di Mario Braconi

Tutto fa presagire che per Israele si stia aprendo un periodo particolarmente difficile, per non dire esplosivo. Mentre l’ex alleato turco ingaggia con lo stato ebraico una guerra diplomatica d’inusitata violenza e l’ambasciata israeliana del Cairo viene evacuata con l’aiuto delle forze speciali egiziane, Abu Mazen continua per la strada che lo condurrà, in un modo o nell’altro, ad appellarsi alle Nazioni Unite.

L’esito del progetto è molto dubbio, ma l’inerzia degli USA e la latitanza del cosiddetto quartetto (Unione Europea, Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna), il cui Inviato Speciale è niente meno che Tony Blair, spiega anche il ricorso a mosse disperate come questa. In un pezzo pubblicato ieri sul New York Times, il caporedattore di Gerusalemme, Ethan Bronner, descrive lucidamente le sfide che Palestinesi ed Israeliani dovranno affrontare nei prossimi mesi.

Innanzitutto, sembra non sia del tutto esclusa la possibilità che i palestinesi si appellino direttamente al Consiglio di Sicurezza, anziché, come era sembrato finora, all’Assemblea Generale, dove peraltro dovrebbero ottenere la maggioranza richiesta senza troppe difficoltà. Una mossa quasi suicida, dato che, su questa proposta, gli Stati Uniti hanno dichiarato che porranno il veto.

L’ha detto chiaro e tondo lo scorso 8 settembre Wendy Sherman, Counselor del Dipartimento di Stato americano, che in altre occasioni non aveva fatto mistero della netta contrarietà del governo americano all’utilizzo delle Nazioni Unite come ambito nel quale lavorare al riconoscimento dello Stato palestinese. Senza contare che, in caso di proposta al Consiglio di Sicurezza, il rappresentante americano potrebbe prendere tempo, chiedendo di poter esaminare con più calma il contenuto della richiesta dei palestinesi, dando così tempo a Tony Blair di tirare fuori qualche coniglio dal suo cilindro, ormai piuttosto impolverato.

Se anche i Palestinesi conquistassero lo status di osservatore presso l’Assemblea Generale, la mossa potrebbe avere degli effetti collaterali molto gravi. Poiché a tenere i cordoni della borsa sono gli americani, non è impossibile immaginare che l’irritazione statunitense, già oggi palpabile, prenda domani la forma della riduzione di quel flusso monetario tanto importante per la sopravvivenza dalla ANP;  lo scorso gennaio Abbas ha dichiarato al giornale palestinese Al-Hayat al-Jadida che si tratterebbe di circa 460 milioni di dollari all’anno.

Secondo Bronner, il taglio ai finanziamenti esterni e il possibile indebolimento della collaborazione tra israeliani e palestinesi nel mantenimento della sicurezza potrebbero finire per rafforzare Hamas. Lo scenario estremo di un tentativo di rovesciamento dell’Autorità Palestinese nella West Bank da parte di Hamas sarebbe un’evoluzione davvero molto pericolosa, anche perché Israele non sarebbe disposto a tollerarla.

Altra questione essenziale è quella dei confini dello Stato palestinese che i delegati palestinesi vorrebbero veder riconosciuto dalle Nazioni Unite. Secondo il New York Times, diplomatici francesi starebbero aiutando i negoziatori palestinesi a metter giù la bozza di risoluzione costruita attorno ad una mappa della futura Palestina disegnata sui confini del 1967 (più alcuni scambi di territorio con Israele). Niente di scandaloso: Obama lo scorso 20 maggio aveva detto la stessa cosa.

Peccato che Israele non accetterà mai una simile soluzione, come del resto è dimostrato dall’immediata reazione del Primo Ministro israeliano Netanyahu alle parole di Obama (“proposta irricevibile”). Se la risoluzione passasse in questa forma, immediatamente circa mezzo milione di cittadini israeliani diventerebbero occupanti abusivi del territorio di un altro paese. Il destino di un popolo resta così tristemente sospeso, tra veti incrociati e colpevole inerzia.

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