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di Emanuela Pessina
BERLINO. Quattro settimane dopo le elezioni regionali della città-stato di Amburgo (Nord), la Germania ha chiamato al voto anche il Land della Sassonia- Anhalt (Nord-Est), una delle regioni più povere del Paese. Sono le prime elezioni regionali dalla recente catastrofe atomica in Giappone e, come previsto, non hanno mancato di farsi sentire gli effetti del dopo- Fukushima: bocciata la politica poco risoluta della Cancelliera Angela Merkel, che aveva reagito sospendendo per tre mesi l’attività delle centrali nucleari, mentre sono i Verdi, con la loro politica di energia rinnovabile, a registrare il miglioramento più significativo.
Le proiezioni vedono imporsi, come primo partito, la CDU di Angela Merkel con il 33% dei voti, una percentuale che sancisce, per i cristiano-democratici, una perdita netta di tre seggi rispetto al 2006. In caso di conferma dei risultati, la CDU dovrà affidarsi nuovamente a un governo di “grande coalizione” con i socialdemocratici (SPD), che hanno registrato un esito praticamente invariato rispetto alle precedenti regionali (21,5%).
Non perde quota l’estrema sinistra (Die Linke), che si riconferma come seconda forza politica nella regione (23,5%), ma che probabilmente non entrerà a far parte delle forze di governo: come già nel 2006, i socialdemocratici hanno escluso un’alleanza con l’estrema sinistra a guida del governo regionale. Capitombolo invece per i liberali del vicecancelliere e ministro degli Esteri Guido Westerwelle, che rischiano di rimanere esclusi dalla dieta regionale e sembrano destinati a scontare più di tutti l’impopolarità delle scelte del Governo federale.
A marcare l’atmosfera in Sassonia-Anhalt, come da previsioni, è stata comunque la recente catastrofe nucleare di Fukushima, che ha assicurato il successo ai Verdi. Il partito, che non faceva parte del parlamento regionale della Sassonia-Anhalt da ben tredici anni, si è aggiudicato, secondo i primi exit pool, ben 7 seggi. Un avanzamento che non sorprende: la catastrofe nucleare giapponese ha riaperto in Germania un aspro dibattito sull’energia atomica, generando una nuova sensibilità nella popolazione, e i Verdi, finora, hanno offerto la prospettiva più sicura contro la paura del rischio atomico.
Fukushima costituisce “una catastrofe di dimensioni bibliche” e deve “segnare la fine dell’era atomica”, ha ammonito senza esitazione il capo dei Verdi Cem Oezdemir, e ha sfidato la Germania a “mostrare agli altri Paesi industrializzati come si passa alle energie rinnovabili”. Proponendo di abbandonare concretamente l’energia nucleare entro il 2017, i Verdi hanno riscosso la fiducia e l’applauso degli elettori anche in Sassonia-Anhalt, una regione da sempre a loro poco favorevole dove, tra l’altro, non ci sono centrali nucleari e dove i problemi quotidiani sono ben altri.
La situazione economica della Sassonia- Anhalt non è delle più brillanti: con i suoi 22,6 miliardi di euro di debiti, il Land detiene il record di indebitamento tra le regioni dell’ex- Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Una recente riforma federale, tra l’altro, ha introdotto severe regole fiscali per porre fine al deficit delle regioni meno forti, tra cui il cosiddetto “freno all'indebitamento", che proibisce agli Stati federali di contrarre altri debiti per finanziare il proprio bilancio e prevede l’annullamento totale del debito federale entro il 2020.
Le statistiche parlano di un’altissima emigrazione giovanile e di un conseguente invecchiamento della popolazione che non lasciano spazio all’ottimismo da un punto di vista produttivo. Alla riconfermata “grande coalizione” spetta ora il compito di portare avanti un processo di risanamento già avviato ma difficile.
Con i suoi 2 milioni di abitanti, la Sassonia- Anhalt costituisce il 3% della popolazione totale e ha un peso pari al 6% nel Bundesrat, il Consiglio federale tedesco, che ha il compito, assieme al Bundestag, il Parlamento federale, di approvare le riforme prima che possano entrare in vigore. I risultati delle elezioni in Sassonia-Anhalt non vanno a variare gli equilibri a livello federale, dove la coalizione di centro-destra della Cancelliera Angela Merkel mantiene la propria posizione i maggioranza, seppur idealmente indebolita.
Più decisivo sarà invece l’appuntamento di settimana prossima, con le elezioni nel Baden-Wuerttemberg: dopo la sconfitta del mese scorso nella città-stato di Amburgo e alla luce del dibattito sull’energia nucleare, i sondaggi non lasciano presagire nulla di buono per le forze di centro- destra della Cancelliera, che potrebbero trovarsi di fronte a una nuova situazione alquanto traballante.
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di Fabrizio Casari
Com’era facile prevedere, la Risoluzione dell’Onu sulla “No fly zone” era fumo negli occhi destinato solo a strappare l’astensione di Cina e Russia. Quella che si preparava era una vera e propria guerra alla Libia, e così è stato. Nessun pattugliamento dei cieli, nessuna sicurezza per le popolazioni a terra: missili Tomawack e Cruise sganciati da navi e sottomarini al largo della Sirte, raid aerei operati dai Mirage francesi e F16 britannici, hanno celebrato il battesimo dell’operazione “Odissea all’alba”.
I morti sono già a centinaia, il paese conta già la sua razione non richiesta di distruzione e orrore: i famosi diritti umani che si dovevano tutelare possono essere identificati nella chirurgia delle bombe, che colpiranno aereoporti, case, scuole ed ospedali, ma che lasceranno intatti i pozzi e gli acquedotti. Le vittime di ieri, da domani cambieranno nome: diventeranno "effetti collaterali".
Rispetto alle guerre di questi ultimi anni va registrato un ruolo diverso da parte degli Stati Uniti, che dirigono sì militarmente le operazioni compiute dalle forze Nato, ma politicamente il ruolo più importante è quello di Parigi, con Londra al seguito e Washington a dare copertura politica all’operazione. L’iper attivismo di Parigi nella crisi libica non ha niente a che vedere con i diritti umani, com’è ovvio. Con la caduta di Ben Alì, la Francia ha perso un alleato fedele, un servitore attento alle esigenze di controllo politico francese sul Maghreb francofono e la stessa situazione complicata in Algeria potrebbe presto portare a dover conteggiare due perdite significative nell’area, due pedine fondamentali dello scacchiere coloniale francese. E la Libia è sembrata un’ottima alternativa.
Parigi ha scelto quindi d’intervenire pesantemente sin dall’inizio della rivolta senussita in Cirenaica: la sua strategia era chiara, voleva la guerra e l’ha ottenuta. E proprio in funzione di ciò, e per candidarsi alla leadership politica dell’operazione, Parigi è stata la prima e unica capitale a riconoscere come interlocutore politico gli insorti, bruciando i tempi e senza minimamente guardare per il sottile alla composizione effettiva degli stessi.
Perché chi siano e cosa vogliono i rivoltosi, per la Francia non è importante: quello che conta è la cacciata di Gheddafi, ingombrante finanziatore della campagna elettorale di Sarkozy ma leader inaffidabile, comunque non disposto a permettere alla Francia di divenire il partner strategico della Libia, dati anche i rapporti con Roma che avevano trasformato il rais, un tempo definito in Occidente il “pazzo di Tripoli” e dall’Africa considerato un pagliaccio, in un personaggio rispettato e osannato.
Gheddafi, da Parigi, altro non voleva che quello che aveva: il consolidamento dei buoni rapporti economici bilaterali e buone relazioni con la confinante Tunisia, ma nessuna penetrazione eccessiva in Libia; vuoi perché Parigi sa essere molto meno servile verso i suoi interlocutori, vuoi perché il patto con l’Italia aveva anche il suggello di un trattato politico che comprendeva business ed interessi reciproci quasi esclusivi con Roma.
Ma la congiuntura maghrebina, ha scatenato la Francia nella rincorsa a posizioni alternative che compensassero le perdite tunisine. Mai stata in grado di mettere le mani sugli Emirati, fuori dal controllo del petrolio iracheno e lontana da quello iraniano, Parigi ha bisogno di entrare nella nuova dimensione coloniale proprio attraverso i rubinetti del greggio. Sarkozy ha individuato nella Libia il luogo ideale: petrolio e dimensione territoriale ampia a fronte di demografia relativamente bassa, sbocco diretto sul Mediterraneo e infrastrutture estrattive di buona qualità. Dunque, gli insorti sono stati soprattutto un regalo che la congiuntura politica interna alla Libia ha offerto alla campagna elettorale di Sarkozy e alle aziende francesi del comparto energetico, dalle quali il piccoletto dell’Eliseo dipende in tutto e per tutto.
Saranno infatti la Total e la Elf, nei piani dell’Eliseo, a sostituire l’Eni nel partenariato con la Libia futura. La tragedia giapponese, peraltro, ha ulteriormente accentuato la necessità di Parigi di dotarsi di un ulteriore fonte di approvvigionamento energetico, visto che lo stesso nucleare francese - nonostante sia proprio l’Italia ad affidarvisi in prospettiva - segna il passo.
Abbastanza simile il discorso riguardo a Londra. Il disastro del Golfo del Messico ad opera della British Petroleum ha visto ridurre pesantemente l’appeal della multinazionale inglese. Altri territori per nuovi pozzi sono fondamentali per recuperare il terreno perso e la possibilità di operare in un’area del mondo dove, dalla cacciata ad opera proprio del colpo di Stato del 1969, quando gli inglesi furono cacciati dagli ufficiali guidati da Gheddafi, non c’erano più state condizioni possibili per accrescere l’influenza e il business di Londra. D’altro canto, la storia britannica in Medio Oriente, dal 1948 in Palestina al 1956 a Suez e poi, appunto, al 1969 in Libia, è stata una storia pesante d’ingerenze, senza che però queste abbiano mai sancito una leadership britannica sull’area. Occasione migliore di questa, dunque, per Londra era difficile da immaginare. La BP e la Shell aspettano. E la nuova leadership di Cameron ha un disperato bisogno di accreditarsi, Oltremanica come a livello globale.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, va registrato un impegno forte sia dal punto di vista politico nella richiesta prima di dimissioni di Gheddafi, poi di uso della forza contro lo stesso; ma sembra potersi delineare un profilo diverso, meno marcato di quello assunto per l’Iraq e l’Afghanistan. Perché per gli interessi geostrategici statunitensi non tutto pesa allo stesso modo. Ovviamente non è nemmeno possibile ipotizzare un’operazione militare Nato che nasca senza il consenso di Washington e della quale il Pentagono non ne abbia il comando di fatto, dunque la sua centralità nella preparazione politico-diplomatica della guerra e nella sua conduzione non è certo in discussione.
Obama, del resto, in comune con Sarkozy e Cameron, vive una situazione politica interna difficile e si trova a poca distanza, ormai, da una scadenza elettorale che minaccia di essere un verdetto inappellabile. Essere ostaggio della maggioranza repubblicana al Congresso e al Senato sui temi economici e sociali non basta per tentare l’operazione di recupero; la politica estera è fondamentale per dare un segno di continuità storica con i suoi predecessori e inviare un segnale forte al complesso militar-industriale. E anche per quanto riguarda il consenso popolare mainstream, una guerra per un presidente USA è sempre un’ottima occasione per trasformarsi da politicante a capo della nazione: il riflesso elettorale positivo è garantito.
Ma la sensazione è che gli Usa, diversamente da altri scenari, siano disposti a contrattare con Parigi (con cui non sempre la vison è comune), la leadership e il bottino di guerra. Per le spese, ci penseranno invece i sauditi, come già per la prima guerra del Golfo. Perché Obama presidente può anche rivelarsi tutt’altro rispetto all’Obama candidato; può anche promettere di uscire da una delle due guerre in campagna elettorale e poi invece mantenerle e, anzi, aprirne una terza arrivato alla Casa Bianca. Ma il suo sistema di valori tutto può prevedere tranne il non tenere nella debita considerazione quelli veri, che risiedono a Wall Street.
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di Carlo Musilli
Mentre gli occhi dell'Europa sono puntati sulla Libia, un altro pezzo di Medio Oriente va a fuoco. A Sana'a, capitale dello Yemen, soltanto venerdì scorso sono morte oltre 40 persone, secondo alcune fonti 72. Circa 400 i feriti. La polizia ha sparato sulla folla riunita in Piazza del Cambiamento, nel centro della città. A premere il grilletto, probabilmente, anche alcuni miliziani in abiti civili, fedeli al governo. Gran parte del massacro è stato opera di cecchini appostati sui tetti.
Occasione dello scontro è stata la manifestazione ribattezzata "Venerdì dell'Avvertimento", organizzata dalla coalizione anti-regime che ormai da tempo chiede le dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh, in carica da 32 anni. Come una sorta di parodia, i lealisti (molti dei quali armati) avevano organizzato una contro-manifestazione, il "Venerdì della Concordia".
La battaglia è proseguita ieri. Decine di migliaia di persone sono scese ancora una volta in piazza a Sana'a, secondo quanto riportato dall'agenzia tedesca Dpa. Scontri anche ad Aden, nel sud del Paese. Qui la protesta si spiega principalmente con la volontà di secessione della provincia meridionale dal resto del Paese. Anche in questo caso la polizia ha sparato sui manifestanti. Un primo bilancio parla di quattro feriti.
Ma il dispotismo di Saleh e la causa indipendentista del sud non sono le uniche ragioni del nuovo scenario yemenita. La protesta è cominciata lo scorso 12 febbraio, quando migliaia di studenti e membri della società civile si sono riuniti in un sit-in permanente nell'università di Sana'a. Spronati dall'esempio della sollevazione tunisina, hanno iniziato a credere nella possibilità di conquistare migliori condizioni di vita.
Ad oggi, la disoccupazione nello Yemen è fissa al 35% e quasi la metà della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Il sistema politico una volta era considerato l'unico esempio di democrazia nella Penisola Arabica, ma ben presto è degenerato in un regime monopartitico e corrotto. L'opposizione formalmente esiste, ma è debolissima e non ha alcun margine d'azione.
Sempre a febbraio sono iniziate le prime grandi manifestazioni nella Capitale e ad Aden, che hanno portato con sé anche le prime vittime. Da allora, ogni giorno nel Paese si susseguono marce di protesta contro Saleh. L'opposizione al regime ha trovato appoggio non solo nel movimento secessionista, ma anche nelle due più potenti confederazioni tribali yemenite, la Hashed e la Baquil. Come estremo tentativo di evitare la mattanza, le forze anti-regime e i veritici religiosi islamici avevano proposto a Saleh un piano che prevedeva la sua graduale uscita di scena entro il 2011. Naturalmente hanno incassato un secco rifiuto.
Venerdì il presidente dello Yemen ha dichiarato lo stato d'emergenza, che durerà 30 giorno. Saleh ha anche espresso "rincrescimento" per l'uccisione dei manifestanti, considerati "martiri della democrazia", e ha annunciato l'istituzione di una commissione di inchiesta per accertare le circostanze degli omicidi. Peccato che poi abbia rivisto queste posizioni tardivamente concilianti: "La polizia non era presente e non ha aperto il fuoco - ha detto in conferenza stampa - gli scontri sono avvenuti tra cittadini e manifestanti. E' evidente che fra questi ultimi ci sono degli elementi armati". Il presidente ha anche assicurato che non si ricandiderà alle elezioni del 2013, ma per i prossimi due anni difenderà il suo potere "fino all'ultima goccia di sangue".
A livello internazionale, l'escalation nello Yemen preoccupa soprattutto gli Stati Uniti. Barack Obama, come da copione, ha espresso una "ferma condanna" delle violenze, invitando Saleh a "rispettare il suo pubblico impegno di consentire manifestazioni pacifiche". Nonostante le dichiarazioni di rito a favore di chi scende in piazza per la democrazia, l'instabilità dell'area preoccupa il presidente americano molto più della causa per i diritti civili. Nello Yemen, infatti, agisce la più attiva fra tutte le diramazioni di Al Qaeda. Fino ad oggi il regime del Paese era stato un prezioso alleato nella lotta contro il terrorismo, ricevendo da Washington una grande quantità di aiuti militari.
Difficile prevedere quello che potrebbe succedere dopo un'eventuale caduta di Saleh. La causa dell'opposizione al presidente è stata fin qui in grado di tenere uniti gruppi assai eterogenei, che in altre circostanze sarebbero stati in contrasto fra loro. Quella dello Yemen è una società tribale e ogni fazione chiede le dimissioni del presidente per ragioni diverse. Il capo della più importante confederazione tribale del Paese, Hamid al-Hamar, dopo aver aderito alla protesta nata dagli studenti, si è proposto come successore di Saleh. Il problema è che per molti yemeniti alternative di questo tipo non sono accettabili. Non ci sarebbe infatti alcuna frattura rispetto alla logica politica tradizionalmente sperimentata.
E i separatisti del sud? E' davvero difficile sperare in un futuro di pace e democrazia per lo Yemen, se si pensa che una parte significativa dell'opposizione al regime è costituita proprio dal movimento secessionista. Cacciare Saleh non basterà, non sarà la fine della violenza. Gli analisti sono più che indecisi su quale possa essere il futuro del Paese se alla fine il regime cadrà davvero. Alcuni parlano genericamente di una "lunga fase d’instabilità politica". Altri di una guerra civile prolungata.
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di Fabrizio Casari
Con voti entusiastici di alcuni ed astensioni con mal di pancia di altri, l’Onu ha votato la risoluzione che autorizza l’intervento militare occidentale in Libia. In teoria, quella approvata al palazzo di Vetro sarebbe solo la richiesta di applicazione della “No fly zone”, ma la sostanza è decisamente diversa. Quello che infatti si capisce, sia dal testo della risoluzione che dalle reazioni politiche successiva, è che la “No fly zone” non sarà quello che la sigla indica, cioè il divieto di sorvolo della zona sotto copertura della risoluzione; non sarà, cioè, un’operazione di pattugliamento armato dei cieli destinata ad impedire che i caccia libici bombardino Bengasi, ma ben più e ben altro.
I caccia di Francia e Gran Bretagna, Stati Uniti e un paio di emirati satelliti faranno ben altro: attaccheranno le truppe di terra del regime libico per favorire la controffensiva di quelle dell’opposizione monarchica che, nonostante l’aiuto egiziano e occidentale, non solo non erano riusciti ad arrivare a Tripoli, ma stavano per capitolare di fronte alla controffensiva lealista.
Per rimuovere gli ultimi ostacoli all’interno del Consiglio di Sicurezza per il voto sulla mozione sono stati determinanti due aspetti: l’impegno a non utilizzare truppe di terra e le minacce di Gheddafi all’universo mondo. Per Mosca e Pechino il problema era tutto politico: stabilire che a fronte di una crisi politica interna che assume risvolti militari, la comunità internazionale possa prendere parte direttamente alle ostilità, ad evitare l’abuso della forza da parte dei governi, è un precedente pericoloso. Cecenia e Tibet, oltre che il Mar della Cina, sono zone nelle quali potrebbe riproporsi un conflitto di natura simile a quello libico.
Contemporaneamente, però, l’isolamento internazionale di fronte ad una risoluzione che non era il frutto dell’interventismo unilaterale della Nato, ma una richiesta di molti dei paesi membri delle Nazioni Unite, avrebbe esposto Russia e Cina ad aspre critiche e, soprattutto, ad accostamenti d’immagine con Gheddafi dall’insidioso sapore mediatico.
D’altra parte, in precedenza, i due paesi avevano annunciato l’intenzione di porre il diritto di veto in sede di Consiglio, non potendo condividere l’idea ipocrita della “guerra umanitaria”. Si trattava, dunque, per i due paesi, di trovare una via d’uscita che riducesse al minimo le possibilità di ampliamento dell’intervento militare internazionale e, con esso, l’impraticabilità di riprodurlo in modo più ampio per altri scenari.
Il divieto d’intraprendere operazioni di terra, cioè sbarco di truppe sul suolo libico, è stato il punto di mediazione offerto da un Occidente che ha vinto la partita a scacchi nel palazzo di Vetro. Non ci pensavano minimamente, infatti, Washington, Parigi e Londra, ad inviare truppe a terra: ma tanto è stato messo nero su bianco per permettere a Cina e Russia di recitare la parte di chi sì è distinto e, con una mediazione, si è reso coprotagonista di una risoluzione Onu, invece che di subirla.
Questa la mediazione. E d’altra parte, se ci fossero state ancora resistenze da parte di Mosca e Pechino, a togliere definitivamente ogni dubbio ci ha pensato Gheddafi.
Infatti, mentre il Consiglio di Sicurezza si riuniva, il raìs libico si esibiva in minacce truculente contro gli insorti e contro ogni paese e Cina e Russia, infatti, hanno scelto di astenersi per far passare la risoluzione. Annunciando “nessuna pietà per i vinti”, Gheddafi ha inevitabilmente accelerato l’urgenza politica della risoluzione. Errore grave, soprattutto se è vero che in poche ore la controffensiva militare delle sue truppe avrebbe riconquistato Bengasi.
Il leader libico ha annunciato il "cessate il fuoco" in adempimento alla risoluzione dell'Onu, ma Francia, Gb e Usa non si fidano. La decisione appare un tentativo di riaprire i giochi, ma non é detto che, giunti a questo punto, sia sufficiente. Al rais sarebbero state necessarie ore e a Mosca e Pechino avrebbero potuto scegliere di temporeggiare. Ancora una volta, però, Gheddafi si è confermato fanfarone e incapace della dose minima di abilità politica. Il “Generale Tempo”, come avevamo già detto, ha avuto la meglio sul Colonnello.
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di Eugenio Roscini Vitali
Riproponendo alcuni passi di un articolo del direttore del progetto per lo studio dell’Islam e del mondo musulmano, Reuven Paz, pubblicato nel 2001 dal Washington Institute for Near East Policy, il Jerusalem Post descrive lo sceicco Yusuf Al Qaradawi come “un uomo per tutte le stagioni”, un religioso dalle dichiarazioni contraddittorie che condanna l’11 Settembre e la strage di Bali, che nel 2008 definisce gli ebrei affiliati alla setta Neturei Karta, il gruppo che in nome di una propria interpretazione della Torah e del Talmud rifiuta l’autorità e l’esistenza dello Stato di Israele, come credenti vicini al mondo musulmano.
Ma è lo stesso sceicco che, a pochi mesi di distanza, in una trasmissione ospitata dalla rete satellitare Al-Jazeera, da un’interpretazione agghiacciante della storia e parla dell’Olocausto come una di punizione divina: «Allah ha imposto Hitler sugli ebrei per punirli, e se Allah lo vuole, la prossima volta, sarà per mano dei Credenti». Due facce della stessa medaglia quindi, che ritroviamo nelle parole di altri ideologi del più grande e vecchio movimento islamico del mondo, la Società dei fratelli musulmani, l’organizzazione politico-religiosa nata nel marzo del 1928 come opposizione alle storiche tendenze secolaristiche delle nazioni islamiche.
Guida spirituale dei Fratelli musulmani, Yusuf Al Qaradawi si proclama un conservatore moderato, un ideologo capace di riprendersi la scena dopo quasi cinquant’anni di esilio e di penetrare nelle pieghe della società, parlando agli egiziani come alle comunità degli immigrati islamici in occidente. Attraverso la Da’wa, il proselitismo e la propaganda, Al Qaradawi ha contribuito in maniera determinante al successo politico di un’organizzazione che, raccogliendo i lamenti della povera gente, ha dimostrato di poter diventare una forza di opposizione capace di influenzare gli eventi e l’agenda politica egiziana.
E’ stato proprio lui che al Cairo, pronunciando il sermone del venerdì, di fronte a decine di migliaia di persone accorse in piazza Tahrir per celebrare la Giornata della Vittoria, ha sollecitato i leader islamici ad ascoltare le richieste del popolo e ad annunciare che « il mondo è cambiato, è andato avanti, e con esso è cambiato anche il mondo arabo».
Lo stesso uomo capace però di rifiutare l’incontro con uno dei principali registi della rivolta anti Mubarak, Wael Ghonim, il responsabile del marketing di Google per il Medio Oriente e il Nordafrica cacciato dal servizio d’ordine del religioso prima che potesse salire sul palco di piazza Tahrir; capace di invocare l’assassinio del leader libico Gheddafi, di riproporre la presa di Gerusalemme e di inneggiare al sacrificio degli attacchi suicidi contro Israele.
Gamal Al-Banna, fratello i Hassan, fondatore della Società dei Fratelli musulmani, esclude il rischio di radicalizzazione dello scontro e rigetta l’ipotesi di una jihad. Gamal ritiene che la confraternita rappresenti una realtà sociale sempre in crescita, un elemento politico organizzato e strutturato, ed è certo che in occasione delle prime elezioni libere la fratellanza sarà in grado di raccogliere non meno del 25% dei consensi.
Negli ultimi dieci anni la facciata “riformista” dei Fratelli Musulmani ha permesso all’organizzazione di avanzare politicamente, soprattutto grazie ad una serie di candidati “indipendenti” che sono riusciti ad accedere al parlamento aggirando i divieti imposti dal regime Mubarak. La coscienza politica sviluppata in questi anni dalla confraternita non esclude comunque la recrudescenza dei sentimenti revanscisti espressi nel passato dalle frange più radicali ed estreme: non professano la guerra santa né hanno mai teorizzato il ricorso alla violenza per islamizzare la società egiziana, ma è un fatto comunque che considerano Israele come una presenza coloniale inaccettabile posta al centro del mondo arabo.
Anche se dai microfoni di al-Arabiya il portavoce dei Fratelli musulmani, Essam al-Erian, ha riaffermato il diritto del popolo a decidere se mantenere o revocare il trattato di pace con lo Stato ebraico, per ora Israele segue la transizione egiziana senza porre limiti a quella che potrebbe essere una trasformazione epocale. Gli sviluppi che coinvolgono quella che al momento può essere definita l’unica vera forza di opposizione, rappresentano comunque un gigantesco punto interrogativo: a Tel Aviv temono che la confraternita possa diventare un partito di governo e che l’ala più radicale, oltre ad influenzare i rapporti con Israele, possa alimentare la resistenza palestinese ed aiutare Hamas ad imporsi anche in Cisgiordania.
I Fratelli musulmani potrebbero diventare un prezioso interlocutore anche per Hezbollah; potrebbero indurre il prossimo governo a ridiscutere le forniture di gas verso lo Stato ebraico, bloccate dopo il sabotaggio che il 5 febbraio scorso ha danneggiato la stazione di El Lahafan, riaprire le relazioni diplomatiche con Teheran e rafforzare i legami con Damasco e Khartoum.
I primi frutti di questo nuovo scenario potrebbero essere già maturi. Secondo fonti israeliane (notizia pubblicata dal sito intelligence Debka) la strage avvenuta durante la notte dell’11 Febbraio a Itamar, insediamento ebraico vicino Nablus, e per la quale è arrivata la rivendicazione della Brigata dei martiri di al Aqsa, braccio armato di Fatah, sarebbe infatti stata preparata ed organizzata in Sudan. Nel gravissimo attacco, il primo registrato negli ultimi mesi contro coloni israeliani e il primo di questo tipo da anni, è stata uccisa un’intera famiglia di coloni: i genitori e tre figli, un bambino di 11 anni, il fratello di tre e l’ultimo nato di circa tre mesi.
Il massacro, definito dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen «un gesto spregevole, immorale ed inumano», potrebbe infatti essere il primo risultato di un meeting segreto organizzato la settimana precedente a Khartoum da agenti iraniani e al quale avrebbe preso parte una delegazione di Hamas guidata da Mahmoud A-Zahar (Gaza) e Khaled Meshaal (Damasco), e i rappresentanti dell’ala radicale delle varie componenti della Fratellanza, provenienti dall’Egitto, Iraq, Tunisia, Siria, Giordania e Gran Bretagna.