di Michele Paris

Dopo quasi sei mesi dalla durissima repressione delle manifestazioni democratiche in Bahrain, il movimento di protesta nel piccolo regno del Golfo Persico sembra aver riacquistato un certo vigore negli ultimi giorni. Con l’attenzione della comunità internazionale rivolta al soccorso dei “ribelli” in Libia, un silenzio pressoché assoluto era calato sulle sorti dell’opposizione in Bahrain, dove la casa regnante alleata degli Stati Uniti aveva così avuto il via libera per soffocare il dissenso con metodi brutali.

A segnare la ripresa delle tensioni in Bahrain è stato l’annuncio da parte di due detenuti di iniziare uno sciopero della fame per protestare contro la loro carcerazione motivata politicamente. L’attivista per i diritti umani Abdulhadi al-Khawaja e il membro del partito Haq dell’opposizione, Abduljalil al-Singace, erano stati arrestati durante le proteste nel mese di marzo e a giugno sono stati condannati all’ergastolo assieme ad altri sei detenuti. Nel comunicare la decisione alla stampa, la figlia di al-Khawaja ha rivelato che il padre è stato più volte picchiato durante la sua detenzione.

Il 30 agosto, poi, nel corso di una manifestazione pacifica nella località di Sitra, gli animi si sono accesi tra la popolazione in seguito all’uccisione del 14enne Ali Jawad, colpito in pieno volto da un candelotto lacrimogeno sparato da breve distanza dalle forze di sicurezza del regime. Nonostante il governo abbia negato che la polizia era impegnata a Sitra nel momento in cui è avvenuta la morte del giovane manifestante, il giorno successivo nella città nord-orientale del Bahrain sono scese in piazza dieci mila persone per protestare contro il regime.

Ancora più recentemente, infine, nuove manifestazioni sarebbero andate in scena domenica scorsa, dopo che la maggioranza sciita della popolazione, secondo quanto riportato dall’iraniana Press TV, avrebbe reagito all’ennesima promessa fatta dal sovrano in diretta televisiva di graziare i detenuti politici e risarcire i familiari delle vittime degli abusi durante le proteste di febbraio e marzo.

Il ritorno di proteste diffuse nel paese appare in ogni caso ancora incerto, anche se l’opposizione sembra aver già riacquistato fiducia, come dimostra una recente intervista rilasciata all’agenzia di stampa iraniana FNA da Saeed al-Shihabi, esponente del Movimento per la Libertà del Bahrain, il quale prevede addirittura la caduta del regime della famiglia al-Khalifa nelle prossime settimane.

La primavera araba aveva travolto anche il Bahrain a partire dal febbraio scorso, quando centinaia di migliaia di persone - in un paese che conta 1,2 milioni di abitanti - avevano invaso le strade della capitale, Manama, e degli altri principali centri urbani. L’avversione per il monarca, Hamad bin Isa al-Khalifa, e il suo entourage che detiene le leve del potere era finalmente esplosa dopo decenni di tensioni e conflitti latenti. Nonostante le proteste fossero scaturite dal malcontento della maggioranza della popolazione sciita (70 per cento), discriminata dalla casa regnante e dalla minoranza sunnita, le manifestazioni non assunsero un carattere settario.

La propaganda del regime fece però di tutto per dipingere il movimento come una cospirazione alimentata dal vicino Iran, anche se l’influenza di quest’ultimo paese non arabo sugli sciiti del Bahrain è in realtà limitata, in quanto essi tendono a guardare piuttosto verso le autorità religiose di centri come Kerbala o Najaf, in Iraq.

Le manifestazioni vedevano infatti sfilare assieme sciiti e sunniti, mentre le richieste principali comprendevano maggiori diritti democratici, giustizia sociale ed una più equa distribuzione dei proventi petroliferi. Di fronte al rapido dilagare delle proteste, il regime promise dapprima di voler procedere con una serie di riforme del sistema per poi intraprendere apertamente la strada della repressione più violenta.

La reazione dei regnanti del Bahrain ottenne la più o meno tacita approvazione di Washington e il sostegno materiale dell’altro principale sponsor, l’Arabia Saudita, che il 14 marzo inviò 1.200 soldati per soffocare definitivamente la rivolta. Il timore dei sovrani sauditi era il possibile contagio delle proteste nella regione orientale all’interno dei propri confini dove vive una consistente minoranza sciita. Allo stesso modo, l’eventuale caduta della monarchia al-Khalifa e un governo espressione del popolo avrebbe potuto rappresentare una pericolosa espansione dell’influenza iraniana nel Golfo Persico.

In questa operazione militare, patrocinata dai paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), tutti legati a doppio filo con Washington, vennero assassinati decine di manifestanti, mentre centinaia furono gli arresti e i successivi casi di percosse e torture da parte delle forze di sicurezza del regime. Secondo i dati raccolti dalle organizzazioni a difesa dei diritti umani, circa due mila dipendenti pubblici vennero licenziati per aver preso parte alle manifestazioni e numerosi medici e infermieri che fornirono assistenza ai rivoltosi feriti finirono sotto processo per tradimento proprio mentre le forze di sicurezza prelevavano dagli ospedali i manifestanti feriti, finiti poi in carcere o spariti nel nulla.

Nelle settimane successive vennero demolite numerose moschee sciite, così come in precedenza era stato abbattuto nel centro di Manama il monumento che rappresentava una gigantesca perla, diventato il ritrovo e il simbolo stesso della protesta. Dal mese di marzo sono stati inoltre istituiti speciali tribunali militari che hanno emesso pesanti condanne contro gli attivisti e i membri dell’opposizione più o meno ufficiale. Puntualmente, i detenuti si sono visti negare l’accesso ai loro legali e le torture sono state all’ordine del giorno.

Al contrario di quanto accaduto in Libia, la repressione in Bahrain ha provocato solo isolate dichiarazioni di circostanza da parte dell’Occidente. La condanna ufficiale delle violenze si è accompagnata al sostegno alla monarchia regnante per il dialogo e il cosiddetto processo di riforme promesso. L’amministrazione Obama, in particolare, pur chiedendo al regime di ascoltare le richieste dell’opposizione, ha continuato a mantenere stretti rapporti con il governo di un paese strategicamente fondamentale e che ospita la base della Quinta Flotta statunitense.

Mentre la repressione infuriava in Bahrain, esponenti di spicco del governo americano manifestavano la loro solidarietà con il regime, come confermano le visite a partire dal febbraio scorso a Manama, ad esempio, dell’allora Segretario alla Difesa Robert Gates e del capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen. A giugno, poi, Obama ha accolto con tutti gli onori del caso alla Casa Bianca il principe ereditario del Bahrain, Salman al-Khalifa, elogiandolo per l’impegno della sua famiglia nel processo di “riforma” in atto.

La doppiezza dell’approccio americano nei confronti della primavera araba è emerso dunque con particolare evidenza proprio dalle vicende di questo minuscolo paese arabo dall’importanza apparentemente trascurabile. Per Washington, insomma, il sostegno agli ideali di democrazia che avrebbero pervaso le proteste in Libia o quelle in corso in Siria si ferma rigorosamente dove iniziano i propri interessi strategici.

Per Washington, e per l’alleato saudita, un Bahrain al di fuori della propria sfera d’influenza, e consegnato all’Iran, appare del tutto impensabile, al punto da autorizzare di fatto l’annientamento di qualsiasi rigurgito di protesta. Una repressione senza scrupoli andata avanti per mesi nel disinteresse quasi totale dei media occidentali ma che rischia di radicalizzare ancora di più l’opposizione nel paese e di far riemergere nuovi scontri in un’area cruciale per gli equilibri mediorientali.

di Eugenio Roscini Vitali

Pressato dalla questione turca e dall’eterno problema israelo-palestinese, Netanyahu deve fare i conti con la più grande protesta sociale della storia dello Stato ebraico. Centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in almeno 16 città israeliane, da Tel Aviv a Gerusalemme, da Haifa a Eilat, gente decisa ad ottenere dall’establishment cambiamenti reali per una politica economica e sociale più solidale.

Il movimento, nato per iniziativa di un gruppo di militanti dell’Unione degli studenti universitari con il primo grande sit-in del 23 luglio scorso a Tel Aviv, ha ormai coinvolto l’intero Paese, mobilitando in modo trasversale la generazione giovanile e la classe media, persone che chiedono a gran voce più equità e meno liberismo.

Lo scorso 6 agosto gli indignados israeliani avevano portato in piazza 300 mila studenti; domenica pomeriggio i dimostranti sono stati 450 mila, più delle metà dei quali riuniti nella sola Kikar Hamedina, la grande piazza di Tel Aviv all’incrocio tra viale Jabotinsky e viale Weizman, motore di una protesta simboleggiata dalle tende piantate in Rothschild boulevard, nel cuore della città; 50 mila nella Paris Square di Gerusalemme, 40 mila ad Haifa, 12 mila ad  Afula, 7 mila a Rosh Pina.

C’è chi crede che la protesta potrebbe non produrre gli effetti sperati, soprattutto a causa della scarsa coesione del fronte sociale: la gran parte di questi “nuovi israeliani” manifesta contro il carovita, per ottenere sgravi fiscali e maggiore attenzione all’edilizia popolare; ci sono quelli che attaccano le grandi aziende e le banche, prodotto delle scelte neoliberiste degli ultimi anni, chi chiede di tornare al sistema socialista abbandonato 20 anni fa e al modello del welfare state e dell’istruzione a portata di tutti.

Ma c’è anche chi si interroga su settori fino ad oggi reputati intoccabili, su questioni centrali come i costi dell’occupazione dei Territori palestinesi, il peso delle sovvenzioni alle colonie e l’enorme budget riservato alle spese militari, il 6,3% del PIL, una cifra destinata ad aumentare visti programmi legati  alla sicurezza e la continua minaccia a cui è sottoposto il Paese.

Prima ancora degli studenti di Rothschild boulevard a giugno la protesta popolare aveva preso spunto dall’aumento del prezzo del formaggio fresco, cresciuto del 75% in un anno. La mobilitazione, organizzata via internet, si era rivelata un autentico successo e il Governo, che inizialmente aveva snobbato chi esortava al boicottaggio del prodotto, era stato costretto a prendere posizione contro le imprese casearie per indurle a rivedere i prezzi a ribasso.

La crisi del formaggio era stata significativa ed in qualche modo antesignana della profonda inquietudine che attraversa Israele; aveva rappresentato con chiarezza le preoccupazioni legate all’indebolimento del potere d’acquisto e alla fragilità di una classe media in balia della variazioni dei costi, in un Paese con un salario minimo garantito di 5 euro l’ora e una città, Tel Aviv, tra le 15 più care al mondo.

Una fetta consistente della piazza protesta per la situazione della sanità, della scuola pubblica e dei trasporti. Medici e personale paramedico scarseggiano e i pochi rimasti trovano lavoro all’interno del settore privato, cliniche che offrono cure e servizi a chi ha sufficienti coperture assicurative; gli altri, la minoranza più povera composta non solo di arabi israeliani, pagano le conseguenze di ospedali statali che corrono dietro ai tagli e alle difficoltà organizzative. Stessa cosa per la scuola, con classi sempre affollate e con pochissimi insegnanti di ruolo a disposizione, e per il trasporto pubblico, caro ed inefficiente, con treni che impiegano almeno tre ore per percorrere i 70 chilometri che separano Gerusalemme da Tel Aviv.

Se da una parte si vuole ridimensionare un modello sociale, dall’altra resta comunque la paura di un Paese assediato: durante la manifestazione non è mai stato toccato un argomento spinoso come quello dell’occupazione della Cisgiordania, neanche da parte di uno dei leader del movimento, Daphni Leef, regista di venticinque anni ed eroina della rivolta che del rifiuto posto nel 2002 al servizio militare nei Territori occupati aveva fatto una coraggiosa ragione di lotta.

Se è vero infatti che la giustizia sociale passa anche da un modo nuovo di vedere il problema israelo-palestine, è anche vero che non si capisce come la Leef, che durate il comizio del 3 settembre ha dichiarato di sentirsi «fiera di essere israeliana da 7 settimane a questa parte», in una recente intervista televisiva abbia ammesso di non aver potuto adempiere agli obblighi di leva perché affetta da epilessia.

Secondo la maggior parte degli osservatori quello di domenica è stato un test decisivo per le sorti di un movimento che, nonostante gli sforzi, non ha ancora prodotto risultati sociali evidenti. Dopo la pausa di fine agosto, imposta dall’ondata di violenza che ha travolto il sud del Paese, la protesta avrebbe ripreso vigore proprio grazie allo scetticismo scaturito dall’offerta di dialogo del premier, poco convincente perché basata sulla creazione di una commissione di esperti guidata dall’economista Manuel Trajtenberg, che secondo molti non sarebbe in grado di dare risposte concrete ai problemi posti dalla piazza.

Benjamin Netanyahu ha comunque annunciato una serie di provvedimenti che per sua stessa ammissione non saranno però in grado di soddisfare tutte le richieste avanzate dai manifestanti ed è quindi ovvio che la piazza potrebbe tornare a farsi sentire; ma se questa nuova fase non dovesse essere confermata dai numeri vorrebbe dire che a vincere sarebbe stato quel 50% della popolazione per cui la sicurezza è ancora in cima alla lista delle priorità. D’altronde, in agenda ci sono la questione turca e l’imminente voto ONU sul riconoscimento della Palestina come Stato Autonomo; due punti che potrebbero funzionare da deterrente e rinviare l’esame delle rivendicazioni interne a data da destinarsi.

 

di Michele Paris

Le metropoli indiane sono tornate nel mirino del terrorismo questa mattina, quando una violenta esplosione in un tribunale della capitale, Nuova Delhi, ha causato la morte di almeno 9 persone. Alle 10.17 locali, la deflagrazione ha investito l’area d’ingresso dell’Alta Corte di Nuova Delhi, particolarmente affollata nella giornata di mercoledì, tradizionalmente dedicata alle cosiddette “udienze di pubblico interesse”.

L’esplosivo sarebbe stato piazzato in una valigetta all’interno del tribunale con circa 4 chili di nitrato di ammonio. Secondo il quotidiano indiano Hindustan Times, i morti sarebbero già saliti a 10, mentre sono una cinquantina i feriti, alcuni dei quali in condizioni critiche. La stessa Alta Corte della capitale indiana era già stata bersaglio di un attentato pochi mesi fa. Lo scorso 25 maggio, infatti, una piccola bomba lasciata in un’auto parcheggiata di fronte al tribunale esplose senza fare danni.

Questo precedente ha già contribuito al riaccendersi delle polemiche sull’adeguatezza delle misure prese dalle forze di sicurezza indiane per prevenire attentati terroristici. Tanto più che il paese da qualche anno è stato colpito da una serie di sanguinosi attentati, il più eclatante nel novembre 2008 a Mumbai dove persero la vita 160 persone.

Se la matrice del terrorismo islamico sembra molto probabile, il ministro degli Interni indiano, Palaniappan Chidambaram, ha detto che le autorità sono ancora nelle fasi iniziali delle indagini e perciò non sono ancora emerse piste percorribili. Nessuna rivendicazione è finora giunta alle autorità. Il segretario del ministero, R. K. Singh, ha tuttavia affermato che l’esplosione porta tutti i segni di un IED (ordigno esplosivo improvvisato) predisposto da un gruppo terroristico.

A suscitare ulteriori perplessità sulla competenza delle forze di sicurezza è stata un’altra dichiarazione dello stesso ministro Chidambaram, il quale ha confermato come Nuova Delhi sia da tempo nel mirino di gruppi terroristici e perciò gli obiettivi sensibili della capitale dovrebbero essere sorvegliati con particolare attenzione. L’intelligence indiana, ha continuato poi il ministro, condivide costantemente le informazioni a propria disposizione con la polizia di Delhi e l’ultimo rapporto è stato trasmesso solo lo scorso mese di luglio.

L’esplosione, se verrà confermata la pista islamica, rischia anche di incrinare i già difficili rapporti con il Pakistan, dove secondo l’India hanno trovato appoggio nel recente passato molti degli autori degli attentati commessi nel paese.

L’indagine è stata affidata all’unità antiterrorismo NIA, agenzia federale istituita dal governo indiano all’indomani degli attentati di Mumbai del 2008 per cercare di combattere più efficacemente il terrorismo sul territorio indiano.

di Mario Braconi

Con due mesi di ritardo rispetto alla data per la quale era atteso, lo scorso 2 settembre il report delle Nazioni Unite sul caso della Freedom Flotilla viene anticipato al New York Times, che lo pubblica integralmente. Le conclusioni del panel, presieduto dall’ex Primo Ministro neozelandese Palmer, dall’ex presidente colombiano Uribe, da un rappresentante israeliano e da uno turco, sono molto più salomoniche di quanto il governo turco sia disposto a tollerare.

Secondo i quattro membri della commissione, Israele ha agito legittimamente stabilendo il blocco navale sulle acque al largo di Gaza, considerate le minacce alla sua sicurezza rappresentate dal sistematico lancio di razzi sui suoi centri abitati da parte di Hamas. D’altra parte, l’uso della forza da parte dell’esercito israeliano in quella circostanza, in particolare l’assurda decisione di abbordare la Mavi Marmara, è stato “eccessivo ed irragionevole”.

A questo proposito, i referti autoptici acquisiti dalla commissione evidenziano come la ricostruzione dei fatti da parte di Israele, che continua a battere sul tasto della legittima difesa, sia palesemente falsa: risulta infatti che su Furkan Dogan, una delle vittime, sono state rilevate ferite al volto, sulla nuca, sulla schiena e sulla gamba sinistra. Elementi a sostegno della tesi secondo cui il colpo mortale lo abbia raggiunto quando si trovava già a terra, ferito. Se non si è trattato di esecuzione, poco ci è mancato.

Il ritardo nella pubblicazione dell’abrasivo documento, originariamente attesa per il 2 luglio, è stato causato da un tentativo di negoziazione andato per le lunghe e poi saltato. Secondo fonti turche, citate questa mattina da Haaretz, la velocità e la veemenza con cui sta reagendo il governo turco sarebbe motivata dal sospetto che siano stati proprio gli israeliani a anticipare alla stampa americana il report delle Nazioni Unite: “Avremmo potuto continuare a discutere dei problemi relativi alla formulazione del testo, e perfino trovare un accordo, ma la soffiata di Israele alla stampa ha gettato i nostri accordi alle ortiche”, sostiene una fonte turca.

Secondo la ricostruzione del New York Times, alla richiesta israeliana di non pubblicare il report, i turchi avrebbero opposto, come contropartita, il risarcimento ai parenti delle vittime e una dichiarazione ufficiale di scuse da parte di Israele. Lo stesso Palmer report raccomanda che Israele esprima “rammarico” per aver provocato nove morti, anche se non vere e proprie scuse.

Ed è proprio qui che le trattative si sono arenate. La destra nazionalista israeliana, così ben rappresentata dal primo ministro Netanyahu e dal titolare degli esteri Liebermann, è del tutto contraria alle scuse. Non che esse sarebbero sufficienti per riportare il sereno tra i due Paesi, vista l’insistenza con cui il premier turco Erdogan, continua a chiedere la fine al blocco navale israeliano su Gaza. L’atteggiamento del governo israeliano è ben riassunto dalle dichiarazioni rese stamattina dal ministro dei trasporti israeliano Israel Katz alla radio: “Israele difende i suoi interessi e non chiederà scusa”.

La crisi dei rapporti tra Turchia ed Israele non poteva cadere in un momento meno opportuno: come confermano le agenzie, il premier turco Recep Tayyip Erdogan sta organizzando una visita ufficiale in Egitto, Tunisia e Libia. Il 12 settembre Erdogan dovrebbe recarsi in Egitto, accompagnato dai suoi ministri degli Esteri e dell’Economia e da un gruppo di imprenditori. Ed è proprio questo il passaggio chiave: Erdogan attraverserà il confine egiziano per visitare la striscia di Gaza, dove comanda Hamas, nemico giurato di Israele? Benché il diretto interessato anche ieri si sia premurato di escludere questa possibilità, un eventuale cambio di programma assesterebbe un altro gravissimo colpo alle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Israele.

In ogni caso, come riporta oggi Haaretz, lo stesso Erdogan ha fatto sapere che i rapporti tra i due Paesi non devono essere ostaggio di una eventuale questione personale tra i due premier: quello che è in gioco è l’interesse nazionale della Turchia; che appare ormai pronta ad usare il pretesto (legittimo e ben supportato) della Freedom Flotilla per estendere la sua influenza sull’Egitto post-Mubarak.

Resta inspiegabile la politica autolesionista di Israele. Sembra proprio che il paese, sotto la guida tattica ed invelenita dei suoi governanti, stia facendo di tutto per inimicarsi i pochissimi paesi a maggioranza musulmana con cui era riuscita a costruire relazioni costruttive. Quella della Turchia (verso cui Israele ha esportato beni e servizi per oltre 600 milioni di euro solo nel primo semestre 2011) è una bella grana.

Ma potrebbe rappresentare un problema serissimo per lo Stato ebraico: se anche Giordania ed Egitto dovessero seguire l’esempio della Turchia, si aprirebbe una fase particolarmente difficile per Israele, ormai vittima della coazione all’autoisolamento messa in atto dagli irresponsabili e sprovveduti politici che lo governano.

di Mario Braconi

Dei documenti rinvenuti a Tripoli nell’ufficio dell’ex capo dei servizi segreti libici, Moussa Koussa, testimoniano di un periodo (tra il 2002 e il 2004) in cui i “democratici” servizi inglesi e americani facevano squadra i colleghi del sanguinario regime libico. Un terzetto di quelli da barzelletta (“ci sono un inglese, un americano e un libico...”) che, a dispetto delle differenze culturali e politiche, lavorava molto bene quando si trattava di turismo. Più che viaggiare in prima persona, qui si trattava di organizzare vacanze per altri, di solito sospetti terroristi, solitamente restii a lasciare i posti dove si erano rintanati soprattutto quando la destinazione finale era qualche paese nel quale la tortura è lo sport nazionale (tipo la Libia).

Niente di nuovo, il solito modo disinvolto ed ipocrita di combattere il delitto (terrorismo) con altri delitti (rapimento e tortura) che va sotto il nome di extraordinary rendition. Ma questa volta c’è un intoppo: pare che tra i beneficiari dei viaggi-premio per cui vanno famose le intelligence anglosassoni ci sia Abdelhakim Belhadj, conosciuto anche con il nome di guerra Abu Abdallah Sadiq, capo (discusso) del Consiglio Militare di Guerra nell’attuale assetto libico post-Gheddafi.

Belhadj è stato il numero uno del Movimento Libico Islamico (ex Movimento Combattente Libico Islamico), un’organizzazione che, a dispetto dei sospetti legami Al-Quaeda, è risorto di recente grazie agli “alleati”, enfatizzando il suo pedigree anti-Gheddafi e sfumando gli aspetti meno comodi relativi alla sospetta contiguità al terrorismo islamico. Così Belhadj e soci, ieri nemici numero uno, oggi sono nel gruppo dei migliori amici dell’Occidente, pronti a dare una mano a ricostruire la “nuova Libia democratica”.

Belhadj, a dispetto dell’attuale posizionamento tattico a fianco dei “liberatori” occidentali, ha dei conti in sospeso con gli 007 di Sua Maestà e con la CIA. Nel 2004, infatti, mentre si trovava a Kuala Lumpur, tentò di recarsi a Londra via Pechino, usando per l’occasione un passaporto francese: permesso negato, anche se per i cittadini europei che desiderino entrare nel Regno Unito non serve ovviamente alcun visto. Secondo la ricostruzione del Guardian, a quel punto Belhadj decide di giocare (quasi) pulito: va all’ambasciata britannica di Kuala Lumpur ad esprimere la sua intenzione di chiedere asilo politico in Gran Bretagna.

Nuovo viaggio, nuova identità e nuovo passaporto, questa volta marocchino: nuovo scalo, fatale, a Bangkok, dove Belhadj viene fermato dalle autorità tailandesi. Racconta Belhadj come dopo essere stato torturato nello stesso aeroporto da due uomini della CIA, venne deportato in Libia, proprio tra le braccia degli agenti di Gheddafi che non vedevano l’ora di gettargli le braccia al collo.

Se i documenti pubblicati ieri sono autentici, non c’è modo per gli Inglesi di sostenere la loro estraneità a questo episodio di rendition illegale di un sospetto terrorista: a dimostrarlo, l’incauta lettera spedita da Mark Allen - allora capo dell’Antiterrorismo britannico - a Moussa Koussa, finita nelle mani della ONG americana Human Rights Watch. Nella missiva l’acuto dirigente fa i complimenti a Koussa per il dono che gli è stato appena recapitato (la testa del nemico del regime Belhadj). L’orgoglio per il “buon lavoro” svolto dai suoi uomini lo tradisce: ci tiene a precisare che l’intelligence del caso Abu Abdallah [alias di Belhadj] è stata inglese”.

Il testo della lettera, di cui il Telegraph pubblica brevi stralci, è illuminante: “Caro Moussa [...] la cosa divertente è che ho ricevuto dagli americani la richiesta di far transitare le richieste di da Belhadj attraverso personale americano. Io non ci penso neanche. So bene che non sono stato io a pagare il cargo [usato per il trasferimento, pare messo a disposizione dai volenterosi colleghi della CIA]. Ma credo di avere il diritto di trattare direttamente con te su questo tema e ti sono molto grato per l’aiuto che ci stai dando”. Grand’uomo, Allen: costretto alle dimissioni dai servizi a causa dell’imbarazzante “dossier Iraq”, che spiegò agli Inglesi perché “Baghdad delenda est”, nel 2004 è stato assunto alla BP, dove pare si sia fatto molto onore siglando contratti milionari con l’allora “quasi nemico” libico.

Tra una sessione di tortura e l’altra, pare che Belhadj non si annoiasse: era infatti continuamente interrogato, oltre che dagli uomini di Moussa Koussa, non solo da un team di inglesi (capitanati da una signora), ma anche da rappresentanti di altri Paesi (compresa l’Italia). Passò i cinque anni successivi in carcere.

E c’è un altro documento, reso pubblico ieri, altrettanto imbarazzante per l’intelligence britannica: un fax spedito dalla CIA a Tripoli il 23/03/2003, nel quale l’agenzia americana si mette a disposizione per fornire il passaggio aereo da Hong Kong, dove si rifugiava Abu Munthir, vice di Belhadj, a Tripoli. Un documento grottesco dal quale traspare la curiosa combinazione d’ingenuità, spregiudicatezza e ipocrisia che caratterizzano la politica estera degli Stati Uniti.

“Siamo al corrente che avete collaborato con i servizi britannici per la deportazione di Abu Munthir e che avevate un aereo disponibile allo scopo alle Maldive.” Il governo di Hong Kong non desidera avere un velivolo libico sul suo territorio - continua il documento - ma è disponibile ad dare l’OK al trasferimento se effettuato attraverso un aereo di nazionalità terza. Se il costo del trasferimento è un problema, la CIA è pronta a dare una mano”. Nella comunicazione si afferma, per ben due volte, che la collaborazione americana è condizionata alla formale rassicurazione che il Abu Munthir e la sua famiglia saranno trattati con umanità dai libici (!).

Dopo l’esplosione di quest’ultimo scandalo, che certifica un coinvolgimento diretto di MI5 ed MI6 nei casi di extraordinary rendition, sarà ancora più difficile per gli inglesi sostenere che l’unica responsabilità del governo è stata quella di essere troppo lento a comprendere il fenomeno, il tipo di giustificazione patetica che pure è stata accettata in passato dall’Intelligence and Security Committee, il comitato nominato dal Primo Ministro con il compito di supervisionare il lavoro dei servizi segreti.


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