di Michele Paris

Nella serata di venerdì, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato per la prima volta nella storia il debito degli Stati Uniti. La perdita della “tripla A” arriva a pochi giorni dal faticoso raggiungimento dell’accordo sull’innalzamento dell’indebitamento americano e rappresenta una decisione tutta politica, così da spingere Washington ad adottare nuove iniziative per la riduzione del deficit.

Nella stessa dichiarazione ufficiale di una delle tre principali agenzie di rating statunitensi appare chiaro il messaggio inviato ad una classe politica appena uscita dal lungo dibattito sul tetto del debito pubblico. “Il downgrading riflette il nostro giudizio che l’efficacia, la stabilità e l’affidabilità della politica americana e delle sue istituzioni sino state indebolite”, scrive l’agenzia, proprio mentre sono in corso sfide impegnative sul fronte economico e fiscale.

Standard & Poor’s ha così declassato il rating americano da AAA ad AA+ con un outlook negativo. L’agenzia newyorchese ha inoltre minacciato una nuova riduzione entro i prossimi due anni, nel caso non dovessero essere effettuati i tagli alla spesa decisi dal Congresso e dal presidente Obama. Per Standard & Poor’s, il compromesso tra repubblicani e democratici sul tetto del debito non appare comunque sufficiente per continuare a garantire il massimo della valutazione ai bond a stelle e strisce.

In un’intervista al Financial Times, il responsabile della sezione addetta alla valutazione dei debiti sovrani di Standard & Poor’s, John Chambers, ha dichiarato che la sua agenzia non ha dubbi sull’implementazione dei 2.100 miliardi di tagli appena concordati, ma che le riserve riguardano soprattutto la possibilità di adottare “misure addizionali per stabilizzare il rapporto tra debito e PIL”. Intervenendo nella discussione sul tetto del debito americano, Standard & Poor’s aveva infatti avvertito della necessità di tagliare la spesa federale di almeno 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Convinta di essersi adoperata a sufficienza per compiacere Wall Street, la Casa Bianca ha reagito con sdegno all’annuncio del downgrading, notificato al governo già nel pomeriggio di venerdì. Secondo un portavoce del Dipartimento del Tesoro, gli analisti di Standard & Poor’s avrebbero addirittura commesso un errore di valutazione, sovrastimando il debito americano di circa 2 mila miliardi di dollari.

In termini pratici, il declassamento dovrebbe avere ben poche conseguenze, tra cui un possibile aumento dei tassi di interesse, anche perché le altre due principali agenzie di rating – Moody’s e Fitch Ratings – hanno per ora annunciato di non avere intenzione di seguire i colleghi di Standard & Poor’s. Anche un lieve incremento sugli interessi del debito, in ogni caso, potrebbe risultare oneroso per il Tesoro USA, il quale solo per questa voce spende annualmente circa 250 miliardi di dollari.

In seguito all’accordo che ha evitato il default, i bond del Tesoro americano appena declassati avevano attratto un ingente afflusso di capitali negli ultimi giorni, facendo segnare un netto calo dei rendimenti e indicando la fiducia degli investitori nel debito USA in un momento di grande affanno per i mercati azionari.

Quantomeno la mancanza di alternative sicure renderà improbabile anche una vendita di massa dei titoli del Tesoro americano detenuti dagli investitori stranieri. Ciononostante, il downgrading solleva le preoccupazioni della Cina, la quale detiene oltre mille miliardi di dollari di debito americano.

Standard & Poor’s aveva assegnato la “tripla A” agli Stati Uniti per la prima volta nel 1941, una valutazione che ha mantenuto fin da allora nella convinzione che un default per il paese più ricco del mondo fosse praticamente impossibile.  Il declassamento dalla “tripla AAA” – attualmente garantita da questa agenzia a paesi come Canada, Australia, Francia, Germania e Gran Bretagna – ad AA+ porta il debito americano al livello di quelli di Belgio e Nuova Zelanda.

Il downgrading americano innescherà ora con ogni probabilità una nuova ondata di appelli al rigore fiscale negli Stati Uniti e non solo. Già poche ore prima dell’annuncio, nel corso del suo discorso radiofonico settimanale, il presidente Obama, pur chiedendo modeste iniziative per “stimolare” l’economia e creare posti di lavoro, aveva invitato il Congresso a rispettare gli impegni appena presi con l’accordo bipartisan sul debito e ad adottare nuove misure per il contenimento del deficit.

Le pressioni di Wall Street sul governo americano, tramite le valutazioni delle agenzie di rating, per tagliare la spesa sociale faranno passare inevitabilmente in secondo piano i dati resi noti dal Dipartimento del Lavoro sempre nella giornata di venerdì sull’andamento della disoccupazione negli Stati Uniti.

Nonostante la maggior parte dei giornali americani abbia accolto positivamente la riduzione del livello di disoccupazione dal 9,2 al 9,1 per cento, a ben vedere i numeri continuano ad indicare una situazione drammatica. I 117 mila posti di lavoro creati nel mese di luglio dall’economia d’oltreoceano non sono infatti nemmeno sufficienti a tenere il passo con la quota mensile necessaria per bilanciare l’aumento demografico.

A fronte di quasi 14 milioni di americani ancora disoccupati, i democratici e i repubblicani a Washington poco o nulla faranno nei prossimi mesi per mettere in atto un serio programma teso a creare nuovi posti di lavoro. Le attenzioni di Congresso e Casa Bianca si concentreranno piuttosto su nuovi devastanti tagli alla spesa, così da calmare le ansie degli investitori circa il deficit e rispondere prontamente alle imposizioni dell’oligarchia economica e finanziaria del paese.

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