di Eugenio Roscini Vitali

Pressato dalla questione turca e dall’eterno problema israelo-palestinese, Netanyahu deve fare i conti con la più grande protesta sociale della storia dello Stato ebraico. Centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in almeno 16 città israeliane, da Tel Aviv a Gerusalemme, da Haifa a Eilat, gente decisa ad ottenere dall’establishment cambiamenti reali per una politica economica e sociale più solidale.

Il movimento, nato per iniziativa di un gruppo di militanti dell’Unione degli studenti universitari con il primo grande sit-in del 23 luglio scorso a Tel Aviv, ha ormai coinvolto l’intero Paese, mobilitando in modo trasversale la generazione giovanile e la classe media, persone che chiedono a gran voce più equità e meno liberismo.

Lo scorso 6 agosto gli indignados israeliani avevano portato in piazza 300 mila studenti; domenica pomeriggio i dimostranti sono stati 450 mila, più delle metà dei quali riuniti nella sola Kikar Hamedina, la grande piazza di Tel Aviv all’incrocio tra viale Jabotinsky e viale Weizman, motore di una protesta simboleggiata dalle tende piantate in Rothschild boulevard, nel cuore della città; 50 mila nella Paris Square di Gerusalemme, 40 mila ad Haifa, 12 mila ad  Afula, 7 mila a Rosh Pina.

C’è chi crede che la protesta potrebbe non produrre gli effetti sperati, soprattutto a causa della scarsa coesione del fronte sociale: la gran parte di questi “nuovi israeliani” manifesta contro il carovita, per ottenere sgravi fiscali e maggiore attenzione all’edilizia popolare; ci sono quelli che attaccano le grandi aziende e le banche, prodotto delle scelte neoliberiste degli ultimi anni, chi chiede di tornare al sistema socialista abbandonato 20 anni fa e al modello del welfare state e dell’istruzione a portata di tutti.

Ma c’è anche chi si interroga su settori fino ad oggi reputati intoccabili, su questioni centrali come i costi dell’occupazione dei Territori palestinesi, il peso delle sovvenzioni alle colonie e l’enorme budget riservato alle spese militari, il 6,3% del PIL, una cifra destinata ad aumentare visti programmi legati  alla sicurezza e la continua minaccia a cui è sottoposto il Paese.

Prima ancora degli studenti di Rothschild boulevard a giugno la protesta popolare aveva preso spunto dall’aumento del prezzo del formaggio fresco, cresciuto del 75% in un anno. La mobilitazione, organizzata via internet, si era rivelata un autentico successo e il Governo, che inizialmente aveva snobbato chi esortava al boicottaggio del prodotto, era stato costretto a prendere posizione contro le imprese casearie per indurle a rivedere i prezzi a ribasso.

La crisi del formaggio era stata significativa ed in qualche modo antesignana della profonda inquietudine che attraversa Israele; aveva rappresentato con chiarezza le preoccupazioni legate all’indebolimento del potere d’acquisto e alla fragilità di una classe media in balia della variazioni dei costi, in un Paese con un salario minimo garantito di 5 euro l’ora e una città, Tel Aviv, tra le 15 più care al mondo.

Una fetta consistente della piazza protesta per la situazione della sanità, della scuola pubblica e dei trasporti. Medici e personale paramedico scarseggiano e i pochi rimasti trovano lavoro all’interno del settore privato, cliniche che offrono cure e servizi a chi ha sufficienti coperture assicurative; gli altri, la minoranza più povera composta non solo di arabi israeliani, pagano le conseguenze di ospedali statali che corrono dietro ai tagli e alle difficoltà organizzative. Stessa cosa per la scuola, con classi sempre affollate e con pochissimi insegnanti di ruolo a disposizione, e per il trasporto pubblico, caro ed inefficiente, con treni che impiegano almeno tre ore per percorrere i 70 chilometri che separano Gerusalemme da Tel Aviv.

Se da una parte si vuole ridimensionare un modello sociale, dall’altra resta comunque la paura di un Paese assediato: durante la manifestazione non è mai stato toccato un argomento spinoso come quello dell’occupazione della Cisgiordania, neanche da parte di uno dei leader del movimento, Daphni Leef, regista di venticinque anni ed eroina della rivolta che del rifiuto posto nel 2002 al servizio militare nei Territori occupati aveva fatto una coraggiosa ragione di lotta.

Se è vero infatti che la giustizia sociale passa anche da un modo nuovo di vedere il problema israelo-palestine, è anche vero che non si capisce come la Leef, che durate il comizio del 3 settembre ha dichiarato di sentirsi «fiera di essere israeliana da 7 settimane a questa parte», in una recente intervista televisiva abbia ammesso di non aver potuto adempiere agli obblighi di leva perché affetta da epilessia.

Secondo la maggior parte degli osservatori quello di domenica è stato un test decisivo per le sorti di un movimento che, nonostante gli sforzi, non ha ancora prodotto risultati sociali evidenti. Dopo la pausa di fine agosto, imposta dall’ondata di violenza che ha travolto il sud del Paese, la protesta avrebbe ripreso vigore proprio grazie allo scetticismo scaturito dall’offerta di dialogo del premier, poco convincente perché basata sulla creazione di una commissione di esperti guidata dall’economista Manuel Trajtenberg, che secondo molti non sarebbe in grado di dare risposte concrete ai problemi posti dalla piazza.

Benjamin Netanyahu ha comunque annunciato una serie di provvedimenti che per sua stessa ammissione non saranno però in grado di soddisfare tutte le richieste avanzate dai manifestanti ed è quindi ovvio che la piazza potrebbe tornare a farsi sentire; ma se questa nuova fase non dovesse essere confermata dai numeri vorrebbe dire che a vincere sarebbe stato quel 50% della popolazione per cui la sicurezza è ancora in cima alla lista delle priorità. D’altronde, in agenda ci sono la questione turca e l’imminente voto ONU sul riconoscimento della Palestina come Stato Autonomo; due punti che potrebbero funzionare da deterrente e rinviare l’esame delle rivendicazioni interne a data da destinarsi.

 

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