di Michele Paris

Al termine di un estenuante dibattito politico durato settimane, il Congresso degli Stati Uniti martedì ha alla fine approvato definitivamente il provvedimento che permetterà al Tesoro americano di aumentare il tetto del debito pubblico. L’accordo tra democratici e repubblicani era giunto al limite della data ultima fissata per evitare un clamoroso default e stabilisce tagli alla spesa pubblica senza precedenti, senza chiedere un solo dollaro in nuove tasse alle classi privilegiate.

Nella tarda serata di domenica, il presidente Obama e il leader dei due partiti al Congresso avevano annunciato il raggiungimento di un’intesa sulla questione dell’indebitamento americano. Con i tempi tecnici estremamente ristretti per ottenere il voto favorevole di Camera e Senato, i vertici democratici e repubblicani hanno dovuto muoversi in fretta per far digerire il compromesso ai parlamentari più recalcitranti – quelli di estrema destra tra i repubblicani, non soddisfatti dai tagli previsti, e quelli dell’ala liberal del Partito Democratico, che avevano richiesto un qualche aumento del carico fiscale per i redditi più alti.

Nonostante i timori per una possibile incertezza nell’esito del voto, la Camera dei Rappresentanti lunedì ha invece licenziato il provvedimento senza troppe difficoltà (269 voti a favore e 161 contrari). L’accordo bipartisan ha comunque creato profonde divisioni all’interno dei due partiti, con 66 repubblicani e 95 democratici che hanno espresso voto contrario. Martedì, anche il Senato ha dato il via libera all’aumento del tetto del debito, con74 sì e 26 no (19 repubblicani e 7 democratici). Obama ha infine apposto la propria firma sulla nuova legge solo a poche ore dal probabile default.

I contenuti dell’intesa renderanno possibile un immediato innalzamento dell’indebitamento americano di 400 miliardi di dollari. Un ulteriore aumento di 500 miliardi arriverà dietro richiesta della Casa Bianca. Questa seconda tranche potrebbe venire teoricamente bocciata da un voto del Congresso, a cui verrebbe opporrebbe tuttavia il veto di Obama.

Infine, altri 1.200 / 1.500 miliardi di dollari verranno autorizzati in seguito all’eventuale approvazione del Congresso entro la fine dell’anno delle raccomandazioni su nuovi tagli alla spesa di una speciale commissione parlamentare ancora da istituire. In questo modo, non dovrebbe essere necessario ricorrere ad altri aumenti del tetto del debito prima del 2013, evitando un nuovo round di scontri alla vigilia delle elezioni del 2012.

L’autorizzazione ad innalzare il livello del debito federale giunge con la promessa di tagliare la spesa pubblica per un totale di 2.100 miliardi di dollari entro il prossimo decennio. Quasi mille miliardi di tagli verranno da uscite cosiddette “discretionary”, cioè destinate a programmi non definiti per legge come quelli relativi alle spese militari (350 miliardi), ma anche alla protezione ambientale, al sistema scolastico, all’edilizia pubblica e ai trasporti (650 miliardi). A decidere i contenuti dei tagli saranno in ogni caso le varie commissioni parlamentari competenti, chiamate a decidere entro l’inizio del nuovo anno fiscale (1° ottobre 2011).

Il resto dei tagli dovrebbe uscire dalle proposte della già citata commissione bipartisan, formata da 12 membri del Congresso ugualmente ripartiti tra i due schieramenti. Questa commissione dovrà individuare provvedimenti per ridurre il deficit di 1.200 / 1.500 miliardi di dollari, tagliando la spesa pubblica e, teoricamente, aumentando le tasse.

Alla luce dei rapporti di forza tra i due partiti e dell’esito della trattativa sul tetto del debito – che ha premiato pressoché interamente i repubblicani – è tuttavia improbabile che verranno adottate anche modeste iniziative destinate a scalfire i redditi più elevati. Le raccomandazioni della commissione dovranno essere presentate entro il 23 novembre prossimo e successivamente sottoposte al voto del Congresso entro il 23 dicembre, senza possibilità di presentare emendamenti

Nel caso la commissione non fosse in grado di giungere ad una proposta unitaria, o se le proprie deliberazioni dovessero essere bocciate dall’aula, scatterà allora una riduzione obbligatoria del deficit, da implementare a partire dal 2013, con la metà dei risparmi provenienti dalle spese militari e metà da tagli ai programmi domestici, ad eccezione di Medicaid, del sistema pensionistico e di qualche altro programma sociale. La prospettiva di così ingenti tagli al settore militare, avversati dalla maggior parte del Partito Repubblicano, farà in ogni caso in modo che le decisioni della commissione del Congresso verranno approvate senza eccessivi impedimenti.

Quasi tutti i media americani hanno dipinto l’accordo come una sconfitta per il presidente e i democratici, i quali avrebbero ancora una volta ceduto ai repubblicani. Lo stesso leader di maggioranza al Senato, il democratico Harry Reid, ha ammesso dopo le trattative che l’accordo “dà ai repubblicani tutto quello che avevano chiesto”. In realtà, il risultato delle estenuanti negoziazioni rispecchia perfettamente le stesse intenzioni dei democratici, concordi fin dall’inizio nell’impostare un dialogo interamente ruotante attorno alla riduzione della spesa pubblica.

La cosiddetta difesa dei programmi sociali più popolari e la fermezza – sparita all’avvicinarsi della scadenza del 2 agosto – nel chiedere modesti aumenti delle tasse per i più ricchi, per i democratici e per Obama non era altro che un modo per continuare ad apparire come i difensori della middle-class e dei lavoratori americani in vista dell’appuntamento elettorale del 2012.

Le pretese democratiche si sono rivelate pure manovre tattiche all’interno della discussione del debito, come conferma la posizione sostenuta dal presidente fin dall’inizio. Obama si era infatti attestato su posizioni decisamente più a destra di quelle dei repubblicani al Congresso, dapprima accettando per la prima volta nella storia americana di includere nel dibattito sull’innalzamento del livello di indebitamento – iniziativa approvata decine di volte in passato senza scontri politici – la questione della riforma della spesa pubblica e, successivamente, proponendo il ridimensionamento di programmi sociali di cui beneficiano decine di milioni di americani e che erano sempre stati considerati intoccabili.

L’ipocrisia di Obama è apparsa in tutta la sua chiarezza nel discorso seguito all’annuncio dell’accordo domenica scorsa. Nella sua uscita pubblica, il presidente ha ringraziato gli americani, poiché con le loro “voci, lettere, e-mail e tweet hanno obbligato Washington ad agire”. Nella realtà, al contrario, la maggioranza della popolazione americana, come hanno dimostrato tutti i sondaggi, era nettamente contraria ad un accordo sul tetto del deficit basato esclusivamente su tagli alla spesa, mentre appoggiava nuove tasse per grandi aziende e redditi più alti.

I repubblicani e i democratici hanno d’altra parte risposto unicamente a quelle sezioni della società americana di cui sono espressione, vale a dire Wall Street e l’intera élite economica e finanziaria del paese, la quale ha dettato letteralmente il dibattito e l’accordo sul debito. Tramite le agenzie di rating, i poteri forti d’oltreoceano avevano minacciato ed esercitato pressioni sempre più forti sulla classe politica per ridurre un deficit gigantesco e causato principalmente dal salvataggio delle banche dopo la crisi del 2008.

L’assalto alla spesa pubblica a cui si è assistito in queste settimana non è che l’inizio di un piano condiviso da entrambi i partiti per smantellare la struttura sociale costruita con le leggi degli anni Trenta e Sessanta e che aveva permesso la crescita di una robusta classe media negli Stati Uniti.

Questa trasformazione, conseguenza del crollo finanziario del 2008, si inserisce negli USA come altrove su un’economia ancora in affanno e una disoccupazione alle stelle. Le misure di austerity così implementate causeranno perciò un ulteriore aumento dei livelli di povertà, con il drammatico venir meno di già esili programmi pubblici di assistenza che avevano finora alleviato almeno in parte le sofferenze di milioni di persone costrette a pagare il conto di una crisi che non hanno contribuito in nessun modo a provocare.

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