di Mario Braconi

“Credo che il Presidente Obama dovrebbe dirlo chiaro e tondo: [noi Americani] dobbiamo porre il nostro veto sulla questione”. Così Ileana Ros-Lehtinen, capo repubblicano della United States House Committee on Foreign Affairs, ha risposto al giornalista Reuters che al telefono le ha sollecitato un commento sulla questione della richiesta palestinese di vedere riconosciuto lo status di “stato non membro” ONU di fronte alla imminente Assemblea Generale (14 settembre).

Ros-Lehtinen ha addirittura presentato un progetto di legge che prevede il taglio dei contributi a favore di qualsiasi organizzazione ONU che eventualmente riconosca alla Palestina il cambio fomale di status da “entità” a “stato non membro”. Un modo non proprio elegante (ricattatorio, perfino) per far pesare il suo ruolo del suo Paese, principale finanziatore dell’Organizzazione internazionale: gli USA, infatti, finanziano il 22% dei suoi costi amministrativi e un quarto dei costi delle missioni di peacekeeping.

D’altra parte, la storia della Ros-Lehtinen parla chiaro: estremista di destra, sostenitrice attiva dei terroristi cubanoamericani Orlando Bosh e Luis Posada Carriles, amica entusiasta del golpista hondureno Micheletti, ha dedicato la sua carriera politica ai legami con i peggiori arnesi dell’ultradestra internazionale. Reginetta dei gusanos cubanoamericani di Miami, è impegnata nel sostegno attivo del terrorismo contro l’isola caraibica e ha ripetutamente chiesto agli Usa di entrare in guerra contro Cuba e Venezuela. Che un personaggio come la signora Lehtinen possa arrivare alla guida della Commissione Esteri del Senato americano, la dice lunga sul degrado dell’istituzione stessa.

Del resto, diversi anni fa prima di lei al suo posto sedeva Jessie Helms, ultra falco repubblicano, amico intimo di Pinochet e Suharto e di una lunga serie di personaggi simili. Nel nome della lotta al comunismo, l’ultradestra reazionaria statunitense ha ormai da tempo travalicato gli ambiti delle legittime posizioni politiche; lo stesso Tea Party è espressione di questa deriva inarrestabile alla quale, ormai sempre più spesso, s’ispirano i malati di mente dal grilletto facile.

Ma la Ros-Lehtinen incarna in profondità lo spirito reazionario americano e la sola idea che in Medio Oriente possa trovare spazio la soluzione politica dei “due popoli e due stati” innesca una reazione furibonda. Non che sul versante del governo USA le cose siano troppo diverse: oltre al senatore Lieberman, nemico giurato di Cuba, Venezuela e Palestina, Esther Brimmer, vice Segretario di Stato con delega alle organizzazioni internazionali, ha dichiarato che l’Amministrazione Obama continuerà a “combattere con forza contro ogni tentativo di “usare le Nazioni Unite come luogo” in cui promuovere lo Stato palestinese.

A dispetto della palese e netta contrarietà statunitense al progetto e delle complicazioni formali che il suo eventuale successo porterebbe con sé, Mahmoud Abbas continua per la sua strada: non si può biasimarlo, considerato il lungo stallo dei negoziati con Israele e l’attuale silenzio assordante degli USA sulla questione israelo-palestinese.

Lo sforzo negoziale di Obama in queste ore si è limitato all’invio a Ramallah di due inviati allo scopo, pare, di limitare i danni di un possibile scambio abrasivo a mezzo stampa. Da un punto di vista dei numeri in assemblea la cosa è fattibile: basterebbe infatti una maggioranza di due terzi, 129 voti su 193. Un obiettivo tecnicamente a portata di mano, a dar retta al negoziatore palestinese Nabil Shaath, che il 4 settembre si vantava pubblicamente di aver contato ben 140 stati pronti a votare a favore.

Ma ai Palestinesi servirebbe davvero divenire “stato non membro dell’ONU, come il Vaticano? Benché, come chiarito dall’inviato di Abbas, Ryad Mansour, l’obiettivo finale sia quello di ottenere lo status di “stato membro”, la fermata intermedia a “stato non membro” porterebbe con sé qualche dividendo non solo politico. Secondo alcuni diplomatici europei sentiti da Bloomberg sotto condizione di anonimità, una volta divenuta Stato Non Membro, l’Autorità Palestinese potrebbe ad esempio firmare il Trattato di Roma. Cosa che le consentirebbe di adire alla Corte Penale Internazionale per cercare un ristoro agli abusi perpetrati dalle truppe israeliane, ad esempio nel corso di quella collezione di crimini di guerra che va sotto l’Operazione Piombo Fuso.

La strada “giudiziaria” internazionale non è tutta in discesa, comunque. La Corte Penale Internazionale, spiegava ieri su Haaretz il professor Robbie Sabel, esperto di diritto internazionale ed ex consigliere del ministero degli Esteri israeliano, fa parte di una giurisdizione complementare: il che vuol dire che non interviene nei casi in cui la denuncia per crimini di guerra è stata già presa in carico, ad esempio da una corte israeliana. Ma nei casi in cui non c’è un’inchiesta per crimini di guerra con degli imputati, la Corte Penale Internazionale potrebbe dire la sua: un caso tipico potrebbe quello degli insediamenti israeliani.

Secondo Sabel, inoltre, potrebbe risultare problematico per i palestinesi ottenere la procedura per fatti avvenuti prima del riconoscimento dello stato palestinese: con il più classico dei cavilli giuridici, si potrebbe argomentare che la richiesta all’ONU di essere riconosciuta come stato costituirebbe evidenza sufficiente a sostenere che prima di quel momento la Palestina non era uno stato, e quindi non aveva ragioni di adire il Tribunale. La portata pratica della mossa palestinese, insomma, è molto discutibile. Ma vale come segnale della crescente frustrazione palestinese per l’inazione americana.

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