di Michele Paris

Dopo quasi sei mesi dalla durissima repressione delle manifestazioni democratiche in Bahrain, il movimento di protesta nel piccolo regno del Golfo Persico sembra aver riacquistato un certo vigore negli ultimi giorni. Con l’attenzione della comunità internazionale rivolta al soccorso dei “ribelli” in Libia, un silenzio pressoché assoluto era calato sulle sorti dell’opposizione in Bahrain, dove la casa regnante alleata degli Stati Uniti aveva così avuto il via libera per soffocare il dissenso con metodi brutali.

A segnare la ripresa delle tensioni in Bahrain è stato l’annuncio da parte di due detenuti di iniziare uno sciopero della fame per protestare contro la loro carcerazione motivata politicamente. L’attivista per i diritti umani Abdulhadi al-Khawaja e il membro del partito Haq dell’opposizione, Abduljalil al-Singace, erano stati arrestati durante le proteste nel mese di marzo e a giugno sono stati condannati all’ergastolo assieme ad altri sei detenuti. Nel comunicare la decisione alla stampa, la figlia di al-Khawaja ha rivelato che il padre è stato più volte picchiato durante la sua detenzione.

Il 30 agosto, poi, nel corso di una manifestazione pacifica nella località di Sitra, gli animi si sono accesi tra la popolazione in seguito all’uccisione del 14enne Ali Jawad, colpito in pieno volto da un candelotto lacrimogeno sparato da breve distanza dalle forze di sicurezza del regime. Nonostante il governo abbia negato che la polizia era impegnata a Sitra nel momento in cui è avvenuta la morte del giovane manifestante, il giorno successivo nella città nord-orientale del Bahrain sono scese in piazza dieci mila persone per protestare contro il regime.

Ancora più recentemente, infine, nuove manifestazioni sarebbero andate in scena domenica scorsa, dopo che la maggioranza sciita della popolazione, secondo quanto riportato dall’iraniana Press TV, avrebbe reagito all’ennesima promessa fatta dal sovrano in diretta televisiva di graziare i detenuti politici e risarcire i familiari delle vittime degli abusi durante le proteste di febbraio e marzo.

Il ritorno di proteste diffuse nel paese appare in ogni caso ancora incerto, anche se l’opposizione sembra aver già riacquistato fiducia, come dimostra una recente intervista rilasciata all’agenzia di stampa iraniana FNA da Saeed al-Shihabi, esponente del Movimento per la Libertà del Bahrain, il quale prevede addirittura la caduta del regime della famiglia al-Khalifa nelle prossime settimane.

La primavera araba aveva travolto anche il Bahrain a partire dal febbraio scorso, quando centinaia di migliaia di persone - in un paese che conta 1,2 milioni di abitanti - avevano invaso le strade della capitale, Manama, e degli altri principali centri urbani. L’avversione per il monarca, Hamad bin Isa al-Khalifa, e il suo entourage che detiene le leve del potere era finalmente esplosa dopo decenni di tensioni e conflitti latenti. Nonostante le proteste fossero scaturite dal malcontento della maggioranza della popolazione sciita (70 per cento), discriminata dalla casa regnante e dalla minoranza sunnita, le manifestazioni non assunsero un carattere settario.

La propaganda del regime fece però di tutto per dipingere il movimento come una cospirazione alimentata dal vicino Iran, anche se l’influenza di quest’ultimo paese non arabo sugli sciiti del Bahrain è in realtà limitata, in quanto essi tendono a guardare piuttosto verso le autorità religiose di centri come Kerbala o Najaf, in Iraq.

Le manifestazioni vedevano infatti sfilare assieme sciiti e sunniti, mentre le richieste principali comprendevano maggiori diritti democratici, giustizia sociale ed una più equa distribuzione dei proventi petroliferi. Di fronte al rapido dilagare delle proteste, il regime promise dapprima di voler procedere con una serie di riforme del sistema per poi intraprendere apertamente la strada della repressione più violenta.

La reazione dei regnanti del Bahrain ottenne la più o meno tacita approvazione di Washington e il sostegno materiale dell’altro principale sponsor, l’Arabia Saudita, che il 14 marzo inviò 1.200 soldati per soffocare definitivamente la rivolta. Il timore dei sovrani sauditi era il possibile contagio delle proteste nella regione orientale all’interno dei propri confini dove vive una consistente minoranza sciita. Allo stesso modo, l’eventuale caduta della monarchia al-Khalifa e un governo espressione del popolo avrebbe potuto rappresentare una pericolosa espansione dell’influenza iraniana nel Golfo Persico.

In questa operazione militare, patrocinata dai paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), tutti legati a doppio filo con Washington, vennero assassinati decine di manifestanti, mentre centinaia furono gli arresti e i successivi casi di percosse e torture da parte delle forze di sicurezza del regime. Secondo i dati raccolti dalle organizzazioni a difesa dei diritti umani, circa due mila dipendenti pubblici vennero licenziati per aver preso parte alle manifestazioni e numerosi medici e infermieri che fornirono assistenza ai rivoltosi feriti finirono sotto processo per tradimento proprio mentre le forze di sicurezza prelevavano dagli ospedali i manifestanti feriti, finiti poi in carcere o spariti nel nulla.

Nelle settimane successive vennero demolite numerose moschee sciite, così come in precedenza era stato abbattuto nel centro di Manama il monumento che rappresentava una gigantesca perla, diventato il ritrovo e il simbolo stesso della protesta. Dal mese di marzo sono stati inoltre istituiti speciali tribunali militari che hanno emesso pesanti condanne contro gli attivisti e i membri dell’opposizione più o meno ufficiale. Puntualmente, i detenuti si sono visti negare l’accesso ai loro legali e le torture sono state all’ordine del giorno.

Al contrario di quanto accaduto in Libia, la repressione in Bahrain ha provocato solo isolate dichiarazioni di circostanza da parte dell’Occidente. La condanna ufficiale delle violenze si è accompagnata al sostegno alla monarchia regnante per il dialogo e il cosiddetto processo di riforme promesso. L’amministrazione Obama, in particolare, pur chiedendo al regime di ascoltare le richieste dell’opposizione, ha continuato a mantenere stretti rapporti con il governo di un paese strategicamente fondamentale e che ospita la base della Quinta Flotta statunitense.

Mentre la repressione infuriava in Bahrain, esponenti di spicco del governo americano manifestavano la loro solidarietà con il regime, come confermano le visite a partire dal febbraio scorso a Manama, ad esempio, dell’allora Segretario alla Difesa Robert Gates e del capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen. A giugno, poi, Obama ha accolto con tutti gli onori del caso alla Casa Bianca il principe ereditario del Bahrain, Salman al-Khalifa, elogiandolo per l’impegno della sua famiglia nel processo di “riforma” in atto.

La doppiezza dell’approccio americano nei confronti della primavera araba è emerso dunque con particolare evidenza proprio dalle vicende di questo minuscolo paese arabo dall’importanza apparentemente trascurabile. Per Washington, insomma, il sostegno agli ideali di democrazia che avrebbero pervaso le proteste in Libia o quelle in corso in Siria si ferma rigorosamente dove iniziano i propri interessi strategici.

Per Washington, e per l’alleato saudita, un Bahrain al di fuori della propria sfera d’influenza, e consegnato all’Iran, appare del tutto impensabile, al punto da autorizzare di fatto l’annientamento di qualsiasi rigurgito di protesta. Una repressione senza scrupoli andata avanti per mesi nel disinteresse quasi totale dei media occidentali ma che rischia di radicalizzare ancora di più l’opposizione nel paese e di far riemergere nuovi scontri in un’area cruciale per gli equilibri mediorientali.

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