di Michele Paris

Invece dell’equilibrio previsto dai sondaggi alla vigilia, il voto di domenica scorsa in Portogallo ha decretato una netta vittoria del Partito Social Democratico (PSD) di centro destra. Il crollo dei Socialisti (PS) del premier uscente José Sócrates è giunto in seguito all’accordo sul prestito da 78 miliardi di euro, garantito da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale, per “salvare” il paese dalla crisi finanziaria e alle devastanti misure di austerity già adottate e che nuovamente si prospettano nel prossimo futuro.

Se il presidente della Commissione Europea, l’ex primo ministro portoghese José Manuel Barroso, aveva definito quelle dell’altro giorno le elezioni più importanti per il suo paese dalla fine della dittatura nel 1974, le decisioni che il prossimo governo di Lisbona sarà chiamato a prendere erano in realtà già state prese altrove. Non è stata una sorpresa perciò che la questione politica più scottante all’ordine del giorno - vale a dire i termini del prestito – non sia stata praticamente mai discussa durante la campagna elettorale.

Le elezioni anticipate in Portogallo erano state indette in seguito alla crisi del governo di minoranza guidato da José Sócrates, caduto lo scorso mese di marzo. Dopo aver potuto contare sul tacito appoggio delle opposizioni, astenutesi durante il voto sulle precedenti manovre finanziarie di emergenza, il governo socialista aveva infine incassato il voto contrario del PSD sul più recente pacchetto di austerity.

Di fronte ad una crescente opposizione nel paese, i centri di potere economico-finanziari locali ed europei avevano così provocato la caduta del debole governo Sócrates, in modo da legittimare tramite il voto gli attacchi contro i ceti più deboli della popolazione di cui il nuovo esecutivo avrebbe dovuto farsi carico. Una campagna mediatica pressoché a senso unico ha poi imposto il punto di vista dei creditori internazionali, presentando come inevitabile e irreversibile l’opzione del “salvataggio” UE/FMI per risolvere la crisi del debito portoghese.

Secondo i dati ufficiali, in ogni caso, nel voto di domenica i Social Democratici del futuro premier, Pedro Passos Coelho, hanno raccolto il 39 per cento dei consensi, contro il 28 per cento andato al Partito Socialista, che ha fatto segnare il peggiore risultato da oltre due decenni a questa parte. Il PSD darà così vita ad un governo di coalizione assieme ai conservatori del Partito Popolare (CDS-PP), attestatosi attorno al 12 per cento.

L’annuncio dei risultati elettorali è stato accolto con soddisfazione da parte dei mercati, come ha confermato l’apertura in rialzo della borsa portoghese lunedì. Gli investitori internazionali hanno tirato un sospiro di sollievo dopo le preoccupazioni per una possibile incertezza sull’esito del voto. Come avevano spiegato fino alla nausea svariati analisti finanziari europei ai principali organi di stampa, il rischio maggiore era la mancanza di un chiaro vincitore. Che a prevalere fosse poi il PSD o il PS poco cambiava, dal momento che entrambi i partiti avevano già chiaramente espresso la volontà di assecondare il dettato del Fondo Monetario e dell’Unione Europea.

Il presunto robusto mandato ottenuto dal Partito Social Democratico per somministrare la medicina che già sta facendo sprofondare ancor più nella crisi Grecia e Irlanda deve fare i conti con un astensionismo del 40 per cento e con diffuse proteste di piazza che sono andate in scena nelle ultime settimane. In Portogallo come altrove è d’altra parte sempre più evidente lo scollamento tra la classe politica e la gran parte della popolazione, ostile a un percorso che porti fuori dalla crisi in atto come quello invariabilmente stabilito a Bruxelles o a Washington.

I più importanti partiti portoghesi avevano già dato tutti il loro assenso al pacchetto di salvataggio, lasciando ben poca scelta agli elettori. La stessa alleanza (CDU) tra il Partito Comunista (PCP) e i Verdi (PEV), così come il Blocco della Sinistra (BE), non ha rappresentato una reale alternativa. Per entrambi - rispettivamente fermi al 7,9 e al 5,2 per cento - l’opposizione alla cessione della sovranità economica del loro paese all’Unione Europea e al Fondo Monetario non va infatti al di là di una rinegoziazione dei termini del prestito da 78 miliardi di euro.

Per continuare a sviare la questione del prestito internazionale e delle sue ripercussioni interne, il premier in pectore Passos Coelho nel primo discorso dopo il successo elettorale ha affermato che, nonostante, la terribile situazione in cui si trova il paese, il suo governo cercherà di “andare oltre il programma UE/FMI”. Un proposito quest’ultimo del tutto inverosimile e che non può celare gli ulteriori sacrifici che saranno imposti agli strati più deboli della società portoghese per garantire i creditori internazionali.

I reali contenuti del programma del nuovo gabinetto portoghese si possono trovare piuttosto nelle 34 pagine del memorandum d’intesa firmato lo scorso 5 maggio tra la “troika” - formata da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale - e il governo Sócrates. Tanto per cominciare, il governo entrante (che assumerà i pieni poteri non prima di un mese) dovrà far approvare al Parlamento le nuove misure di austerity entro la fine di luglio, quando i rappresentanti della troika si recheranno a Lisbona per verificare i progressi del loro piano.

Sotto la supervisione di funzionari non eletti, il governo di Passos Coelho sarà inoltre chiamato a implementare tagli alla spesa pubblica pari al 3,5 per cento del PIL nel 2012 e nel 2013. Tutto questo a fronte di un’economia portoghese che dovrebbe contrarsi del due per cento sia quest’anno che il prossimo e di una disoccupazione già al 12,6 per cento e destinata a superare il 13 per cento nel 2012.

Come già accaduto in Grecia e in Irlanda, questi provvedimenti getteranno anche l’economia portoghese in una recessione ancora più grave, causando enormi sofferenze per i redditi più bassi. Come per Grecia e Irlanda, poi, identica la ricetta amara che attende lavoratori, studenti, pensionati e disoccupati portoghesi: smantellamento dei servizi pubblici, congelamento degli stipendi, licenziamenti di migliaia di dipendenti pubblici, privatizzazioni e ulteriore apertura (“riforma”) del mercato del lavoro.

Un’autentica devastazione che renderà rapidamente impopolare il nuovo governo appena uscito dalle urne, ma che servirà ad evitare perdite agli investitori esposti in Portogallo e che libererà decine di miliardi di euro per la ristrutturazione degli istituti bancari in affanno.

di Carlo Musilli

Alla fine sono arrivati i colpi di mortaio. Hanno centrato la moschea del palazzo presidenziale di Sana'a durante la preghiera del venerdì. All'interno c'era Ali Abdullah Saleh, leader dello Yemen dal 1978, che è riuscito a scappare nonostante le ferite. La tv Al Arabiya ha dato la notizia della sua morte, ma presto è stata smentita. Il Presidente in persona ha diffuso un messaggio audio: "Sto bene. Quella banda di fuorilegge ha ammazzato sette persone".

Insieme al dittatore sono rimasti feriti anche il presidente del Parlamento, quello della Camera, il primo ministro e il suo vice. Sabato le vittime dell'attacco sono salite a otto: il premier Ali Mohammad Moujawar è morto in un ospedale saudita. Anche Saleh è stato affidato alle cure dei medici di Riyadh. L’hanno operato per rimuovergli dal torace una scheggia metallica conficcata in un polmone, appena sotto al cuore. Meno gravi le ustioni sullo stomaco e sul volto.

Secondo Al Jazeera, l'interim della presidenza è stato assunto dal vice di Saleh, Abd-Rabbu Mansour Hadi, che per il momento comanda anche le forze armate. Fonti ufficiali yemenite hanno fatto sapere che il Presidente tornerà in patria entro pochi giorni. Ma il fronte dell'opposizione è determinato ad evitare che questo avvenga.

Nel frattempo i combattimenti si sono spostati dal nord al sud della Capitale. Continui bombardamenti hanno colpito la casa dello sceicco Sadiq al-Ahmar, capo della confederazione tribale degli Hashid, che da un paio di settimane ha sposato la causa dei dissidenti. Sono stati loro ad attaccare il palazzo presidenziale. In risposta, sabato le bombe della Guardia repubblicana, il corpo d'elite dell'esercito yemenita, sono cadute anche sulla casa di un altro leader tribale, lo sceicco Hamid, dirigente del partito islamista Al Islah e fratello di Sadiq. Distrutta anche l'abitazione di un terzo fratello, Mizhij, e quella del più potente fra i generali ribelli, Ali Mohsen.

Nelle stesse ore, secondo fonti militari, sarebbe passato al fronte dei ribelli anche un altro pezzo grosso dell'esercito: il generale Jebrane Yahia al Hashedi. Si tratta del comandante della 33esima divisione blindata dell'esercito, che controlla la vasta regione sudoccidentale del Paese, un'area di collegamento strategico tra l'Oceano Indiano e il Mediterraneo, dove passano le petroliere.

Hashedi ha annunciato la sua defezione dalla città meridionale di Taiz. Qui a fine maggio un sit in di manifestanti era stato disperso a suon di pallottole. Sono morte 50 persone. Ancora oggi le forze di sicurezza sparano con regolarità contro i gruppi che scendono in piazza a protestare. Venerdì si sono registrati altri sei morti. A quel punto i soldati della 33esima divisione si sono rifiutati di continuare a premere il grilletto.

Mentre lo Yemen va a fuoco, il resto del mondo sta a guardare, nemmeno troppo interessato. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha assicurato che la Ue si sta organizzando per evacuare i suoi cittadini. La Germania ha già chiuso la sua ambasciata. Gli Usa si sono sprecati a chiedere il cessate il fuoco e l'avvio pacifico del trasferimento dei poteri in base al piano stabilito dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Le monarchie arabe, a loro volta, hanno detto di voler riprendere l'opera di mediazione interrotta lo scorso 23 maggio.

Dall'inizio della rivolta yemenita, nel gennaio scorso, sono state uccise circa 400 persone. Di queste, oltre 150 sono morte a Sana'a negli ultimi 10 giorni. Cosa succederà adesso è difficile da prevedere. L'unica certezza è che gli scontri armati continueranno a lungo. Sul piano diplomatico e politico, data la sonnolenza degli Stati Uniti e l'assoluto menefreghismo dell'Onu, la comunità internazionale spera nella mediazione dell'Arabia Saudita.

Ryiadh teme il rafforzarsi di Al Qaeda nella Penisola Arabica, che in passato ha tentato di assassinare diversi membri della famiglia reale saudita. Ma soprattutto la ribellione yemenita si concentra nei territori settentrionali del Paese, pericolosamente vicini alla frontiera con l'Arabia. E il contagio della rivolta sciita è più temibile della peste nera.

Per riprendere la strada della trattativa, nei prossimi giorni alcuni rappresentante degli Ahmar potrebbero atterrare a Riyadh. Con ogni probabilità le parti cercheranno di sedurre il grande arbitro saudita affermando la propria autorità, la propria capacita di controllo del territorio. Saleh continuerà a ripetere che, nonostante tutto, la maggior parte dell'esercito è ancora fedele a lui. Ma non sarà sufficiente. Nessuno ha più rispetto del vecchio e malridotto Presidente. In un cablo pubblicato da WikiLeaks, il ministro degli Interni saudita ha scritto ad alcuni diplomatici americani che ormai "al leader yemenita la situazione è completamente sfuggita di mano".

D'altra parte gli Ahmar sono dei semi-sconosciuti. Lo sceicco Sadiq è un politicante d'esperienza, ma non ha mai ricoperto alcun incarico pubblico. Sono i soldi e la leadership tribale a dargli credibilità, al punto che perfino molti degli studenti da cui è partita la rivolta vedono in lui un'alternativa accettabile a Saleh. Se qualcosa è cambiato negli ultimi giorni, oltre all'escalation di violenza, è proprio il ruolo dell'Arabia Saudita. Accogliendo il dittatore yemenita nei propri confini, il più importante fra i Paesi arabi si é definitivamente assunto delle precise responsabilità. E a Washington hanno tirato un bel sospiro di sollievo.

 

di Giuliano Luongo 

Uno dei timori paventati al momento dell’elezione di Viktor Yanukovich al seggio presidenziale dell’Ucraina, era quello del raggiungimento di un generale abbassamento del livello di democrazia e pluralismo politico. La recente questione dell’arresto - poi smentito, poi probabilmente riconfermato - dell’ex Premier e ora leader dell’opposizione Yulia Tymoshenko è solo l’ultimo step di un caso politico-giudiziario iniziato lo scorso dicembre, il cui scopo ultimo e recondito - stando alla stessa Tymoshenko - sarebbe quello di mettere a tacere l’opposizione onde lasciare all’attuale Presidente Yanukovich campo libero senza opposizione alcuna. E’ bene dunque cercare di ricostruire le tappe precedenti della vicenda.

Il caso che poi ha portato al non-arresto dello scorso 24 maggio è datato ufficialmente al 15 dicembre scorso, quando l’Ufficio del Procuratore Generale di Kiev ha aperto un’indagine sul “cattivo uso” di fondi ricevuti dal governo ucraino (per la precisione al Ministero per l’Ambiente) nell’ambito operativo del Protocollo di Kyoto: solo 5 giorni dopo è partita l’accusa nei confronti della Tymoshenko. L’ex Prima Ministra ha negato il fatto che i fondi fossero stati sottratti al Ministero in questione, per poi definire l’intero procedimento penale come una “caccia alle streghe” nei suoi confronti.

La Tymoshenko non fu subito arrestata, ma solo messa in condizione di non poter lasciare la capitale per tutta la durata delle indagini. Nell’ambito dello stesso caso le autorità hanno messo in stato di fermo l’ex Ministro per l’Ambiente Georgiy Filipchuk, in carica durante il secondo governo Tymoshenko; Filipchuk è il terzo Ministro di quel governo a finire sotto accusa da marzo 2010 (data di caduta del governo in questione) dopo il Ministro dell’Interno Yuri Lutsenko ed il Ministro dell’Economia Bogdan Danylyshyn, entrambi inquisiti per reati legati all’abuso d’ufficio.

I membri del BYUT, il partito della Tymoshenko, bloccarono fisicamente il Parlamento dopo la messa in accusa della loro leader. Lo stesso giorno, il Partito Popolare Europeo (al quale il BYUT, per motivi del tutto avulsi da qualsivoglia ideologia e coerenza politica, simpatizza fin quasi all’adesione) ha espresso la sua vicinanza alla donna politica ucraina con una dichiarazione nella quale condanna “la crescita di una pressione aggressiva e politicamente motivata da parte delle autorità ucraine nei confronti dell’opposizione e del suo leader Yulia Tymoshenko”.

E’ interessante ricordare come, proprio agli inizi del dicembre del 2010, il Procuratore Generale Viktor Pshonka avesse affermato di non avere motivi politici per portare alla sbarra la Tymoshenko e Lutsenko: in effetti, almeno per Lutsenko, di motivi pratici ce n’erano a bizzeffe, già se pensiamo solo alla sua ubriachezza molesta e a tutte le gaffe durante un viaggio in Germania nel 2009. In ogni caso, tornando al caso attuale, voci da alcuni ufficiali governativi affermano che le indagini sulla Tymoshenko sono state avviate nell’ottica di un piano più ampio volto a svelare tutte le attività illecite del precedente governo.

Il 27 gennaio Yulia Tymoshenko è stata bersagliata da un’altra accusa ufficiale, quella dell’uso - ovviamente illecito - di 1000 veicoli originariamente destinati a funzioni medico sanitarie (=ambulanze et similia) per potenziare la propria campagna elettorale, per un conto totale di 6,1 miliardi di euro pagati dai contribuenti ucraini. Sorvolando sull’appeal di usare un’ambulanza per invitare la gente al voto, la bionda incriminata ha reagito professando ancora la propria innocenza e accusando il rivale Yanukovich, a suo dire reo di stare organizzando false accuse al fine di mettere a tacere le voci dell’opposizione.

In aggiunta, lo scorso 10 aprile la Procura ha accusato la bella Yulia di abuso di potere durante la crisi del gas russo-ucraina del 2009; abuso che si sarebbe concretizzato nell’aver firmato un contratto decennale di forniture di gas senza avere l’approvazione del resto del governo. Il portavoce della Procura ha inoltre aggiunto che la firma di tale accordo sarebbe costata al paese una cifra enorme, cosa che ovviamente la Tymoshenko nega, dicendo anzi di aver fatto un’ottima azione nel riuscire a far ripartire le forniture di gas al suo Paese, sebbene ad un prezzo non proprio vantaggioso.

E’ proprio per quest’ultima accusa che ha rischiato di portare la politicante dietro le sbarre: il 24 maggio, dallo stesso sito web della Tymoshenko, è trapelata la notizia del possibile arresto, smentita subito dopo dalle autorità. La Tymoshenko ha affermato che la Procura non ha potuto trattenerla non solo perché i reati non sussistono, ma soprattutto perché la pressione popolare per una sua “liberazione” è stata talmente forte che andare avanti con l’arresto si sarebbe concretizzato in uno smacco politico troppo forte per il governo attuale. Sarà proprio per evitare l’eccesso di critiche che il governo ha deciso ieri di fare poker accusando in blocco tutto l’ex governo Tymoshenko di frodi varie in tema di compravendita vaccini durante la crisi dell’influenza suina.

In sintesi, il casellario giudiziario dell’ex Premier dell’Ucraina sembra poter rivaleggiare quasi con quello di Berlusconi, eppure stavolta i sospetti di manovra politica ci sono eccome. Il timing delle accuse è stato notevole, venendo proprio nel periodo in cui l’Unione Europea teneva d’occhio la situazione politica dell’Ucraina onde stringere i rapporti politici ed economici con il Paese ex-sovietico: da Bruxelles si è detto che un Paese dalla situazione politica instabile e con il pluralismo a rischio non può considerarsi pronto per rapporti più stretti con l’Unione. In effetti, così il governo Yanukovich avrebbe raggiunto un interessante traguardo, quello di tenere in carcere la sua principale oppositrice politica e, al tempo stesso, rimanere a distanza di sicurezza dall’Europa per non scontentare l’ingombrante partner russo.

Di contro, è interessante notare come la Tymoshenko sia ormai divenuta non solo la leader dell’opposizione, ma anche l’emblema della possibile integrazione europea dell’Ucraina, integrazione da fare sotto la guida di un partito con un rinnovato orientamento centrista-conservatore in barba alle velleità pseudo socialiste di quando la Tymoshenko “vinse” la rivoluzione arancione accanto al butterato Yushchenko (che, per la cronaca, all’epoca era un liberale generico ed ora è in una ignorata coalizione di estrema destra veteronazista).

Tutto ciò, ovviamente, per seguire un trend caro all’est europeo ormai europeizzato e per porsi “meglio” come elemento anti-russo, tranciando tutte le possibili connessioni con ciò che è in odore di (ex)URSS. Riassumendo, in Ucraina l’elettore medio può scegliere tra un governo tendente al non-pluralismo, pro-Russia in odore di revival dittatoriale, oppure tra un’opposizione trasformista, truffaldina, pro-Europa, solo perché ciò significa essere anti Russia a priori. Povera Ucraina.

 

 

 

di Mario Braconi

In corrispondenza del sessantaduesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza di Israele (14 maggio 1948), la stampa anglosassone ha dimostrato un insistente interesse per la storia di Lifta, un villaggio ad una decina di chilometri a nord-ovest di Gerusalemme. Ha aperto le danze un pezzo del 7 aprile scorso di Edmund Sanders sul Los Angeles Times, seguito da un puntuto commento della scrittrice, accademica ed attivista di origine palestinese Ghada Karmi, ospitato sulle colonne dello stesso giornale. Seguono Catrina Stewart su The Independent (30 aprile) e Harriet Sherwood sul Guardian, il 29 maggio.

E’ una brutta storia di speculazione edilizia a far accendere i riflettori sul villaggio abbandonato tra il 1947 e il 1948 che, nei suoi tempi di massimo splendore, contava tra i duemila e i tremila abitanti. A gennaio di quest’anno il catasto israeliano ha infatti annunciato la sua intenzione di vendere a privati porzioni del terreno su cui sorgeva Lifta (cui è stato attribuito un nome ebraico nuovo di zecca, Mei Naftolah): presto, al posto delle vestigia del paese, potrebbero sorgere 200 abitazioni residenziali, un numero imprecisato di negozi “chic”, un albergo, un museo ed una sinagoga.

Oltre cinquanta dei suoi edifici originali in pietra con finestre ad arco e graziosi balconi sono ancora in piedi; per motivi non del tutto chiari, sono sfuggiti all’obliterazione della memoria il vecchio cimitero e la pressa da olio. Tutto il resto, è andato perduto: scomparsi i 1.200 ettari di terreno con gli alberi di albicocco, fico, olivo, mandorlo, susino e melograno, e i campi a spinaci, cavolfiori, piselli e fagioli. Al loro posto, edifici istituzionali israeliani: la Corte Suprema, la Knesset e l’Università. Sparsi tra il West Bank, Giordania, e Gerusalemme Est, invece, i circa tremila arabi che vi abitavano, un tempo abili ricamatori.

A differenza di quanto è accaduto ad altri ex villaggi arabi, dopo il 1948 Lifta non è stata “riconvertita” in agglomerato ebraico: si può invece dire che è un villaggio fantasma, oggi più che altro meta di coppiette clandestine e di tossici senza tetto. Per ironia della sorte, oggi ad usufruire delle terme al centro del paese sono solo alcuni giovani ultra-ortodossi: una piccola provocazione che è come sale su una ferita per persone come Yacoub Odeh, che ai tempi dell’evacuazione forzata del paese aveva solo otto anni.

La sua memoria è marchiata a fuoco da quella sera del 1948 quando, per sfuggire agli attacchi ebraici, fu costretto ad abbandonare la sua casa assieme alla famiglia. Come molti decine di migliaia di arabi, anche gli Odeh se ne andarono portando con sé solo la chiave di casa, inconsapevoli che non vi avrebbero più fatto ritorno.

In realtà, la situazione a Lifta era molto tesa già alla fine del 1947: secondo lo storico Ilan Pappe, a dicembre di quell’anno membri della Haganah e della Stern Gang assassinarono 6 abitanti di Lifta, ferendone altri sette, nel corso di un attacco condotto per rappresaglia (sembra infatti che ci fosse tra gli abitanti di Lifta chi avvisava la resistenza araba della partenza dei convogli ebraici da Tel Aviv). Yacoub si unì alla resistenza anti-ebraica, ma venne arrestato e passò ben diciassette anni in carcere.

I genitori di Yacoub fuggirono a Gerusalemme Est, ai tempi controllata dalla Giordania. Quando Israele la conquistò, nel 1967, a Yacoub fu concesso di visitare alla sua casa, che, per un certo periodo, aveva ospitato immigrati ebrei yemeniti e iracheni. Grazie ad una legge del 1950, però, la casa di Yacoub Odeh, come quella di migliaia di altri arabi “invitati” ad andarsene, era stata requisita dallo Stato di Israele, cosa che gli impediva di prenderne possesso, anche se era vuota.

Molte ONG israeliane che si occupano di conservazione storica sono unite agli ex residenti di Lifta per bloccare il progetto del Governo. Il fratello di Yacoub Odeh, Zacharias, direttore della Lifta Society, che si occupa di tutelare i diritti degli abitanti del villaggio e di mantenere vivo il ricordo delle sofferenze che essi hanno dovuto patire, la mette così: “Questa faccenda riguarda la nostra memoria, la nostra tradizione, la nostra cultura. Molti di noi hanno ancora titolo legale alle proprie case. Anche se non siamo autorizzati a tornarci a vivere, tale diritto dovrebbe essere preservato”.

Il caso sorto attorno a Lifta tocca un nervo scoperto della società e della cultura israeliane: come nota Edmund Sanders sul LA Times, la città fantasma di Lifta, con le sue costruzioni che si ergono in mezzo alla vegetazione, rappresenta “l’incarnazione di una delle questioni più urticanti nei colloqui di pace del Medio Oriente: i Palestinesi hanno o meno diritto a tornare nelle loro case attualmente all’interno del territorio israeliano? E, se sì, quali sarebbero le conseguenze del riconoscimento di questo diritto sulla futura esistenza di Israele in quanto stato ebraico?”.

Benché una soluzione a questo immane problema non sia a portata di mano, non si può non concordare sul fatto che Lifta debba rimanere così come è (e che per inciso sarebbe cosa buona impedire le provocazioni degli ultraortodossi, come il bagno nelle terme). A rappresentare “un monumento fisico all’ingiustizia e alla sopravvivenza”, come sostiene la cattedratica palestinese naturalizzata britannica Ghada Karmi, anche lei cacciata da Lifta quando era solo una bambina.

La questione sollevata dal caso di Lifta è un emblema di quanto si sia rivelata errata la profezia di Ben Gurion, secondo cui “i vecchi sarebbero morti e i giovani avrebbero dimenticato” la nabka (la catastrofe della cacciata di oltre 700.000 arabi): Lifta dimostra che i vecchi ancora ricordano, così come è evidente che milioni di giovani mai usciti dai campi profughi dove sono stati ricollocati i loro genitori non possono che continuare a ricordare.

di Carlo Musilli

Dopo il terremoto, lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima, il premier giapponese Naoto Kan è sopravvissuto ancora una volta. Con un colpo di reni è riuscito a schivare le pugnalate che gli sono arrivate da ogni anfratto del suo malandato Parlamento. Due giorni fa la Camera bassa di Tokyo ha respinto con 293 voti contrari e 152 favorevoli la mozione di sfiducia sollevata contro il primo ministro. Lo hanno accusato di aver affrontato in modo "debole" la crisi seguita al cataclisma dell'11 marzo. Eppure l' Agenzia internazionale dell'energia atomica ha espresso ammirazione per il lavoro del governo dopo la tragedia.

Ma non è stata una reale vittoria. Per evitare di cadere subito, Kan ha dovuto promettere le dimissioni. Con ogni probabilità uscirà di scena in autunno, o comunque "non appena sarà passata la fase peggiore della crisi nucleare". Un compromesso umiliante, cui il premier è stato costretto dal suo stesso schieramento, il Partito Democratico (Dpj).

La principale disgrazia del Parlamento nipponico è proprio la guerriglia interna all'Esecutivo. Nelle fila del Dpj si agitano almeno un paio di correnti animate da shogun assetati di sangue. La prima è fa capo all'ex presidente Yukio Hatoyama, dimissionario l'anno scorso.

La seconda è guidata da quella vecchia volpe di Ichiro Ozawa, ex presidente del partito, oggi sotto inchiesta per non aver dichiarato delle tangenti (può sembrare cinico, ma in Giappone le mazzette sono ammesse, purché vengano dichiarate). Dopo aver fatto per giorni la voce grossa minacciando il ribaltone, Ozawa si è astenuto dal voto, ma ha lasciato benevolmente che gli ottanta parlamentari al suo seguito sostenessero il Premier. Anche le poltrone del Parlamento giapponese sono piuttosto comode.

Al termine di questa miserabile via crucis, l'unico risultato ottenuto da Kan è di aver guadagnato tempo. Nei mesi che gli restano conta di finanziare un extra budget per la ricostruzione. Verrebbe da pensare che dopo quello che é accaduto al Paese i parlamentari nipponici dovrebbero fare quadrato in vista del bene comune. Non è così. Gli obiettivi di Kan sembrano già oggi una missione impossibile. Se tra gli stessi membri del governo sono in pochi a non voler tagliare la testa del leader a colpi di katana, le cose ovviamente non migliorano volgendo lo sguardo agli avversari.

L'opposizione, guidata dal Partito Liberaledemocratico, controlla la Camera alta del Parlamento e per le prossime sedute ha promesso fuoco e fiamme. C'è davvero di che preoccuparsi.

L'Esecutivo è talmente frammentato che da solo non riuscirà mai a portare a termine le riforme di cui avrebbe bisogno per arginare il debito pubblico, che attualmente è pari al doppio del Pil. Pur di affossare l'odiatissimo Kan, i liberaldemocratici hanno già annunciato di voler adottare la tattica dell'ostruzionismo a oltranza. Perfino su quelle leggi da cui dipende la sopravvivenza stessa del Giappone.

Parliamo di una finanziaria speciale per la ricostruzione delle aree danneggiate dal sisma e dallo tsunami e di una nuova tassa sui consumi: soltanto un primo passo verso la resurrezione del Paese. Secondo il ministro dell'Economia, Kaoru Yosano, i costi complessivi potrebbero raggiungere i 184 miliardi di dollari.

"Il terremoto ha causato la contrazione del Pil, limitando i rifornimenti e fiaccando la fiducia e gli investimenti - ha spiegato il ministro - e il momento debole dell'economia continuerà probabilmente a lungo". Nel frattempo, per le popolazioni colpite dal disastro sono stati realizzati 30mila prefabbricati in meno rispetto alla tabella di marcia.

Come sottolinea in modo lapidario l’Economist, "il Giappone si trova ad affrontare la più grossa situazione di emergenza dalla fine della Seconda guerra mondiale con un governo azzoppato". In effetti, la paralisi politica del Paese è ben più antica delle recenti disgrazie. Kan è stato eletto appena nel giugno scorso: il quinto primo ministro in cinque anni.

Oggi è certamente più difficile per lui concentrarsi sulla ricostruzione se ogni giorno deve schivare i più diversi tentativi di sabotaggio. Mentre cerca di disinnescare il tradimento dei suoi alleati, il Premier deve guardarsi anche dal fondamentalismo ottuso e quasi certamente in malafede dell'opposizione. Nel complesso, il Parlamento giapponese sta mettendo in scena un gigantesco harakiri politico che appare lontano anni luce dall'etica dei samurai.

 


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