aggressiva e comporta più rischi di quanto io fossi pronto ad accettare" e "il pericolo di disperdere i vantaggi acquisiti nell'ultimo anno contro i Talebani aumenta". Anche perché l'annuncio del ritiro americano ha scatenato un effetto domino internazionale, con Francia e Germania che hanno subito colto la palla al balzo per avviare procedure analoghe.
Di fronte allo scenario che si profila, il più entusiasta di tutti è ovviamente Hamid Karzai. Il Presidente afgano non si è lasciato sfuggire l'occasione per sottolineare come la scelta di Obama rappresenti "il segnale che il governo di Kabul sta assumendo il controllo del Paese". In realtà è rimasto lo stesso esecutivo illegittimo e corrotto di sempre. Quanto alle effettive capacità delle forze armate afgane di mantenere la sicurezza, i dubbi del Pentagono sembrano più che fondati, tanto che nessuno al mondo ha avuto il coraggio di contraddire su quest’aspetto i generali americani. Ma il punto è che ormai Washington deve fare cassa e abdicare al suo ruolo di cane da guardia globale. Cosa comporterà questo per l'Afghanistan lo capiremo solo fra 3-4 anni, quando il sipario a stelle e strisce calerà definitivamente sul Paese.
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di Michele Paris
Con l’ennesima sentenza favorevole ai grandi interessi economici del paese, lunedì scorso la Corte Suprema degli Stati Uniti ha inflitto un colpo mortale ad uno dei pochi strumenti rimasti ai cittadini per contrastare lo strapotere e gli abusi delle corporation. Il supremo tribunale americano ha infatti rigettato una class-action intentata da un milione e mezzo di ex dipendenti del gigante della distribuzione Walmart, accusato di aver sistematicamente messo in atto pratiche discriminatorie nei confronti delle proprie “associate” di sesso femminile.
La gigantesca causa collettiva contro una delle maggiori corporation del pianeta era stata avviata nel 2000. Secondo l’accusa, la specifica politica aziendale promossa dai vertici di Walmart, assieme al comportamento nei singoli mega-negozi dei manager locali, aveva permesso a questi ultimi di prendere decisioni discriminatorie in merito a retribuzioni e promozioni, largamente a favore dei dipendenti maschi.
A conferma di ciò, tra l’altro, ci sarebbe una statistica ricordata da Ruth Baden Ginsburg, uno dei quattro giudici della Corte Suprema che ha votato contro la maggioranza. Nei 3.400 negozi americani di Walmart, cioè, le donne occupano appena il 33 per cento delle posizioni dirigenziali pur rappresentando circa il 70 per cento dei dipendenti con paga oraria.
Il verdetto è stato emesso grazie ad una maggioranza risicata - 5 a 4 - con il voto dei singoli giudici che ha ricalcato la divisione ideologica che caratterizza l’attuale Corte Suprema. Contro la class-action si sono espressi i giudici conservatori, Antonin Scalia, Clarence Thomas, Samuel Alito, Anthony Kennedy e il presidente della Corte, John Roberts; a favore delle dipendenti di Walmart hanno votato invece i più moderati Stephen Breyer, Sonia Sotomayor, Elena Kagan e, appunto, il giudice Ginsburg. All’unanimità, invece, i nove giudici avevano respinto la richiesta di ottenere l’eventuale rimborso per il mancato adeguamento degli stipendi a causa delle discriminazioni di genere.
La Corte Suprema non ha in realtà espresso un giudizio di merito sulle effettive discriminazioni messe in atto da Walmart. Bensì, la sentenza ha negato alle ex dipendenti il diritto di unirsi in un’unica class-action per chiedere a un tribunale di decidere se siano state vittime o meno di pratiche discriminatorie. Nel 2009 una Corte d’Appello federale aveva dato il via libera alla class-action, decisione contro cui i legali di Walmart hanno fatto ricorso al tribunale costituzionale americano.
L’opinione di maggioranza è stata scritta da Antonin Scalia, uno dei giudici più a destra della Corte e fermo sostenitore dei diritti delle corporation. A suo dire, anche solo per garantire alla class-action di procedere, le accusatrici dovevano dimostrare che nei negozi Walmart esisteva una deliberata politica discriminatoria adottata dalla compagnia e che tale politica era imposta ad ogni singolo dirigente locale. Un obiettivo iniziale arduo alla luce delle dimensioni e della complessità di Walmart. I circa 1,5 milioni di casi, inoltre, non sono apparsi sufficientemente simili tra loro per giustificare una class-action.
La class-action consente a un gruppo di persone (“classe”) danneggiate dalle azioni di una corporation, di unire i propri singoli casi in un unico procedimento. Il precedente fissato lunedì dalla sentenza della Corte Suprema nel caso “Wal-Mart Stores contro Dukes”, renderà estremamente complicato nel futuro intentare una class-action contro una grande azienda negli Stati Uniti.
In particolare, la Corte ha stabilito che i giudici dei tribunali americani chiamati a decidere sulla legittimità di una class-action dovranno d’ora in poi considerare preliminarmente il merito delle accuse per verificare che sussistano le condizioni anche solo per avviare una causa collettiva.
A nulla sono serviti per convincere i cinque giudici conservatori le testimonianze portate dall’accusa di numerose ex dipendenti di Walmart che hanno raccontato episodi di ordinaria discriminazione. Per Antonin Scalia queste testimonianze hanno rappresentato soltanto aneddoti isolati, del tutto insignificanti in una class-action di questa portata.
La Corte ha anche scartato lo studio sull’ambiente manageriale nei negozi di Walmart del sociologo William Bielby, il quale aveva messo in luce la condizioni più favorevoli per i dipendenti di sesso maschile. A giudizio della maggioranza della Corte, il gap tra uomini e donne nelle retribuzioni e negli avanzamenti di carriera potrebbe essere spiegato da altri fattori, come ad esempio la carenza di donne sufficientemente qualificate in una specifica realtà locale.
Di fronte ad una delle sentenze più benevole al business a stelle e strisce da parte della Corte Suprema guidata da John Roberts - a sua volta una delle corti più favorevoli agli interessi del capitale privato nella storia americana - alle vittime delle discriminazioni di Walmart non resta che presentare denunce singole o a gruppi più ristretti. Una prospettiva solo teorica in realtà, visto che la maggior parte di esse rinuncerà a procedere contro il colosso di Bentonville, Arkansas. Dopo un decennio di contese legali che non hanno portato a nulla, è improbabile che in molte vorranno accollarsi le spese per sfidare una potente corporation che può permettersi decine di costosi avvocati.
Walmart opera ormai in 15 paesi nei quali gestisce quasi 9 mila negozi. Solo negli USA occupa qualcosa come 1,5 milioni di persone, mentre nel 2010 i suoi profitti hanno toccato i 12,7 miliardi di dollari.
Il successo economico di Walmart è dovuto in gran parte ad una politica tesa a comprimere le retribuzioni di quelli che ipocriticamente vengono definiti “associati”. Da anni Walmart è al centro di aspre polemiche a causa delle pratiche autoritarie e anti-sindacali normalmente adottate.
Il verdetto della Corte Suprema, che restringe in maniera drastica la percorribilità della class-action, è stato accolto comprensibilmente in maniera trionfale dal business americano. Uno degli avvocati che ha discusso il caso per il team legale assoldato dalla Camera di Commercio ha riconosciuto che la sentenza “rappresenta senza dubbio la decisione più importante da più di un decennio a questa parte sulle class-action”.
Di parere opposto sono state ovviamente le reazioni dell’accusa e delle associazioni a difesa dei diritti dei cittadini. A cogliere la portata storica della decisione della Corte è stato uno dei legali delle ex dipendenti Walmart, Joseph Sellers, il quale ha fatto notare come i cinque giudici di maggioranza abbiano “ribaltato 40 anni di giurisprudenza”, che in passato ha permesso a casi collettivi di procedere contro pratiche aziendali comuni messe in atto dalle corporation pur con effetti differenti sui singoli lavoratori coinvolti.
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di Carlo Musilli
Il primato era già loro, ora festeggiano il compleanno. Nei giorni scorsi il Belgio senza governo ha compiuto un anno di vita. Un record assoluto in tempo di pace, che ha consentito al Paese di conquistarsi un posto nell'almanacco della Guinness. Addirittura surclassati gli iracheni, i precedenti detentori del titolo, che dopo l'invasione americana ci avevano messo solo 249 giorni a formare un nuovo esecutivo. Dilettanti.
A ben vedere, quello che sta accadendo a Bruxelles e dintorni sembra basato su una sceneggiatura di Franz Kafka. Tutto è cominciato il 14 giugno 2010, data delle ultime consultazioni politiche. Nelle Fiandre, a nord, vinsero con il 27,8% dei voti i separatisti-nazionalisti della Nuova Alleanza Fiamminga (N-Va), guidati da Bart De Wever.
Tutt'altra storia nel sud vallone e francofono, dove a spuntarla con il 37,6% furono i socialisti dell'italico Elio Di Rupo. Da allora si susseguono negoziati sempre più esasperanti per tentare di mettere in piedi un governo qualsiasi. Niente da fare. Fino ad oggi, solo fumate nere.
L'assurdità sta nel fatto che già un anno fa si era trattato di elezioni anticipate. L'obiettivo, quanto mai paradossale con il senno di poi, era di garantire stabilità a un Paese che aveva visto avvicendarsi tre diversi premier in soli quattro anni. E invece siamo ancora allo stesso punto. Più di dodici mesi con le mani nei capelli.
Durante questo lungo purgatorio, a tenere in mano le redini del Belgio è stato il povero primo ministro uscente, il cristiano-democratico fiammingo Yves Leterme, costretto a rimanere attaccato con le unghie a quella stessa poltrona da cui aveva cercato di scappare. Si era dimesso a soli cinque mesi dall'inizio del suo mandato, dopo una frattura fra i partiti fiamminghi e valloni sulla definizione della circoscrizione elettorale di Bruxelles. Naturalmente, non essendo legittimato dal voto popolare ma solo dall'imbarazzante stallo causato dai suoi colleghi, oggi Leterme non svolge le funzioni di un vero premier, limitandosi all'ordinaria amministrazione.
E in verità non se la cava affatto male: non solo è stato senza problemi presidente di turno dell'Unione europea per sei mesi, ma si è anche assunto la responsabilità di decisioni dal peso specifico rilevante. Ad esempio, la partecipazione attiva alla missione militare in Libia affianco della Nato. Per non parlare dell'economia, che negli ultimi mesi ha fatto segnare dei tassi di crescita sorprendentemente alti (nonostante il deficit sia il terzo più alto di tutta l'Ue, pari al 100% del Pil).
Ma ormai Leterme non ne può più: "Sono costretto a governare il Paese - ha detto sconsolato - mentre gli altri si riposano sugli allori. Questo non è il normale corso delle cose". Secondo lui, invece di puntare al pragmatismo per salvare la faccia, i partiti si lasciano guidare dai sondaggi. Così facendo, il compromesso si allontana sempre di più.
A risolvere la situazione potrebbe essere Di Rupo, che a fine maggio ha ricevuto per la seconda volta un mandato esplorativo da re Alberto II. In teoria, dovrebbe formare un nuovo esecutivo entro fine mese (e se ci riuscisse diventerebbe il primo presidente vallone negli ultimi trent'anni). Certo, i precedenti non incoraggiano: già sette mandati esplorativi, affidati di volta in volta al politico meno improponibile, si sono risolti in altrettanti buchi nell'acqua. A complicare ulteriormente le cose ci si sono messi anche i problemi di salute del socialista, che si è dovuto operare alle corde vocali. Secondo alcuni gli avrebbero fatto male le troppe parole al vento.
Intanto il Belgio è sempre più spaccato a metà, non solo dal punto di vista linguistico. I fiamminghi separatisti delle Fiandre (il 60% della popolazione) guardano con disprezzo al sud vallone e francofono, molto più arretrato e quindi considerato alla stregua di una zavorra, un ostacolo sulla strada dello sviluppo. Se dal nord premono per ottenere una maggiore autonomia federale, i meridionali si oppongono, terrorizzati all'idea che questo sia il primo passo verso la definitiva secessione del Paese. Insomma, il salotto buono dell'Unione europea è un Paese diviso.
Difficile prevedere come si risolverà la crisi. Secondo diverse testate di lingua francese, la prospettiva più probabile è quella di nuove elezioni all'inizio dell'autunno. Il problema è che, secondo i sondaggi, dalle urne uscirebbe un risultato pressoché identico a quello ottenuto nella primavera 2010. E la giostra belga ricomincerebbe a girare.
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di Michele Paris
Dalla scorsa domenica, la guerra contro il regime di Gheddafi viola apertamente il War Powers Act, approvato dal Congresso americano nel 1973 dopo il veto posto dall’allora presidente Nixon. Questa discussa legge era stata votata sull’onda delle polemiche relative agli abusi della loro autorità in merito all’impiego di forze in Vietnam da parte delle amministrazioni Kennedy, Johnson e Nixon. L’intenzione era inoltre quella di fare chiarezza sulle prerogative di Congresso e Presidente. Secondo la Costituzione americana, è il primo ad avere il potere di dichiarare guerra, anche se il secondo è il comandante in capo delle forze armate.
Il War Powers Act stabilisce che una guerra decisa dal Presidente debba ottenere l’approvazione da parte del Congresso entro 60 giorni dall’inizio delle ostilità. In caso contrario, la Casa Bianca ha altri 30 giorni di tempo per ritirare le forze armate dal conflitto. L’inizio dei bombardamenti americani e della NATO sulla Libia sono iniziati il 20 marzo. Due mesi sono poi trascorsi senza che l’amministrazione Obama chiedesse al Congresso di esprimersi sul conflitto. Gli ulteriori 30 giorni per la teorica cessazione delle ostilità sono infine scaduti il 19 giugno scorso.
Queste le ragioni per le quali attorno all’intervento americano in Libia, da qualche settimana a Washington sta infuriando un grave conflitto tra la Casa Bianca e il Congresso. Lo scontro tra i potere esecutivo e legislativo negli Stati Uniti sta facendo riemergere l’annosa disputa su quale organo detenga l’autorità di dichiarare guerra. Esploso già all’epoca dell’intervento in Vietnam, il dibattito è tornato d’attualità in seguito all’aggressione della Libia, diventata di fatto illegale secondo la stessa legge americana.
Nel silenzio pressoché totale sul vero carattere della guerra in Libia, il Congresso americano ha così iniziato a mettere in discussione la legittimità dell’intervento voluto da Obama. A inizio mese, il deputato democratico dell’Ohio Dennis Kucinich aveva presentato una risoluzione alla Camera dei Rappresentanti che imponeva il ritiro entro 15 giorni delle forze USA dalle basi da cui partono le incursioni sul territorio libico.
Per timore che la maggioranza dei parlamentari repubblicani appoggiasse la mozione Kucinich, lo speaker della Camera, John Boehner, aveva allora messo assieme in fretta e furia una propria risoluzione che si limitava a criticare Obama per non aver notificato al Congresso la decisione di attaccare la Libia. Nonostante alcuni repubblicani abbiano comunque votato per il testo proposto da Kucinich, la mozione di quest’ultimo non è stata approvata, mentre è andata a buon fine quella della leadership della Camera.
Lo stesso deputato progressista dell’Ohio non si è dato però per vinto, tanto che settimana scorsa ha portato avanti altre due iniziative. Da una parte, assieme a dieci altri colleghi democratici e repubblicani, ha aperto un procedimento legale contro l’amministrazione Obama per mettere fine al conflitto, e dall’altra ha presentato una nuova proposta alla Camera per tagliare i fondi destinati alle operazioni in Nord Africa.
La posizione ufficiale della Casa Bianca è stata infine chiarita la scorsa settimana con un rapporto di 38 pagine trasmesso al Congresso. Il Presidente non sarebbe in violazione del War Powers Act poiché semplicemente in Libia gli Stati Uniti non sarebbero coinvolti in “ostilità” come sono definite dalla stessa legge del 1973.
Per Obama cioè le operazioni condotte contro il regime di Gheddafi non comprendono “battaglie persistenti” o “intensi scontri a fuoco” con forze ostili. Allo stesso modo, non vengono impiegate forze di terra, non ci sono vittime americane, non sussistono rischi reali per l’incolumità dei militari e, soprattutto, l’intera operazione viene condotta per scopi “umanitari” sotto il mandato dell’ONU.
Alla luce delle conseguenze causate dalle oltre 11 mila incursioni operate finora sulla Libia da parte della NATO, l’interpretazione sostenuta dalla Casa Bianca appare del tutto insostenibile. Secondo la logica proposta da Obama, poi, un qualsiasi attacco contro forze incapaci di opporre resistenza non rientrerebbe nella definizione di guerra affermata dal War Powers Act e permetterebbe quindi al Presidente statunitense di condurre operazioni militari devastanti senza il controllo o l’approvazione del Congresso.
Inoltre, per i consiglieri legali della Casa Bianca le attività belliche americane sarebbero in ogni caso cessate il 7 aprile, quando gli USA hanno formalmente ceduto il comando delle operazioni alla NATO. Da allora le forze statunitensi svolgerebbero solo attività di supporto. Poco importa poi se gli americani, oltre a continuare a partecipare ai bombardamenti sulla Libia, esercitano un controllo quasi assoluto sull’Alleanza Atlantica
Il chiarimento fornito da Obama sulla conformità dell’impresa libica al War Powers Act è il frutto di posizioni divergenti tra i consulenti legali all’interno della sua amministrazione. Come ha rivelato qualche giorno fa il New York Times, il presidente democratico - già docente di diritto costituzionale - avrebbe apertamente respinto il parere dei consiglieri legali del Pentagono e del Dipartimento di Giustizia, rispettivamente Jeh C. Johnson e Caroline D. Krass. A prevalere è stata piuttosto l’opinione del consigliere della Casa Bianca Robert Bauer e del Dipartimento di Stato Harold H. Koh, ex docente di diritto a Yale e acceso critico dell’espansione dei poteri dell’esecutivo avvenuta durante l’amministrazione Bush.
Se anche il Presidente ha la piena facoltà di respingere l’opinione dell’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia, ciò avviene in realtà piuttosto raramente. Il comportamento di Obama, soprattutto, evidenzia un’evoluzione preoccupante da parte della sua amministrazione. Nella decisione di aggredire la Libia - ma anche di condurre operazioni militari in Pakistan o in Yemen - il Presidente non ha infatti sentito la necessità di ottenere il consenso del Congresso, cosa che lo stesso George W. Bush si era invece premurato di fare sia per l’avventura in Afghanistan che per quella in Iraq.
Sul potere di dichiarare guerra la contesa tra Congresso e Casa Bianca è d’altra parte di lunga data. Dall’approvazione nel 1973, il War Powers Act è stato messo in discussione da molti presidenti, anche se nessuno è mai giunto a contestarne la costituzionalità. Il Dipartimento di Giustizia nel 1980 concluse che era piena facoltà del Congresso di imporre tali limiti alle guerre intraprese dai presidenti. A questa conclusione ha fatto riferimento anche l’amministrazione Obama, la quale ha in definitiva soltanto sostenuto che il conflitto in Libia non può essere definito una vera e propria guerra e perciò non rientra nelle competenze del War Powers Act.
L’anomalia di un presidente democratico che afferma un così significativo allargamento delle prerogative dell’esecutivo di fronte alle preoccupazioni di una Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana non è sfuggita nemmeno ai giornali liberal vicini ad Obama.
Tale posizione della Casa Bianca ha esposto il Presidente addirittura alle critiche di esponenti dell’amministrazione Bush, come l’ex direttore dell’Ufficio dei Consiglieri Legali presso il Dipartimento di Giustizia, Jack Goldsmith, il quale ha affermato che il principio enunciato da Obama fissa un pericoloso precedente per future guerre da scatenare senza autorizzazione del Congresso.
Le critiche rivolte dai parlamentari, soprattutto repubblicani, alla Casa Bianca sull’intervento in Libia non sono peraltro dettate dalla loro opposizione ad una guerra condotta in nome di un falso scrupolo umanitario. Le accuse a Obama, oltre a essere strumentalizzate per convenienza politica, vengono mosse esclusivamente sulla base di un conflitto di competenze. Ciò è evidente dal fatto che i repubblicani non hanno per il momento affondato gli attacchi contro Obama per non mettere a repentaglio un’operazione militare i cui obiettivi essi stessi condividono in pieno.
Sul fronte democratico invece, a parte alcuni parlamentari progressisti, ci si appiattisce per lo più sulle posizioni sostenute dal Presidente o, al limite, si critica la Casa Bianca per non aver chiesto l’approvazione del Congresso che sarebbe verosimilmente arrivata senza troppe difficoltà. In questo quadro ciò che inquieta maggiormente è però l’assordante silenzio di un movimento pacifista - simile a quello esploso nel 2003 alla vigilia dell’invasione dell’Iraq - che condanni l’aggressione contro la Libia in quanto tale al di là delle formalità costituzionali sul potere di emettere una dichiarazione di guerra.
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di Eugenio Roscini Vitali
Tra Egitto e Israele sale la tensione da quando le autorità del Cairo hanno annunciano l’arresto di un israeliano sospettato di essere un agente del Mossad, accusato di avere partecipato alle proteste di piazza Tahrir e di aver incitato la folla ad atti vandalici. Fermato il 12 giugno scorso, Ilan Grapel, questo il nome dell’ex ufficiale della 101 Unità paracadutisti delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), è stato sottoposto a custodia cautelare per quindici giorni; il procuratore sarebbe in possesso di testimonianze che lo collegherebbero ai violenti incidenti interreligiosi che a maggio hanno infiammato il quartiere popolare di Embaba, ad ovest del Cairo.
In quell’occasione un gruppo di ultraconservatori salafiti aveva assaltato e dato alle fiamme la chiesa copta della Vergine Maria e alcune case vicine; gli estremisti avevano raggiunto l’area affermando che una giovane donna sposata con un musulmano era tenuta in ostaggio dalla comunità cristiana. Gli incidenti erano poi proseguiti davanti alla televisione di Stato e solo dopo alcune ore le forze dell’ordine erano riuscite a riportare la situazione sotto controllo; pesante il bilancio delle violenze, con nove morti e oltre 180 feriti. Secondo fonti israeliane, subito dopo l’arresto di Grapel le autorità egiziane avrebbero inoltre accusato i servizi segreti di Tel Aviv di aver ordito un tentativo di avvelenamento ai danni di un’azienda cipriota che produce pomodori venduti in Egitto.
Le autorità israeliane negano che l’uomo sia un agente dello Stato ebraico ed affermano di non essere state informate dell’arresto di alcun cittadino israeliano, ma le foto, pubblicate con grande risalto dai quotidiani egiziani al-Ahram e al-Akhar, ritrarrebbero Grapel, israeliano con cittadinanza americana, in divisa e mentre manifesta in piazza Tahrir e mentre visita una moschea e alcuni luoghi turistici. Sempre secondo i media egiziani, nel 2006 la presunta spia, di cui esisterebbero due profili Facebook in arabo e nessuno in ebraico, avrebbe partecipato alla guerra in Libano.
Per l’ex ministro della Difesa israeliana, Benjamin Ben-Eliezer, le accuse sono ridicole, “roba da dilettanti” che il Cairo userebbe come un pretesto per spostare l’attenzione da problematiche più serie e dimostrare agli egiziani di avere sotto controllo la situazione. Concorde parte della stampa israeliana che ipotizza un tentativo egiziano di animare un sentimento antiebraico per evitare che il popolo, deluso dagli scarsi cambiamenti messi in essere, possa tornare in piazza e scatenare una nuova ondata di protesta.
Parlando dalla sua casa nel Queens, New York, il padre della presunta spia, Daniel Grapel, ha detto che il figlio, studente in legge alla Emory University School di Atlanta, Georgia, si sarebbe recato in Egitto per completare un programma di studi che avrebbe avuto termine alla fine di agosto, data prevista per il rientro negli Stati Uniti. Nei primi report pubblicati dalla stampa egiziana l’ex ufficiale dei parà era stato descritto come l’inviato speciale di un giornale americano che si trovava in Egitto nelle per mantenere contatti con un gruppo di reporter stranieri e misurare le reazione dell’opinione pubblica alle dimissioni del presidente Mubarak e al contemporaneo passaggio dei poteri al Consiglio Supremo delle forze armate.
Tra gli analisti occidentali c’è chi sospetta che per ora le autorità egiziane abbiano trovato più conveniente “trovare” una spia del Mossad anziché intraprendere altre strade; si sospetta infatti che Ilan Grapel potesse lavorare sotto copertura per un altro paese. Secondo una delle ipotesi più accreditate, al momento dell’arresto l’ex ufficiale dell’IDF era diretto in Libia; superata la frontiera si sarebbe poi unito ai ribelli anti Gheddafi.
Da un report pubblicato da al-Ahram risulta che l’ufficiale sarebbe entrato in Egitto l’11 febbraio 2011 con un volo diretto da Francoforte; il 15 dello stesso mese avrebbe lasciato il Cairo per farvi ritorno il 10 maggio. A febbraio, prima di raggiungere la capitale egiziana, Grapel si sarebbe recato nel sud del Paese per incontrasi con un con gruppo di persone, alcune delle quali europee.
Il caso Grapel si apre in un momento di estrema tensione tra i due Paesi: il nuovo clima di cooperazione fra il Cairo ed Hamas e la riapertura a tempo pieno - sei giorni la settimana - del valico di Rafah preoccupa Tel Aviv che considera il ripristino del transito delle merci fra il Sinai e la Striscia una minaccia per la sicurezza regionale. L’apprensione è giustificata dal fatto che gli uomini di Abu Mazen e gli osservatori internazionali non hanno ancora preso il controllo doganale della frontiera e questo non accadrà fin quando non verrà trovato un accordo tra i gruppi che formano il nuovo governo palestinese di unità nazionale.
Intanto fonti militari israeliane hanno rivelato che con l’attuale arsenale a disposizione - circa 10 mila razzi, con un incremento che negli ultimi mesi è pari a più di 30 vettori alla settimana - l’ala militare di Hamas sarebbe in grado di lanciare su Israele 150 missili al giorno per oltre due mesi; il flusso di armi comprenderebbe anche sistemi anti-carro e missili anti-aerei, nonché centinaia di i vettori contrabbandati dalla Libia.