di Emanuela Pessina

BERLINO. Doveva essere una manifestazione a favore di Karl- Theodor zu Guttenberg (CSU), l’ex- ministro della Difesa tedesco dimessosi pochi giorni fa a seguito dello scandalo plagio, ma si è risolta in una vera e propria presa in giro nei suoi confronti. È successo sabato pomeriggio a Berlino, dove un centinaio di dimostranti si son presi la briga di fare conoscere la propria opinione nei confronti del cosiddetto “ministro copione”: chi lo acclamava beffardamente imperatore, chi paragonava ironicamente il suo “copia e incolla” a un moderno Bonnie & Clyde, chi esaltava il prototipo mediatico “bellezza VS verità” incarnato da zu Guttenberg, di sicuro sotto la porta di Brandeburgo non sono mancati sarcasmo e buon umore.

Ma l’atmosfera di ambigua perplessità che si respira tra i cittadini tedeschi non sorprende e, soprattutto, sembra andare a rispecchiare perfettamente la confusione che regna nel Governo di Angela Merkel (CDU): perché, anche in ambito politico, il dopo- zu Guttenberg si anticipa più turbolento e meno chiaro del previsto e non smette di sollevare dubbi.

La manifestazione a favore del barone zu Guttenberg è stata organizzata tramite il social network Facebook, grazie a un profilo a sostegno del ministro dimissionario accusato di aver copiato gran parte della sua tesi di dottorato e costretto dalla pressione mediatica a dare le dimissioni. Nel giro di pochi giorni si erano raccolte quasi 500mila adesioni: una partecipazione di tutto rispetto che sembrava incoraggiare un eventuale ritorno di zu Guttenberg in politica, probabilità già sventolata da alcuni giornali tedeschi.

Ma i social network, si sa, non sempre rispecchiano la realtà delle cose. E, in effetti, da quasi mezzo milione di adesioni virtuali é conseguita una sola manifestazione vera e propria a favore del ministro copione, e cioè a Guttenberg stesso (Sud Ovest delle Germania), suo luogo di nascita. Organizzata dal padre, il barone (e dirigente) zu Guttenberg senior, la protesta pro- zu Guttenberg ha radunato 4.000 sostenitori circa.

Che hanno cercato di difendere la causa dell’ex-incaricato alla Difesa cristiano sociale con slogan del tipo “Gutti era troppo in gamba per voi” o “l’invidia è difficile da digerire”, in riferimento all’enorme successo personale di zu Guttenberg figlio e alla sua (finora) impeccabile carriera. A dominare la scena nella maggior parte delle città tedesche, tuttavia, è stato il provocante dileggio anti- ministro copione.

Meno beffarda ma altrettanto ambigua rimane la situazione anche in ambito politico, dove la bufera sembra tutt’altro che passata nonostante le rapidissime decisioni prese dal Governo della Cancelliera Merkel in risoluzione al vuoto dopo- zu Guttenberg. Il nuovo ministro alla Difesa tedesco è stato nominato inaspettatamente dopo sole ventiquattro ore dalle dimissioni di zu Guttenberg: è Thomas de Maizière, cristiano democratico, 57 anni, definito uno degli “uomini della Merkel”, che ha lasciato il suo posto di capo degli Interni per assumersi le responsabilità della Difesa e, c’è proprio da dirlo, tutti gli oneri del caso.

Perché, in realtà, la situazione lasciata da zu Guttenberg non è delle più lineari: de Maizière si troverà a risolvere ingombranti grovigli mediatici quali gli scandali della cadetta morta a gennaio sulla nave di addestramento della marina federale, la Gorch Fork, e del soldato morto in Afghanistan lo scorso dicembre, ma non solo.

Lo scoglio fondamentale rimarrà la riforma dell’arma introdotta ufficialmente dall’ex- ministro zu Guttenberg l’anno scorso, che avrebbe dovuto compiersi a breve, ma che non sembra essere nata sotto i migliori auspici: se il cambio di guardia autorizzerà il nuovo ministro a una rivisitazione della riforma, questo rimane ancora da chiarire. E, quasi a conferma dei dubbi che aleggiano in questo senso, il leader dei cristiano sociali Horst Seehofer  ha già diffidato de Maizière da un tale passo.

In particolare, zu Guttenberg aveva previsto l’introduzione del servizio militare volontario in sostituzione della vecchia prestazione obbligatoria in vigore in Germania da 58 anni: l’obbligo di leva per i giovani tedeschi avrebbe dovuto terminare proprio quest’estate. Per l’anno in corso, tuttavia, all’arma si sono presentati solo 2’500 giovani, contro un minimo indispensabile di 12mila. Zu Guttenberg pensava di risolvere con una considerevole campagna pubblicitaria e di migliorare le condizioni del servizio militare, trasformazione che avrebbe richiesto sicuramente un investimento di fondi considerevole. Si stava addirittura pensando, in futuro, di permettere agli stranieri di far parte dell'arma. Un cambiamento importante quindi, che certo giustifica le perplessità di popolazione e ceto politico.

 

di Carlo Musilli

Anche un monarca assoluto può avere paura. Re Abdullah domina sull'Arabia Saudita dal 2005, ma gli ultimi tre mesi li ha passati all'estero. Doveva prendersi cura della sua salute. Ora è tornato. E ha iniziato a sentire il tic-tac del timer che scandisce l'ora in cui anche per lui inizieranno i problemi. La voglia di libertà che circola in Maghreb, infatti, ha iniziato a contagiare anche i sauditi.

Centinaia di utenti Facebook stanno organizzando per l'11 marzo la “Giornata della rabbia” per chiedere elezioni libere e il rilascio dei detenuti politici. Sempre su internet, domenica scorsa oltre cento intellettuali hanno lanciato un appello per riforme politiche, economiche e sociali. Vogliono che la monarchia assoluta diventi costituzionale, con tanto di separazione dei poteri. Vogliono anche "misure che riconoscano alle donne il diritto al lavoro, all'istruzione, alla proprietà e alla partecipazione alla vita pubblica".

Nel frattempo, sono iniziate le proteste anche nel mondo reale. Per la precisione nella parte orientale del regno, dove la confessione sciita è prevalente. Erano oltre 200 i manifestanti a Qatif, 100 nella città di Awamiyya, altri ancora ad al-Hufuf. Sono scesi in piazza per chiedere il rilascio dei prigionieri sciiti. Fra questi, c'è anche il leader religioso Tawfeeq Sheikh Al-Amer. Secondo quanto rivelato alla Cnn da Ibrahim Al-Mugaiteeb, presidente della Human Rights First Society, Amer è stato arrestato venerdì scorso per aver sostenuto in un sermone che l’Arabia Saudita dovrebbe diventare una monarchia costituzionale.

Certo, tutto questo può sembrare poca cosa se si pensa a ciò che sta accadendo in Maghreb. Il confronto non regge: sarebbe come paragonare un colpo di tosse a un coro da stadio. Eppure, questi accenni di protesta sono stati sufficienti a far drizzare le antenne al malandato re Abdullah. Prevenire è meglio che curare, avrà pensato il sovrano. E così ha aperto il forziere, stanziando 36 miliardi di dollari per aiutare la popolazione. Finanziamenti per compensare l'inflazione, per aiutare i giovani a trovare lavoro e per sostenere le famiglie nel loro diritto ad avere un'abitazione. Aumenti salariali e controllo dei prezzi dei beni alimentari. Non solo: é arrivata perfino la promessa di un piano quadriennale da 400 miliardi di dollari per migliorare scuola ed università.

Nel complesso, un gigantesco tentativo di corruzione di massa. Ma Abdullah deve aver capito che, per dimostrare tutta la sua buona volontà al Paese, il denaro non è sufficiente. Ed ecco la trovata geniale. Secondo quanto riportato dal quotidiano Al Watan, il sovrano starebbe valutando l'ipotesi di concedere il diritto di voto alle donne. Potrebbe sembrare una rivoluzione epocale per un Paese in cui se hai la disgrazia di nascere femmina ti tocca passare la vita sotto la tutela giuridica di un parente maschio. In realtà, anche questa è una presa in giro. Se pure fosse concesso loro di votare, infatti, potrebbero farlo solo a favore di altri uomini. Mai e poi mai le donne saranno eleggibili. E un diritto a metà, non è un diritto.

Com'è ovvio, ai sauditi questo non è sfuggito. Le promesse di Abdullah sono state giudicate insufficienti. Un'evidente ruffianata per tentare di dribblare il problema delle riforme politiche. L'Arabia Saudita non ha un Parlamento eletto, né partiti politici e non tollera alcuna forma di pubblico dissenso. Il governo è nominato dal sovrano, che trasmette il suo potere per via dinastica. Il re attuale ha 83 anni e il suo successore, almeno in via teorica, dovrebbe essere il fratello, un 81enne malato di alzheimer. Le elezioni sono state introdotte come primo contentino solo nel 2005 e servono unicamente ad eleggere i politici locali.

Stante questa situazione invidiabile di potere, oggi le preoccupazioni di Abdullah sono legate alla minoranza sciita del Paese. Come detto, questa è concentrata soprattutto nella provincia orientale, una zona desertica ma ricca di giacimenti d’idrocarburi e di compagnie petrolifere. Soprattutto, una zona che confina con il Bahrein. Nel piccolo emirato del Golfo Persico gli sciiti costituiscono il 70% della popolazione e lo scorso 14 febbraio hanno iniziato a manifestare contro il regime sunnita che guida il Paese dal 1971, anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna.

Anche i manifestanti del Bahrein chiedono di trasformare la monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono poi le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il governo da 40 anni è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Come sta accadendo oggi in Arabia Saudita, anche in Bahrein la protesta si è gonfiata su internet. Anzi, è probabile addirittura che, sempre per via telematica, i manifestanti siano stati influenzati e spronati proprio dai correligionari sauditi. Una gestazione cibernetica che ha portato quindi allo scontro aperto con l'esercito, sporcando di sangue le strade di Manama, la capitale. Forse è stato allora che re Abdullah ha iniziato a preoccuparsi. A sentire il tic-tac del timer. 
 
 

 

di Fabrizio Casari

Diventa ogni giorno che passa più complessa la situazione in Libia. La Cirenaica è in mano ai rivoltosi e la Tripolitania é ormai il campo di battaglia dove si misurano la capacità militare di Gheddafi e quella degli insorti. Le truppe del colonnello sembrano controllare ancora la capitale e la zona della Sirte, mentre l’unica zona dove non si registrano scontri è il Fezzan, storicamente vicina (come la Tripolitania) alle tribù alleate di Gheddafi. L’opposizione al regime conferma intanto di avere una identità peculiare, molto diversa da quelle viste negli altri paesi dell’area, che hanno portato l’Egitto e la Tunisia alla cacciata dei rispettivi Rais e che mettono Barhein e Algeria (e Yemen) alle strette. In Libia, infatti, non ci sono manifestazioni oceaniche pacifiche; c’è invece un vero e proprio esercito in abiti civili a combattere contro le truppe governative.

Non è un caso che le milizie oppositrici riescano a muoversi per centinaia di chilometri in ormai tutte le regioni del Paese ingaggiando scontri che denotano preparazione militare, conoscenze tattiche e possesso di armi decisamente anomalo per dei civili. La favola dell’opposizione che si arma saccheggiando i depositi e disarmando i militari lealisti possiamo annoverarla come uno dei capitoli della propaganda mista tra Occidente e monarchie saudite, cioè le due versioni del controllo imperiale del Golfo e del Medio Oriente.

E nella morsa contro Gheddafi anche i rispettivi compiti sono ben delineati: alle monarchie saudite è stato affidato il ruolo della propaganda tramite i suoi canali televisivi satellitari, mentre sono proprio Usa, Francia e Gran Bretagna che, dal 26 febbraio scorso, hanno inviato in Cirenaica diverse centinaia di militari per addestrare militarmente gli insorti ed agenti dei rispettivi servizi segreti incaricati di costruire le operazioni d’intelligence militare.

A rivelarlo è stato Debkafile, sito israeliano d’intelligence, che aveva anche anticipato la notizia delle navi iraniane in transito nel canale di Suez. La notizia è stata ripresa anche da diverse fonti internazionali (ultimo il Pakistan Observer) ma non in Italia, dove solo un take dell’agenzia Agi ha ritenuto di darla; ma senza insistere troppo, che non si sa mai.

Lo scontro militare sul campo è quindi destinato a concludersi con la vittoria di uno dei due contendenti e rende inutili ipotesi di riconciliazione e di tavoli negoziali. La stessa proposta di Hugo Chavez, che si è proposto come mediatore tra le parti in conflitto, sebbene sia stata caldeggiata da Spagna e Russia, ha incontrato sia il “no grazie” da parte del regime libico, sia il “no” dell’opposizione filo-monarchica della Cirenaica e dei suoi principali sponsor, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele.

Dunque nessuna mediazione internazionale, che invece avrebbe il merito di far tacere le armi e scoprire le carte, tirando fuori le notizie e i fatti dalle bocche interessate dei media internazionali al seguito di Al-Jazeera e Al Arabiya, che dipingono un’insurrezione come una rivoluzione; a queste si contrappone quelle del colonnello, che dipingono una vera e propria rivolta popolare come un complotto ordito da qualche centinaio d’islamisti radicali.

D’altra parte le aperture offerte del Gheddafi-figlio sembrano in realtà tentativi di prendere tempo per riorganizzare il proprio fronte interno; alternando minacce e mitragliate sul suo popolo a dichiarazioni di pace, il figlio è ancor meno credibile del padre. E comunque, la variegata coalizione di persone senza apparenti sigle che combattono il regime non ha nessuna intenzione di fermarsi a discutere.

Perché l’unico generale che dirige le operazioni in Libia è il "Generale Tempo". La soluzione militare confligge più che mai con quella politica: fermare le ostilità significa perdere. Chi per primo accettasse il “cessate il fuoco”, scambiando polvere e sangue per tavoli e parole, dichiarerebbe, di fatto, la sua incapacità a superarsi, ad andare oltre dove è già arrivato; in una parola, dichiarerebbe la resa. Ed é evidente che la situazione non può durare ancora per molto: la prossima saràla settimana decisiva per l'evoluzione finale del conflitto e chi si ferma per primo ha perso .

Gli analisti internazionali si domandano cos’abbia intenzione di fare l’Occidente nei confronti della Libia. Si dà per scontato che il voto sulle sanzioni a Gheddafi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non potrebbe trovare uguale esito nel caso di una proposta d’intervento militare diretto, pur mascherato da “intervento umanitario” sul modello di quello nei Balcani. L’opposizione di Cina e Russia lo impedirebbe. Un intervento della Nato, poi, non è proponibile, se non si vuole trasformare Gheddafi nel nuovo Omar El Muktar e sputtanare pubblicamente la cosiddetta “opposizione” come strumento dell’impero a stelle e strisce.

Le sue fila ne riuscirebbero seriamente mutilate dai combattenti che ritengono di lottare per la fine di una dinastia dittatoriale e non per la riconquista coloniale della Libia, e la presenza di truppe dì occupazione straniere sarebbe solo il preludio ad una nuova Jihad islamica contro il “Grande Satana” che, in primo luogo, rafforzerebbe Ahmadinejihad, i Fratelli musulmani, Hezbollah e Hamas. Entrambe le ipotesi, non sono certo le più gradite a Washington e Bruxelles.

E del resto, oltre a ciò, si deve aggiungere che imbarcarsi in un nuovo Kossovo ai margini del Sahara non fa parte dei piani occidentali: non solo la centralità dei Balcani nello scacchiere geopolitico internazionale è decisamente superiore a quello del Maghreb, ma la storia insegna che gli interventi militari hanno nei bombardamenti solo la prima fase. Poi, per forza, si deve scendere a terra, occupare il paese, gestire politicamente, socialmente ed economicamente l’ingresso stabile di questo nell’alveo politico ed economico occidentale.

E i paesi Nato, spossati sotto tutti i punti di vista dalle fallimentari avventure in Irak e Afghanistan, non dispongono nemmeno delle risorse minime a garantire tutto ciò: un territorio immenso e costituito socialmente da tribù e clan, porterebbe più credibilmente ad una nuova Somalia, più che ad un nuovo Kossovo. Un altro spettro assolutamente da evitare.

Quando Gheddafi ha denunciato la mano di Al-queda in funzione di spauracchio per l’Occidente, ha dimostrato di non avere più - se mai l’ha avuto nel recente passato - non solo il polso del suo Paese, ma anche quello delle cancellerie occidentali. L’Occidente, che ha ritenuto di dover mantenere al potere tutti i leader maghrebini (Gheddafi compreso) in funzione di baluardo contro l’estremismo islamismo, è oggi consapevole di come Al-queda e compari siano sostanziali sette minoritarie, comunque non in grado di proporre alternative concrete di governo nei paesi musulmani. Un pericolo di prospettiva, semmai, non imminente.

Il problema é quindi il "come" disfarsi oggi di regimi quarantennali che, per quanto docili o divenuti tali, rappresentano nella loro follia dinastica proprio un elemento potenzialmente destabilizzante per quegli stessi popoli che dovrebbero governare. In questo senso, da utili idioti diventano pericolosi proprio per la stabilità dei loro stessi paesi. Che, invece, è fondamentale: la Libia, infatti, è oggetto di scontro per il riassetto generale dei regimi maghrebini e anche per la ridefinizione delle quote di petrolio disponibili sul mercato, e di conseguenza del suo prezzo. Non sono ammesse variabili impazzite che mettano in discussione questo processo di riassestamento. L'idea di Gheddafi di bombardare i pozzi, é stata, in questo senso, anche la più stupida: era convinto forse di mettere paura all'Occidente, ma gli ha solo messo più fretta di liberarsi di lui,

Nessuna illusione quindi: né a Washington, né a Londra o a Parigi importa un fico secco dello scontro interno alla Libia; quello che interessa - e molto - è la caduta di Gheddafi e, con essa, la riconquista dei rubinetti del petrolio libico. Infatti, benché con una produzione minore rispetto a quella dei paesi del Golfo, la sua qualità é particolare, adatta a un processo di raffinazione che lo rende particolarmente redditizio. E anche perché la Libia non é che il primo dei due obiettivi per la riconquista energetica del Maghreb: poi toccherà all’Algeria, il cui gas è particolarmente utile anche per ridurre la dipendenza europea da Putin.

E forse, in questo senso, non è strano che la regione del Fezzan, confinante proprio con l’Algeria, sia ancora l’unica dove non si registrano scontri: non è interesse di chi muove i fili della rivolta libica investire da subito un’area che potrebbe aprire scenari difficili - per migrazioni e scontri - in grado di destabilizzare prematuramente Algeri. Ci sarà tempo per farlo: difficile governare la rivolta in un paese, difficilissimo sarebbe allargarla contemporaneamente anche ad un altro.

Sembra aver trovato la quadratura del cerchio, l’Occidente: invece di spedire i propri militari a morire, sostenendo grandi spese per il bilancio pubblico, in cambio dei grandi affari per quello privato, oggi si trova a poter metter le mani sul controllo delle fonti energetiche del Maghreb facendo pagare ai suoi popoli il tributo del sangue cui seguirà il tributo del petrolio. Il primo si paga in arabo, il secondo si riscuote in inglese.

di Michele Paris

Da qualche giorno ad Haiti ha preso il via ufficialmente la campagna elettorale per il secondo turno delle elezioni che il 20 marzo prossimo decreteranno il nuovo presidente. Il ballottaggio che andrà in scena sulla disastrata isola caraibica si annuncia non privo di insidie e giunge dopo un primo turno funestato da diffuse irregolarità e disertato in massa dalla popolazione locale.

La selezione del successore dell’attuale presidente, René Préval, era iniziata lo scorso 28 novembre tra l’indifferenza generale e immediate accuse di brogli. Secondo i risultati preliminari, i candidati che avevano ottenuto i maggiori consensi risultavano essere la ex first lady di Haiti, Mirlande Manigat (31,4 %), il favorito del presidente in carica, Jude Célestin (22,5 %), e il popolare cantante di “kompa” Michel Martelly (21,8 %), più noto con il nome d’arte di “Sweet Micky”.

I primi risultati avevano suscitato le immediate proteste dei sostenitori di Martelly, così che, tra le polemiche, il secondo turno ha subito svariati rinvii. In seguito alle pressioni americane e ad una controversa indagine condotta dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), la comunità internazionale ha sostanzialmente finito col riconoscere i presunti brogli. La Commissione Elettorale Provvisoria haitiana ha perciò certificato il secondo posto di Michel Martelly, squalificando, di fatto, il candidato proposto dal presidente Préval.

Sia quest’ultimo che lo stesso Célestin hanno reagito duramente alla sentenza della commissione elettorale, accusandola di aver derubato il loro partito di una possibile vittoria nelle presidenziali. I sospetti sono aumentati quando è stato reso noto che quattro degli otto membri della commissione si sono rifiutati di certificare il risultato del voto, privando la decisione finale della maggioranza richiesta dalla legge per qualsiasi deliberazione.

Dopo le resistenze iniziali, Préval e Célestin hanno però ceduto, soprattutto in seguito alle raccomandazioni espresse dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in visita a Port-au-Prince il primo febbraio scorso. L’ordine di Washington è stato insomma quello di abbandonare ogni rivendicazione e di appoggiare le decisioni dell’OSA e della Commissione Elettorale Provvisoria. Gli Stati Uniti avevano infatti deciso di respingere una proposta di compromesso per un ballottaggio con tre candidati, mentre hanno concesso a Préval soltanto di prolungare fino al 14 maggio il suo mandato - scaduto il 7 febbraio - così da proclamare ufficialmente il successore senza lasciare pericolosi vuoti di potere.

Tutte queste manovre non sono altro che il risultato di un’elezione condotta tra il disinteresse della gran parte degli haitiani, ancora costretti a fare i conti con le conseguenze del terremoto del gennaio 2010. A ciò va aggiunto che numerosi partiti politici sono stati esclusi dalla competizione elettorale, tra cui il popolare Fanmi Lavalas, del due volte deposto presidente Jean-Bertrand Aristide. La richiesta di esclusione sarebbe stata fatta dallo stesso Préval, già alleato di Aristide prima della rottura definitiva seguita al colpo di stato orchestrato da Washington nel 2004.

In queste condizioni, l’affluenza al primo turno è risultata poco meno del 23 per cento, contro quasi il 60 per cento nel 2006, quando trionfò Préval. Nelle aree più colpite dal sisma si è scesi addirittura ad un misero dieci per cento. Ciò significa che il ballottaggio del 20 marzo si terrà tra due candidati che hanno raccolto complessivamente il consenso di appena il dieci per cento dell’intero elettorato haitiano. Di fronte alla farsa del voto del 28 novembre, anche i due candidati che si giocheranno la presidenza avevano inizialmente chiesto l’annullamento dell’elezione, per poi fare marcia indietro una volta constatati i risultati a loro favorevoli.

Sia Mirlande Manigat che Michel Martelly fanno riferimento a partiti di centro-destra ed entrambi sono macchiati da legami con la dittatura dei Duvalier e i successivi regimi militari che hanno guidato l’isola. La vincitrice del primo turno è la 70enne moglie dell’ex presidente Leslie Manigat, già sostenitore del dittatore François Duvalier (“Papa Doc”) prima di finire in carcere e in esilio. Tornato ad Haiti, Manigat conquistò la presidenza nelle elezioni del gennaio 1988, condotte però sotto il controllo dei militari e alle quali partecipò non più del dieci per cento degli aventi diritto. Sei mesi più tardi sarebbe stato deposto dal colpo di stato guidato del generale Henri Namphy, a sua volta rimosso dal potere nel mese di settembre dello stesso anno da un nuovo golpe con protagonista un altro generale, Prosper Avril.

Ancora più compromessa appare poi la figura di Michel Martelly, la cui fama di cantante di successo ha conquistato i consensi di una parte degli haitiani più giovani con poca memoria del passato del loro paese. “Sweet Micky” fece infatti fortuna durante gli anni della dittatura di Jean-Claude Duvalier (“Baby Doc”), gestendo un locale notturno frequentato dai vertici dell’esercito e dai componenti dei gruppi paramilitari che seminavano il terrore nel paese.

Strenuo oppositore del presidente democraticamente eletto Aristide, Martelly appoggiò il colpo di stato che lo depose per la prima volta nel 1991. Allo stesso modo non ha mai nascosto le sue simpatie per il cosiddetto FRAPH (Fronte per l’Avanzamento e il Progresso di Haiti), vero e proprio squadrone della morte fondato nel 1993 dall’uomo della CIA Emmanuel “Toto” Constant.

Alla vigilia dell’avvio ufficiale della campagna elettorale per il ballottaggio di marzo, Manigat e Martelly si sono dati da fare per coordinare le rispettive operazioni con i veri padroni di Haiti, a cominciare da Bill Clinton. L’ex presidente americano detiene un enorme potere ad Haiti, in particolare nella distribuzione dei fondi, in veste di inviato speciale dell’ONU e copresidente del Comitato Provvisorio per la Ricostruzione di Haiti assieme al primo ministro Jean-Max Bellerive.

Incontri formali si sono tenuti anche tra i due candidati e i vertici della forza di pace delle Nazioni Unite di stanza sull’isola (MINUSTAH) e con il Club di Madrid, l’organismo composto da ex premier e capi di stato europei che vorrebbe promuovere democrazia e cambiamento nei paesi più arretrati.

Ad accendere un clima politico già infuocato dalle polemiche seguite al voto e dai problemi del dopo terremoto ha contribuito lo scorso gennaio anche il ritorno in patria dopo 25 anni dell’ex dittatore Jean-Claude Duvalier, finito poi sotto accusa per corruzione e appropriazione indebita durante i quindici anni alla guida del paese (1971-86). Se l’arrivo di “Baby Doc” non ha suscitato le proteste dei due candidati alla presidenza, soprattutto Martelly ha usato invece toni minacciosi nei confronti di Aristide, il quale ha poco dopo manifestato l’intenzione di tornare ad Haiti dal suo esilio in Sudafrica. Lo scorso 8 febbraio, il presidente Préval ha concesso ad Aristide il visto d’ingresso e un suo eventuale rimpatrio potrebbe contribuire ad alimentare le tensioni nel paese.

Alla luce della situazione ad Haiti, è più che lecito dunque ipotizzare che anche il secondo turno delle presidenziali sarà segnato da pesanti scorrettezze. Mentre sono ancora in molti a chiedere che il voto venga annullato interamente, l’impressione generale è che alla fine sarà stata la comunità internazionale ad imporre il nuovo presidente.

Un ballottaggio all’insegna delle irregolarità rischia insomma di gettare le basi per una nuova futura crisi nella già travagliata isola del Mar dei Caraibi, quando invece ciò che vorrebbero in fretta gli Stati Uniti e gli altri paesi che detengono il potere nel paese é un nuovo presidente e un governo stabile che garantisca gli interessi stranieri nella delicata fase della ricostruzione.

di Eugenio Roscini Vitali

Alle 05:45 (03:45 GMT) del 22 febbraio 2011, due navi della marina militare iraniana iniziano il transito attraverso il Canale di Suez, autorizzate al passaggio dalle autorità egiziane in base alla Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888, accordo che assicura lo statuto internazionale del Canale stesso e la sua apertura alle navi di tutte le nazioni, senza discriminazioni, in tempo di guerra come in tempo di pace. Alle 15:30 (13:30 GMT) dello stesso giorno la fregata Alvand FFG-71 e la nave da rifornimento Kharg AORH-431 entrano nel Mediterraneo, in rotta dal porto arabo di Jedda a quello libanese di Latakia, 100 chilomentri a nord di Tartus, sito di manutenzione della Marina militare russa destinato a diventare entro il 2017 la nuova sede della Flotta del Mar Nero, attualmente ancorata a Sebastopoli, in Crimea.

L’operazione, annunciata nel gennaio scorso dall’ammiraglio Gholam-Reza Khadem Bigham, vice comandante della Marina Militare iraniana, rientra in un programma di esercitazioni per la raccolta d’informazioni d’intelligence che dovrebbe durare alcuni mesi e alla quale potrebbero partecipare altre due unità ed un sottomarino.

L’arrivo a Latakia delle due unità iraniane, registrato il 24 febbraio pomeriggio, non è solo un fatto estemporaneo; piuttosto coincide perfettamente con quello che potrebbe essere definito il “nuovo corso mediorientale dell’Iran”. Il 25 febbraio, a bordo della nave Kharg, il comandante della Marina iraniana, l’Ammiraglio Habibollah Sayyari, e il suo omologo siriano, Generale Taleb al-Barri, hanno infatti firmato un protocollo bilaterale per un programma congiunto di cooperazione militare che prevede la realizzazione di una base navale iraniana permanete in Siria, la prima nel vicino Medio Oriente e a soli 287 chilometri da Nahariya, città israeliana che si affaccia sul Mar Mediterraneo e che sorge poco a sud della frontiera libanese.

Prima di diventare il nuovo canale di rifornimento per le armi destinate alla Siria e ad Hezbollah (questa è l’ipotesi sostenuta da gran parte degli analisti), il porto di Latakia dovrà comunque essere ampliato e dotato di nuovi impianti e strutture logistiche, adeguato alla cantieristica per la manutenzione delle navi da guerra iraniane a ai sistemi di difesa antiaerea.

In realtà la Alvand FFG-71 e Kharg AORH-431 hanno atteso qualche giorno prima di poter attraversare i 190 chilometri del Canale di Suez, “occupato” dal passaggio di una squadra navale americana composta dalla portaerei USS Enterprise (CVN 65), dall’incrociatore lancia missili USS Leyte Gulf (CG 55) e dalla nave per approvvigionamenti USNS Arctic (T-AOE 8), in rotta verso il Corno d’Africa. Dal punto di vista militare il “faccia a faccia” tra le due piccole flotte non avrebbe comunque destato un’effettiva preoccupazione: i rapporti di forza e i precedenti parlano chiaro.

Durante l’operazione Praying Mantis (Mantide Religiosa), azione militare combattuta nel Golfo Persico il 18 aprile 1988 dalle forze navali americane come rappresaglia al danneggiamento dell’incrociatore USS Samuel B. Roberts, incappato in una mina posata dalla Marina iraniana, la fregata Sahand, nave della stessa classe dell’Alvand, fu identificata e centrata dai missili sganciati da due A-6E Intruder della squadriglia VA-95 “Green Lizards”, ed affondata da un Harpoon lanciato dalla USS Joseph Strauss (DDG-16).

Per Tel Aviv la presenza militare iraniana nel Mediterraneo non rappresenta solo un atto politico dimostrativo; la sfida alla comunità internazionale nasconderebbe infatti un espediente per aggirare le misure restrittive imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che vietano a Teheran la vendita di armi ad Hezbollah ed è comunque un elemento di destabilizzazione che alimenta l’azione dell’estremismo radicale palestinese.

Secondo fonti anonime vicine al governo israeliano, le due navi avrebbero a bordo armi ad alta tecnologia: razzi, sistemi anticarro, fucili d’assalto, munizioni e visori notturni; le informazioni, diffuse sul sito web del quotidiano Màariv, confermano l’ipotesi secondo cui il movimento sciita libanese si starebbe preparando ad affrontare una nuova guerra contro lo Stato ebraico. E’ in quest’ottica che il governo israeliano ha congelato il ritiro delle proprie truppe dalla zona settentrionale di Ghajar, il villaggio siriano occupato nel 1967 e ancora oggi al centro di un’annosa contesa tra Beirut, Damasco e Tel Aviv.

Il timore di riconsegnare al Libano un’area a ridosso del confine era già aumentato in seguito alla nomina del nuovo premier libanese Najib Mikati, miliardario di origine saudita sostenuto da Hezbollah che lo scorso 16 febbraio aveva minacciato di occupare la Galilea in caso di attacco israeliano.

Anche se indirettamente, e con qualche giorno di ritardo, i primi effetti l’arrivo nel Mediterraneo delle due navi da guerra iraniane si sono fatti sentire anche nel Neveg occidentale: alle 21:40 dello scorso 24 febbraio due missili BM-21 (Grad), lanciati dalla Striscia di Gaza, hanno centrato le città israeliane di Beersheba e Netivot, un attacco rivendicata dalle brigate Abu Ali Mustafa, ala militare del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), che non ha causato vittime anche se si sono registrati danni ad un’abitazione civile e ad alcune auto. Dalla fine dell’operazione Piombo Fuso è la prima volta che i palestinesi utilizzano razzi a media gittata con l’intento di colpire un centro abitato di grandi dimensioni e la possibilità che questo si ripeta preoccupa non poco le autorità israeliane.

La giornata era iniziata all’insegna della violenza: nelle prime ore del mattino i miliziani avevano sparato due colpi di mortaio contro una pattuglia israeliana che stava operando nei pressi del valico di Karni e un tank delle Forze di Difesa aveva risposto al fuoco colpendo un commando delle brigate al-Quds  posizionato ad ovest di Khan Younes. Nello scontro erano rimati feriti 11 palestinesi ed era stata distrutta la postazione da cui era partito l’attacco.

I miliziani avevano poi sparato tre granate contro il kibbutz di Nahal Oz, situato vicino alla frontiera con Gaza, e intorno a mezzanotte, come ritorsione all’attacco contro Beersheba e Netivot, l’aviazione israeliana aveva bombardato il quartiere di az-Zaytoun, a sud-est di Gaza City, con un missile che aveva centrato un’automobile e ferito i due occupanti.

Dall’inizio dell’anno sono più di venti i Qassam e le granate che hanno colpito il Negev occidentale, quasi tutti caduti in aree disabitate o vicino ad obiettivi militari; i due Grad da 122 mm esplosi il 24 febbraio scorso a Beersheba e Netivot destano però particolare preoccupazione, soprattutto negli abitanti della zona e in chi crede che Israele non sia ancora in grado difendere gli oltre 900 mila israeliani che vivono a non più di 70 chilometri dalla Striscia di Gaza.

Nel 2008 i missili palestinesi erano riusciti ad arrivare fino Kiryat Gat, Kiryat Malakhi, Gedera e Yaven, 30 chilometri a sud di Tel Aviv, ed è per questo che il ministro della Difesa, Ehud Barak, sta spingendo affinché il sistema d’arma antimissile Iron Dome, pensato come contromisura alla minaccia dei razzi Grad e Katyusha e ai proietti di artiglieria da 155 mm, diventi operativo entro le prossime settimane. 

 

 


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