di Eugenio Roscini Vitali

Ogni anno la Palestina commemora l’anniversario della morte di Yasser Arafat, deceduto alle 3:30 dell’11 novembre 2004 nel reparto di ematologia dell’Hopital d’instruction des armees Percy (HIA Percy),  a Clamart, comune della “petite couronne” parigina. Le condizioni di Abu Ammar – come lo hanno sempre chiamato i palestinesi – si erano bruscamente aggravate il 4 novembre, con un repentino peggioramento del quadro clinico che lo aveva fatto precipitare in uno stato di coma profondo. Sulla scomparsa del simbolo della lotta palestinese si sono fatte mille supposizioni, ipotesi che aldilà delle convenienze politiche hanno suscitato non pochi dubbi: sia sul ruolo svolto dall’allora premier israeliano Ariel Sharon, sia sulle possibili trame interne agli stessi vertici palestinesi. Ma a sette anni di distanza, in un articolo pubblicato dal quotidiano Hareetz, il giornalista investigativo Yossi Melman prova a smontare la teoria del complotto e avvalendosi  della testimonianza dell’allora capo di gabinetto dell’ex premier israeliano rilancia l’ipotesi della morte dovuta ad un male incurabile.

Yasser Arafat fu sepolto a Ramallah il 12 novembre 2004, nel quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese, il luogo dove aveva vissuto da confinato gli ultimi anni della sua vita. Ad accogliere il feretro, proveniente dal Cairo dove in mattinata aveva avuto luogo la cerimonia  funebre, c’erano decine di migliaia di palestinesi, confluiti nel  piazzale della Muqata’a per rendere l’ultimo omaggio al rais. A causa dell’enorme folla, la sepoltura, frettolosa e in disaccordo con i riti religiosi islamici, fu però ripetuta il giorno seguente, con la salma disseppellita come deciso dalla massima autorità religiosa palestinese, lo sceicco Taissir Tamimi. La prova scientifica che Abu Ammar non sia morto di morte violenta quindi non esiste: l’equipe medica dell’ HIA Percy ammise di non conoscere il reale motivo della decesso e non bastò un dettagliato rapporto di 558 pagine a dipanare i dubbi di chi, sin dal primo minuto, sostenne la tesi dell’omicidio;  nel referto, i medici francesi  descrissero una sopravvenuta complicazione dovuta ad un complesso disturbo del sangue che chiamarono “coagulazione disseminata intravascolare”.

Tra le varie ipotesi si parlò anche di AIDS e di Parkinson, ma il dottor Ashraf Al Kurdi, medico personale del leader palestinese, dichiarò che Arafat non era affetto da alcun mordo e che i diversi test HIV ai quali era stato sottoposto erano sempre risultati negativi. Tuttavia, la cosa che più alimentò il fronte degli scettici fu il fatto che nessuno autorizzò mai l’autopsia: qualche anno dopo Kurdi spiegò che il successore alla presidenza dell’ANP, Mahmoud Abbas, aveva giustificato la decisione con la possibilità che ciò avrebbe potuto incrinare i rapporti con la Francia, in quanto avrebbe costretto Parigi ad agire contro gli interessi di Israele e degli Usa. Questa eventualità però fu fortemente criticata dallo stesso Kurdi che in più occasioni ebbe modo di ricordare come in Giordania le autopsie su dubbi casi di morte violenta  fossero obbligatorie e come gli esami post mortem non sono mai stati contrari alla legge islamica, che al contrario ne permette l’esecuzione a patto che vengano effettuati al più presto e con grande rispetto per il defunto.

Nel 2006 l’ipotesi dell’omicidio è stata anche confermata dallo scrittore israeliano Uri Dan, persona particolarmente vicina all’ex premier ed autore del libro “Ariel Sharon: un ritratto intimo”. Dan afferma con certezza che Arik [Sharon]  ricevette l’approvazione telefonica del presidente americano George W. Bush e che la decisione di liquidare il leader palestinese fu presa per rimuovere “l’ultimo” ostacolo alla politica di colonizzazione israeliana in Cisgiordania. D’altronde, la lunga e scomoda storia israeliana di omicidi mirati era tornata a galla nel settembre 2003, con Ehud Olmert, allora vice primo ministro, che parlando di Arafat aveva dichiarato alla radio israeliana: «La domanda è: come dobbiamo farlo? L'espulsione è certamente una delle opzioni, così come l’omicidio». Parole quantomeno “avventate” che fecero infuriare i palestinesi e scatenarono la reazione delle stesse organizzazioni pacifiste israeliane, da Gush-Shalom al noto attivista Uri Avnery.

Ora, a qualche anno di distanza, a dare la sua versione dei fatti è Dov Weissglas, ex capo di gabinetto dell’allora primo ministro Ariel Sharon, che in un articolo di Yossi Melman parla di vera e propria speculazione costruita intorno alla morte del leader dell’OLP. In una delle rare dichiarazioni concesse alla stampa, Weissglas dissipa le voci di corridoio e rivela che l’intenzione dell’ex premier israeliano non era quella di ucciderlo, ma di isolarlo politicamente. Per l’avvocato israeliano, nei mesi successivi alla morte di Arafat i media palestinesi invocarono fatti circostanziali che non giustificarono in alcun modo la teoria del complotto: primo fra tutti il commento sussurrato nell’aprile 2002 dal ministro della Difesa israeliana al premier Sharon. Durante una conferenza stampa tenuta dopo la cattura della nave Karin A, in rotta dall’Iran per Gaza con 50 tonnellate di armi a bordo, Shaul Mofaz si lasciò sfuggire, a microfoni aperti, la frase «dobbiamo sbarazzarci di lui». Un episodio che avrebbe giustamente dato adito alle più sfrenate speculazioni.

La  teoria dell’omicidio guadagnò poi credibilità a causa delle rivelazioni del giornalista Uri Dan e per il fatto che già in passato l’intelligence israeliana aveva fatto largo uso di veleno. Basti ricordare come nel 1978 il Mossad eliminò Wadia Hadad inviandogli un pacchetto di cioccolatini avvelenati; il leader della fazione palestinese responsabile del dirottamento del volo Air France 139 su Entebbe, morì alcuni mesi dopo in un ospedale di Berlino Est dopo aver sviluppato una malattia del sangue molto simile alla leucemia. Stessa sorte sarebbe dovuta capitare a Khaled Meshaal, leader di Hamas ad Amman, quando il 25 settembre 1997 due agenti israeliani con passaporto canadese cercarono di ucciderlo mentre si recava in ufficio spruzzatogli sul lobo dell’orecchio uno spray tossico; ricoverato in ospedale, Meshaal fu salvato solo grazie all’intervento di re Hussein di Giordania e del presidente americano Bill Clinton che fecero pressioni su Benjamin Netanyahu affinché inviasse nella capitale giordana un antidoto capace di salvare la vita del leder palestinese.

Pur ammettendo quanto  Sharon disprezzasse Arafat,  Weissglas è certo che il premier israeliano non abbia mai pensato ad una soluzione cruenta: «Lo considerava il più grande nemico di Israele e un ostacolo a qualsiasi accordo di pace. Ecco perché ha ostinatamente rifiutato un incontro. Ma nonostante tutto, non ha mai pensato alla possibilità di causargli danni fisici». La scomparsa politica di Arafat  era già iniziata nel gennaio 2002, con il coinvolgimento diretto dell’Autorità Nazionale Palestinese nel traffico di armi con l’Iran, e quattro mesi dopo «il Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, ci informò che il presidente stava per pronunciare un discorso che avrebbe definito la politica americana in Medio Oriente». Di li a poco Israele e Stati Uniti avrebbero spiegato al mondo il ruolo negativo di Arafat nel processo di pace israelo-palestinese e il suo coinvolgimento nelle decisioni riguardanti il finanziamento al terrorismo; una posizione che il presidente americano George W. Bush avrebbe ufficializzato il 24 giugno 2002 durante la presentazione della Road Map, il piano di pace promosso da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite.

Per due anni lo Stato ebraico e gli Usa continuarono a boicottare Arafat, ad assediare il quartier generale di Ramallah e ad isolare il leader dell’OLP; alla fine di ottobre Javier Solana chiese ad Israele di autorizzare Arafat a lasciare il compaund per una visita medica. Le condizioni fisiche del leader palestinese era peggiorate notevolmente e fu Weissglas a contattare Sharon  per l’autorizzazione: «il giorno dopo Solana mi chiamò per dirmi che, anche se non era chiaro quale malattia avesse, i test avevano rivelato che le condizione di Arafat erano serie». Solana riferì inoltre che il leader palestinese aveva chiesto che il permesso di poter ottenere un trattamento migliore in un ospedale europeo. La richiesta fu subito discussa in un meeting al quale parteciparono il premier, rappresentanti del governo e ufficiali dell’intelligence e delle Forze di Sicurezza Israeliane.

Furono proprio i servizi segreti e l’esercito ad avanzare non poche perplessità, ma nonostante l’opposizione dei militari Sharon diede l’autorizzazione al trasporto: «vista la richiesta di Solana e dei palestinesi, Arik decise di consentire un ponte aereo immediato con Francia per il trasporto di Arafat»; era preoccupato per il fatto che la morte del leader palestinese all’interno della Muqata’a potesse danneggiare seriamente  l’immagine stessa di Israele, soprattutto se non gli fosse stato permesso di ricevere i trattamenti medici necessari.

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