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di Carlo Musilli
L'ondata rivoluzionaria che sta attraversando i paesi nordafricani e mediorientali è arrivata a toccare le coste del Bahrein. Nel piccolo arcipelago del Golfo Persico, il malcontento popolare dura da anni. Ma è stato soprattutto l'esempio egiziano a sdoganare la possibilità di una vera rivolta. La maggioranza sciita, che costituisce il 70% della popolazione, ha deciso così di iniziare a far davvero la voce grossa contro il regime sunnita che da quarant'anni governa il Paese.
Gli scontri sono iniziati lunedì scorso, nei villaggi intorno a Manama, la capitale. I manifestanti chiedono riforme che trasformino il Bahrein da monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono anche le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il Paese dal 1971 (anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna), è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Dalla rivoluzione egiziana, i contestatori hanno ripreso il principale slogan ("Il popolo vuole il crollo del regime") e la più visibile fra le modalità di protesta: l'occupazione del cuore della capitale. Centinaia di persone si sono accampate così in piazza della Perla, la piazza Tahir del Bahrein.
Ma è stata subito evidente la distanza che corre fra Manama e il Cairo. Nell'isola del Golfo, le forze di sicurezza sono costituite per lo più da siriani, giordani e pachistani. Stranieri che non hanno alcun legame con la popolazione locale. I manifestanti sono stati così attaccati nel cuore della notte, mentre dormivano. A suon di manganelli, pallottole e lacrimogeni, la polizia ha impiegato non più di 20 minuti a sgombrarli. E per evitare che l'episodio si ripeta, oggi la città è presidiata dai blindati dell'esercito. Nel frattempo, il bilancio degli scontri è salito a 5 morti, 60 dispersi e oltre 200 feriti. Com'è ovvio, tutto ciò ha dato il colpo di grazia al già precario equilibrio politico del Paese. Il capo del movimento d'opposizione Wefaq, sheikh Ali Salman, ha ritirato in blocco i suoi 18 deputati dal Parlamento. Quasi la metà, visto che in tutto i seggi sono 40.
"Chiediamo al Bahrein, alleato e amico dell'America, moderazione in vista di possibili nuovi scontri. Gli Stati Uniti sostengono il processo per veri, significativi cambiamenti politici nel Paese". E' questo l'appello lanciato dal segretario di Stato Usa, Hilary Clinton, in tutto simile a quello indirizzato qualche settimana fa a Hosni Mubarak. La verità è che Washington è terrorizzata dalla possibilità di una guerra civile in Bahrein. Per quanto trascurabile possa sembrare a guardarlo su una carta geografica, il Paese ha un'importanza strategica cruciale: è qui che gli Stati Uniti hanno stanziato il quartier generale della Quinta Flotta della loro marina militare.
Per gli americani si tratta dell'unico punto di riferimento che consente di tenere sotto controllo le acque del Golfo. Da questa base le portaerei di Washington sorvegliano il transito del 20% del petrolio mondiale, sostengono le operazioni in Afghanistan e fanno sentire costantemente il fiato sul collo all'Iran. Sempre da qui sono partiti gli attacchi aerei durante la prima e la seconda guerra del Golfo. Perdere il Bahrein, è evidente, sarebbe una catastrofe. Se una rivoluzione portasse al potere un regime sciita, il Paese cadrebbe nelle braccia di Teheran e l'intera geopolitica della zona ne uscirebbe ridisegnata. La base americana più vicina, infatti, è sull'atollo sperduto di Diego Garcia, 1.600 chilometri a sud dell'India.
Come accaduto in l'Egitto con la dittatura di Mubarak, anche in Bahrein gli Stati Uniti sono stati ben lieti di appoggiare per anni un regime che rispondeva perfettamente alle loro esigenze in termini di equilibri internazionali. Una volta scoppiata la rivolta popolare, la democrazia non è la strada migliore da scegliere per motivazioni astrattamente ideologiche. E' piuttosto l'unica alternativa a una possibile debacle. Non è per le vite o per i diritti umani che Washington chiede di scongiurare la guerra civile a Manama, quanto per il rischio inaccettabile per la stabilità dell’area che questa comporterebbe.
Così si spiega la telefonata, di cui lo stesso Pentagono ha dato notizia, fra il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, e il principe ereditario del Bahrein, Salman. I due avrebbero parlato della "situazione attuale sul piano della sicurezza". E davvero avranno avuto di che discutere, soprattutto se sono veri gli episodi riferiti da Nicholas Kristof, inviato del New York Times sull'isoletta del Golfo. Via Twitter, il giornalista americano dipinge una situazione molto più grave di quella finora raccontata dai media: infermieri minacciati per evitare che soccorrano i feriti, prigionieri giustiziati a sangue freddo in mezzo alla strada, reporter segregati in aeroporto perché nessuno sappia. Nemmeno Washington?
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di Alessio Marchetti
PRAGA. Dal 1989, anno della caduta dei regimi comunisti, c'é stata una progressiva ed inesorabile avanzata della criminalità organizzata nei paesi dell'Europa Centrale, in particolar modo in Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Proprio qui, nel cuore geografico dell'Europa, diverse organizzazioni criminali hanno deciso di impiantare i loro quartier generali da cui organizzare e gestire i loro traffici all'interno dell'Unione Europea. Partiamo proprio dall'Ungheria, strategico ponte tra l'Europa dell'Est e i Balcani, porto geografico ideale dove organizzare il proprio centro logistico per un'attività criminale per i traffici di merce illegale e armi dall'ex Yugoslavia e dai porti del Mar Egeo verso Est e viceversa.
Come in molti altri paesi post comunisti, molto del capitale illegale accumulato in Ungheria si é realizzato durante gli anni '90, grazie al contrabbando, agli appalti pubblici e alla corruzione delle istituzioni giudiziarie e delle forze di sicurezza. Il network delle attività criminali, infatti, é stato alimentato in quegli anni dai membri dei servizi di sicurezza dell'ex regime comunista, poliziotti corrotti e servizi segreti, e da quelle figure che già operavano sul mercato nero prima del 1989 e che venivano protetti proprio dalla corruzione diffusa. Tutto ciò ha determinato scarsi controlli di sicurezza e una generale disattenzione delle normative. Il rapido sviluppo di questo network criminale ha portato al controllo attuale di oltre il 20% del PIL ungherese.
La favorevole posizione geografica del paese rende più facili i movimenti di merce illegale su gomma e treno. Per esempio, dall'Ucraina entrano tabacco e giovani donne da avviare alla prostituzione in Austria; dalla Romania passano forze lavoro irregolari provenienti dal Caucaso; dalla Croazia e dalla Serbia sono importate armi e droga, che poi vengono indirizzate altrove. Le organizzazioni criminale hanno bisogno di far muovere continuamente e velocemente le loro merci e, da questo punto di vista, l'Ungheria ha una solida base infrastrutturale. Budapest é la capitale europea della pornografia, del contrabbando di sigarette nonché il punto di incontro e negoziazione tra i vari gruppi criminali che commerciano in armi, prostituzione e droga e che qui provengono da tutta Europa per concludere i loro affari.
Il Consiglio di Sicurezza Ungherese, un'agenzia pubblica preposta al controllo delle attività illecite, ha di recente riportato uno studio secondo cui il numero delle organizzazioni criminali presenti nel paese é in costante crescita. In particolare, le imprese edili, immobiliari e le società finanziarie sono quelle a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, dando origine a quel diffusissimo fenomeno del lavaggio del denaro sporco. Si é anche rilevato che, recentemente, organizzazioni provenienti dalla Cina e dal Sud America hanno iniziato proprio dall'Ungheria la loro invasione verso l'Europa occidentale. La crescita delle mafie internazionali in Ungheria si é registrata particolarmente dopo il 1 maggio 2004, giorno dell'accesso del paese all'UE. A questo proposito, da alcuni anni, forze congiunte di polizia di Germania, Austria, Italia, Svezia e Stati Uniti stanno collaborando attivamente con la polizia ungherese e hanno stabilito nel territorio magiaro delle task force per monitorare la situazione direttamente alla fonte.
La situazione non si può certo definire migliore in Repubblica Ceca, sicuramente l'economia più fiorente e avanzata dell'ex blocco comunista in Europa centro-orientale. Le forze di sicurezza locali hanno stilato recentemente un rapporto secondo il quale sono oltre 100 le organizzazioni criminali presenti sul territorio: queste contano almeno 3000 adepti, tra i quali vari ragionieri contabili, commercialisti ed avvocati. Almeno 30 di queste organizzazioni sono integrate con altri gruppi all'estero e con diverse attività in vari paesi europei.
La mafia presente a Praga é soprattutto russa, ucraina, georgiana e moldava. Recentemente la polizia ceca ha registrato l'incremento della presenza anche di gruppi provenienti dalla Croazia, Serbia, Albania, Bulgaria, Romania, Vietnam e Cina, cosi come di turchi, specializzati nel lavaggio del denaro sporco, e greci, che gestiscono il commercio di droga e prostituzione.
Da non sottovalutare poi anche i gruppi mafiosi sudamericani, libanesi, iraniani e nigeriani, oltre alla Camorra italiana, ben presente soprattutto nel settore immobiliare. I cechi tendono a non creare una propria rete criminale quanto piuttosto a servire e supportare le mafie straniere. Questo, oltre a confermare il fenomeno mafioso non autoctono ma prevalentemente d’importazione, crea problemi alle forze di sicurezza locali che non riescono a tracciare i rapporti tra i vari gruppi e i loro leader. Dato la vicinanza, la Repubblica Ceca é considerata un'ottima testa di ponte per far entrare droga, prostituzione e altri traffici illegali in Germania. Il paese serve anche come base per il traffico verso i paesi scandinavi, in particolare la Svezia, di materiale umano proveniente dalla Moldova e dall'Ucraina.
Se la Repubblica Ceca piange, i cugini della Slovacchia non ridono. Secondo statistiche della polizia, a Bratislava sono presenti oltre 50 gruppi mafiosi che contano circa 700 adepti; le organizzazioni criminali sono in prevalenza kosovare, ucraine, russe, georgiane e locali. La Slovacchia, a partire dagli anni '90, é stata tacitamente divisa in zone di influenza tra i vari gruppi criminali, in modo da evitare inutile guerre che avevano negli anni precedenti prodotto numerose vittime. La capitale Bratislava ha una fortissima presenza albanese specializzata nella prostituzione illegale con dei ricavi annui stimati in oltre 50 milioni di euro. I rumeni invece sono specializzati nel furto d'auto, da rivendere poi, intere o a pezzi, nei mercati tedeschi e olandesi. Il commercio della droga é gestito dai turchi e dai kosovari, che la esportano prevalentemente in Germania, Olanda e Scandinavia. In Slovacchia c'é anche una certa attività nel mercato illegale di armi, provenienti dalla Moldova, dal Caucaso e dai Balcani: i clienti di questo tipo di attività provengono prevalentemente dall'Africa Sub-Sahariana e dal Medio Oriente e qui comprano soprattutto esplosivi e missili anti-carro.
Tra i gruppi criminali che hanno visto la maggiore crescita in questi ultimi anni, in termine di numeri e di volume di affari, ci sono sicuramente i cinesi e i vietnamiti, che sono riusciti a costruire un network consolidato ed affidabile che va dalla Scozia fino alla Grecia. I Vietnamiti sono considerati i maggiori importatori di materiale di contrabbando (sigarette, tessile e altri beni di consumo) ed hanno un sistema molto ben oliato per quanto concerne l'immigrazione irregolare dal sud est asiatico all'Europa. Si capisce quindi come dalla caduta del comunismo, l'attività delle organizzazioni criminali si sia internazionalizzata e sia etnicamente molto sfaccettata. Per facilitare l'integrazione dei propri adepti, le mafie organizzano matrimoni con i cittadini locali, per ottenerne la cittadinanza e il passaporto europeo.
Anche l'attività legata al commercio della droga é totalmente in mano alle organizzazione straniere. L'eroina e la cocaina vendute a Praga o Budapest costano la metà di quella venduta a Parigi o Berlino: questo crea quel fenomeno conosciuto con il nome di narcoturismo, che insieme al turismo del sesso garantiscono le due voci di maggiori introiti nell'attività giornaliera dei gruppi criminali, che con queste finanziano il resto dei loro commerci.
Basta pensare che nella sola Budapest ci sono circa mille escort ingaggiate dalle mafie che generano un ritorno monetario annuo valutabile in circa 80 milioni di euro. Se a questo aggiungiamo il resto del vasto spettro di affari legati all'industria del sesso (bordelli, discoteche, cinema porno, call center, siti internet porno, ecc) allora il volume di affari é stimato raggiungere i cinque miliardi di euro.
Sovente il business illegale si mischia e diventa tutt'uno con quello legale. Praga in particolare, negli ultimi anni, ha subito l'invasione della mafia russa che ha lavato il proprio denaro sporco investendo in attività del tutto legali come hotels, ristoranti, agenzie di scommesse e aziende di costruzioni o immobiliari. Il fine ultimo di queste organizzazioni, in particolare di quella russa, secondo un rapporto stilato di recente dal Ministero dell'Interno ceco, é proprio quello di penetrare legalmente nel tessuto economico, politico e sociale ceco.
Lo studio e la ricerca delle organizzazioni criminali in Europa Centrale e tenuto in grande considerazione nei paesi dell'Europa Occidentale ed il motivo eé semplice: per molte di esse, la loro presenza a Praga, Budapest e Bratislava rappresenta una base per i grandi mercati francesi, italiani e soprattutto tedeschi. L'integrazione europea del 2004 ha avuto come conseguenza un minore controllo alle frontiere e ad una maggiore facilità e velocità nello spostamento delle merci. Certamente il collasso del comunismo ha portato una notevole sfida alle autorità di sicurezza e doganali dell'Unione Europea e questo sta diventando sempre più chiaro ed evidente giorno dopo giorno. E la sfida per l'Europa oggi sembra essere proprio questa: offrire sicurezza ai proprio cittadini senza allo stesso tempo minarne le libertà acquisite.
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di Michele Paris
Da qualche settimana a questa parte una nuova disputa diplomatica sta incrinando i già delicati rapporti tra gli Stati Uniti e il Pakistan. Ad alimentare le frizioni con lo scomodo ma fondamentale alleato di Washington in Asia centrale è la sorte di un cittadino americano accusato di aver ucciso a sangue freddo due motociclisti pakistani in un’affollata arteria della città di Lahore. La confusione attorno alla vera identità del responsabile del duplice omicidio e le pressioni statunitensi per il suo rilascio stanno creando non pochi imbarazzi ad un governo pakistano che deve fare i conti con un sentimento anti-americano già ampiamente diffuso in tutto il paese.
Il 27 gennaio scorso, il 36enne Raymond Davis stava guidando in solitudine lungo una strada della città pakistana nord-orientale a pochi chilometri dal confine con l’India. Accortosi di essere seguito da due uomini in motocicletta, Davis li ha colpiti una prima volta con una pistola automatica Glock per poi finirli dopo essere sceso dall’auto. Secondo quanto dichiarato alla polizia locale, il cittadino americano avrebbe scattato delle fotografie alle due vittime, i quali a suo dire stavano tentando di rapinarlo.
Dopo l’accaduto, Davis ha chiamato il consolato americano di Lahore da dove hanno mandato immediatamente un’auto per assisterlo. Il S.U.V. partito dal consolato, che secondo le autorità viaggiava con una targa falsa, ha poi investito e ucciso un altro pakistano in motocicletta, fuggendo a tutta velocità per le strade della metropoli.
Secondo la ricostruzione della polizia, che respinge la tesi dell’autodifesa, oltre alla sua arma Raymond Davis aveva con sé un equipaggiamento degno di una spia, tra cui alcune mappe di installazioni di importanza strategica per la sicurezza nazionale pakistana. I due motociclisti uccisi portavano a loro volta delle armi scariche e uno di loro sarebbe stato colpito alla schiena nel tentativo di fuggire dal luogo dell’incidente.
Il comportamento del misterioso americano per le strade di Lahore ha comprensibilmente scatenato la rabbia della popolazione pakistana, mentre ad accendere ancor più gli animi ci ha pensato la televisione locale che ha trasmesso le immagini prese dalla macchina fotografica di Davis, ottenute con ogni probabilità proprio dalle forze di sicurezza e che mostravano, tra l’altro, le due vittime a terra dopo lo scontro a fuoco.
Il ruolo svolto da Raymond Davis in territorio pakistano a tre settimane dai fatti che l’hanno condotto in una sovraffollata prigione di Lahore appare ancora poco chiaro. Ufficialmente, Washington sostiene che l’ex membro delle forze speciali fa parte dell’ambasciata americana a Islamabad, dove avrebbe incarichi di natura “amministrativa e tecnica”. Secondo la versione di Davis, invece, la sua funzione sarebbe quella di consulente presso il consolato di Lahore e dunque non farebbe parte del corpo diplomatico americano in Pakistan.
Qualunque sia il reale compito svolto da Davis, dagli Stati Uniti ci si è affrettati a chiederne l’immediato rilascio. Ai suoi legali in Pakistan si sono aggiunti il Dipartimento di Stato e lo stesso presidente Obama, il quale nel corso di una conferenza stampa martedì scorso ha chiesto al governo di Islamabad di rispettare la Convenzione di Vienna e garantire l’immunità diplomatica al detenuto americano.
Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ne avrebbe addirittura chiesto la liberazione direttamente al presidente pakistano, Asif Ali Zardari, così da non mettere a repentaglio la partnership strategica tra i due paesi. Di fronte ad un’opinione pubblica inferocita per l’arroganza mostrata dal presunto contractor o spia americana, il governo locale ha tuttavia negato il rilascio, rimettendo alla giustizia pakistana il destino di Raymond Davis, nel frattempo formalmente accusato di omicidio premeditato.
Le nuove scintille con gli Stati Uniti e l’insistenza della Casa Bianca rischiano di destabilizzare seriamente il già fragile governo pakistano. Cedere alle pressioni potrebbe, infatti, produrre una vera e propria rivolta nel Paese, dove il risentimento verso gli americani è già profondo, soprattutto per le vittime civili continuamente provocate dalle incursioni dei droni nelle province nord-occidentali al confine con l’Afghanistan. L’avversione nei confronti degli USA sta dando vita ad una miscela esplosiva nel paese, sfruttata dall’integralismo islamico, come dimostra l’assassinio di un politico di spicco appartenente al partito di governo a inizio anno.
A complicare la situazione ci sono anche gli attriti tra Islamabad e l’amministrazione della provincia del Punjab, dove si trova Lahore, responsabile dell’arresto di Davis. Qui il fervore religioso risulta particolarmente radicato e, come se non bastasse, a governare è il partito all’opposizione a livello nazionale, il PML-N dell’ex premier Nawaz Sharif. Tra il governo centrale e i militari, poi, sono emerse profonde divisioni sulla risposta da dare a Washington in merito al rilascio di Davis. Il presidente Zardari e il primo ministro Gilani sembrano convinti della necessità di garantire l’immunità diplomatica al detenuto statunitense ma, oltre a dover valutare attentamente le reazioni dei propri cittadini, sono costretti a fare i conti con le resistenze dei vertici delle forze armate, che dettano di fatto la politica estera pakistana.
Tra il caos che regna nelle stanze del potere a Islamabad sono emerse infatti posizioni anche diametralmente opposte sulla vicenda. Nonostante la misurata disponibilità mostrata dal governo, il ministro degli Esteri, Shah Mehmood Qureshi, si è ad esempio pubblicamente rifiutato di riconoscere l’immunità diplomatica che pure Hillary Clinton sotto minaccia di ritorsioni gli aveva chiesto personalmente. Secondo alcuni osservatori, Qureshi, vicino ai militari pakistani, avrebbe pagato la sua ostinazione con la rimozione dall’incarico di ministro degli Esteri pochi giorni più tardi.
Senza tanti scrupoli per le sorti di un governo che dovrebbe rappresentare un punto fermo nella cosiddetta guerra al terrore in corso in Afghanistan, nelle ultime settimane Washington ha preso una serie di provvedimenti volti ad intimidire l’alleato pakistano. Il Dipartimento di Stato ha recentemente cancellato il tradizionale summit tripartito con i ministri degli Esteri di Pakistan e Afghanistan che era in programma a partire dal 23 febbraio prossimo, ufficialmente a causa della rimozione dello stesso Qureshi che ha perso il posto nell’ambito di un rimpasto di governo.
In maniera più esplicita, invece, ai pakistani è stato fatto capire che se Raymond Davis non sarà messo a breve su un aereo per gli USA, gli ingenti aiuti stanziati annualmente dal Congresso americano potrebbero essere tagliati. Tale ipotesi é stata prospettata chiaramente sia dal deputato repubblicano Howard McKeon sia dal senatore John Kerry, presidente della commissione affari esteri, entrambi inviati dalla Casa Bianca in Pakistan negli ultimi giorni. Gli Stati Uniti nel 2009 avevano siglato un accordo per 7,5 miliardi di dollari in aiuti militari e civili da erogare in cinque anni, mentre l’anno scorso il presidente Obama aveva a sua volta promesso altri due miliardi.
L’atteggiamento intimidatorio di Washington, nonostante il rischio concreto di provocare la caduta dello stesso governo pakistano e compromettere la stabilità di un alleato così importante, suggerisce implicazioni ben più profonde riguardo alla figura di Raymond Davis. Se è impossibile trovare conferme sulla sua reale attività in Pakistan, svariate ipotesi stanno affiorando sulla stampa internazionale. Per alcuni, Davis sarebbe un agente operativo ben addestrato che i due motociclisti uccisi stavano seguendo per conto dei servizi segreti locali. Nel corso dell’inseguimento, Davis avrebbe perso la testa, sparando ai due uomini che in realtà non rappresentavano una minaccia per la sua vita.
Per i media pakistani, inoltre, le autorità sapevano che Davis era in contatto con i gruppi talebani operanti nel paese. Per questo motivo, scrive il Washington Post citando fonti anonime dell’intelligence pakistana, i due motociclisti che lo seguivano intendevano metterlo in guardia poiché il suo incarico stava verosimilmente mettendo a rischio gli interessi della sicurezza nazionale del Pakistan. In questa prospettiva, appare evidente come gli Stati Uniti temano che il loro uomo in mano ai servizi di sicurezza locali possa rivelare informazioni vitali sugli obiettivi strategici americani.
Il tribunale di Lahore, intanto, ha assecondato la richiesta del ministero degli Esteri, concedendo altre tre settimane al governo di Islamabad per stabilire una posizione ufficiale sulla questione dell’immunità diplomatica richiesta da Washington per Raymond Davis. La decisione della giustizia pakistana, salvo colpi di scena, prolungherà la permanenza di quest’ultimo nelle carceri di Lahore, provocando certamente un’ulteriore escalation delle tensioni tra i due improbabili alleati.
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di Vincenzo Maddaloni
Sarà che sopravvalutarli sembrerebbe eccessivo; sarà che in Egitto i Fratelli Musulmani non svolgono alcun ruolo gerarchico politico, come accade invece agli ayatollah in Iran. Certo è che ignorarli sarebbe molto pericoloso. Perché i Fratelli Musulmani egiziani rappresentano l'organizzazione madre di tutte le altre fratellanze islamiche in Giordania, Algeria, Iraq, Palestina. L’associazione religiosa, fondata nel 1928, sebbene combattuta e spesso duramente perseguitata dalla casta laica e panarabista dei militari, ha un peso virtuale in termini elettorali che supera il venti per cento; che non è poco in un Paese di 85 milioni di abitanti come l’Egitto.
Sicché affermare che essa è anche un partito politico di massa, è una considerazione affatto esagerata. Dopo tutto i Fratelli Musulmani possono contare sul sostegno di una parte rilevante della media e alta borghesia, come dimostra il controllo che il gruppo esercita sui più importanti ordini professionali, da quello dei medici a quello degli avvocati o degli ingegneri.
Così operando essi si sono radicati nel profondo della società egiziana. Molto ha influito l’aver saputo offrire alle persone servizi che lo Stato non è in grado di offrire. «È come se fosse un piccolo Stato parallelo, senza l’esercito», ha spiegato Essam el-Erian, uno dei leader più influenti del movimento. Insomma la Fratellanza, dopo la dura repressione subita durante l’èra nasseriana, ha svolto un’opera capillare di reislamizzazione "dal basso" della società imperniata sul ritorno dell'individuo a quello che viene definito l’"autentico Islam".
Essi sono, infatti, la forza di opposizione più forte, più strutturata e, secondo diversi osservatori, qualora in Egitto si svolgessero elezioni libere e trasparenti, si affermerebbero come prima forza politica del paese. Naturalmente, Essam el-Erian ammette l’esistenza di dissensi interni, ma sostiene che nel lungo periodo saranno solo una fonte di forza e non di debolezza. «L’Islam è un’unità, ma i lavori e i compiti possono essere divisi» ha spiegato «é come uno Stato: unico ma con quaranta ministeri ognuno responsabile delle proprie funzioni. Lo stesso vale per noi. Siamo pronti ad assumerci incarichi politici, ma sotto l’ombrello di una più ampia struttura».
Questa concezione strategica non è sempre stata dominante all’interno del movimento. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’ideologia era ancorata ad uno dei propagandisti di punta, lo scrittore Sayyid Qutb particolarmente ostile nei confronti dell'Occidente. Egli è l’autore di un commentario coranico - Pietre miliari - un’opera fondamentale, da molti considerata l'apri strada del moderno Islam politico di orientamento fondamentalista. Sicuramente è stato fonte d’ispirazione per Ayman al-Zahawiri, il medico egiziano diventato il massimo ideologo di Al Qaeda.
Tuttavia, un’attenta analisi del movimento islamico, delle sue dinamiche interne e dei suoi rapporti con il potere, rivela oggi un quadro decisamente complesso. In buona sostanza, il movimento religioso ha sempre cercato di evitare una contrapposizione diretta con il regime, poiché secondo i principi fondamentali della Fratellanza, la conquista del potere deve essere perseguita soltanto quando le condizioni lo permettano, quando cioè la società sia stata islamizzata e sia pronta per un governo islamico. Altrimenti - si sostiene - la ricerca del potere non condurrebbe a uno Stato islamico e condizionerebbe negativamente sia il funzionamento interno della Fratellanza, sia la sua immagine pubblica. Così si spiega perché dopo la riorganizzazione del movimento degli anni Settanta e Ottanta e l’atteggiamento compromissorio con il governo, la Fratellanza ha rinvigorito il suo ruolo sociale.
Naturalmente, il pensiero dei Fratelli Musulmani si è molto evoluto negli ultimi vent’anni e, tra i fautori di un’interpretazione letterale dei testi sacri e i sostenitori del modello turco, esiste una grande varietà di posizioni intermedie. Tuttavia non ha dubbi, e non potrebbe essere diversamente, l’ottava Guida generale del movimento, Muhammed Badi’e, secondo il quale l’islamizzazione dello Stato deve continuare ad essere la priorità principale.
Fratellanza in prima linea, dunque, nonostante le apparenze dicano il contrario. La raccomandazione di Muhammed Badi’e nasce dall’esperienza storica, poiché nonostante i ritardi, le difficoltà e le sconfitte subite nel corso dei decenni, lo strumento più efficace che i popoli islamici hanno trovato contro l’Europa (quand’era colonialista) e oggi nel confronto con l’America che pianifica il “Grande Medio Oriente” è stato proprio l’Islam.
Con un ritorno ai suoi primordi l’Islam diventa quindi religione, politica, ideologia, morale, visione del mondo e modo di vita. Naturalmente questo processo di maggiore rigore, ma anche di minore aderenza alle trasformazioni e alle nuove esigenze degli stessi Paesi islamici, matura durante un arco di tempo piuttosto lungo. Dove più dove meno, tale processo continua, fino a dare origine a un tipo d’intransigenza assolutamente nuova e spesso lontana dalla tradizione islamica così come essa ci è documentata dalle fonti storiche. Com’è accaduto, ad esempio, in Arabia Saudita.
Si tenga a mente che i Fratelli Musulmani non rappresentano la maggioranza della popolazione egiziana, ma essi sono, come tutti i religiosi che si rispettino, i più vicini ad essa e alle sue necessità. Non va dimenticato che il rialzo dei prezzi alimentari e della disoccupazione sono stati il motivo vero dell'inaspettata rivolta in Egitto, come pure in Tunisia. L’Associated Press riporta che circa il 40 per cento degli egiziani si dibatte attorno al livello di povertà stabilito dalla Banca mondiale di meno di 2 dollari al giorno. Gli analisti stimano che l'inflazione dei prezzi alimentari in Egitto è attualmente un drammatico 17 per cento annuo. Nei paesi più poveri, il 60-80 per cento del reddito della gente serve per il cibo, rispetto al solo 10-20 per cento dei paesi industrializzati. Un aumento di venti centesimi di Euro o giù di lì, nel costo di un litro di latte o di un panino per noi italiani, può significare per milioni di egiziani, come per gli abitanti dei Paesi poveri, la morte per fame.
La Fratellanza che fa? Con la creazione di un’efficiente rete di organismi legati alle moschee, essa interviene con i sussidi, l’assistenza, il cibo in tutto il Paese. Inoltre gestisce una cinquantina ospedali dove i pazienti pagano le cure secondo le proprie disponibilità. Insomma i Fratelli fanno “apostolato”, come usa dire in linguaggio ecclesiale, a trecentosessanta gradi. Va pure detto che in Egitto ci sono dieci milioni di cristiani copti, che svolgono la medesima opera di soccorso e di aiuto tra le loro genti. E benché essi siano una minoranza, rappresentano un’occasione di confronto e perciò di stimolo per la Fratellanza a mantenere il primato dell’efficienza.
A questo punto val la pena ricordare che la tentazione, nelle analisi di politica internazionale, è sempre di ragionare sulla base delle crisi precedenti. Sicché oggi ci si appunta sugli ultimi quarant’anni durante i quali la Fratellanza ha continuato a oscillare tra opposizione e compromesso con le autorità. Di conseguenza - si sostiene - questo atteggiamento ha indebolito la credibilità del movimento come forza di opposizione. Si aggiunge ad avallo della tesi, che l’iniziativa politica è stata assunta da altre forze di opposizione, come il Partito del domani (al-Ghad) o il Movimento egiziano per il cambiamento.
Il fatto è che queste previsioni non tengono in gran conto che le religioni sono sempre in qualche misura istituzioni sociali, cioè sono condivise, dotate di regole e strutture sociali ordinate, dove singoli individui sono legati tra loro da un complesso di credenze, comportamenti, atti rituali e cultura che li trasforma in una moltitudine che ha inclinazioni diverse da quelle a cui sono abituati i politologi studiando i regimi. Voglio dire che i fedeli alla fine sempre si affidano - con fiducia e affetto - ai ministri che gestiscono la prassi religiosa.
Sicché scegliendo di schierarsi al fianco di Mohamed el Baradei, l’uomo di punta del fronte ostile a Mubarak, la leadership dei Fratelli Musulmani ha voluto segnalare ai propri fedeli, con la certezza di essere ascoltata, che non è il momento di esporsi con rivendicazioni politiche che potrebbero spaventare l’Occidente, ma anche gli egiziani. La parola d’ordine è: coraggiosa attesa. Ed è così per il momento.
A conferma della certezza di essere ascoltati c’è la realtà delle piazze che si sono riempite con il richiamo alla religione comune, la quale rappresenta la forza che unisce le moltitudini al movimento e le trasforma in una massa - s’è visto - di una potenzialità inaudita. Siccome la gente è pronta a schierarsi per chi gli dà il pane, le cure, il lavoro e la speranza in un al di là premiante, sono queste le persone che hanno caratterizzato l’evento sotto le Piramidi. Certamente, non quelli che hanno twittato, i quali per tutto un insieme di realtà - non ci vuole molto a capirlo - non potevano essere in molti.
Eppure si continua ad appiccicare sulla rivolta egiziana l'etichetta di “rivoluzione del web”. L’ha ribadito anche Hillary Clinton l’altro ieri alla George Washington University, celebrando l’elogio di Internet come strumento di libertà di opinione, come se soltanto con le sue tecnologie, e i suoi social network si possono “liberare” i popoli. Finora non è accaduto, e non ci sono validi spunti nel Magreb per credere che possa davvero accadere.
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di Eugenio Roscini Vitali
Malgrado il divieto imposto dal Ministero degli Interni iraniano, a Teheran l’Onda Verde è tornata in piazza e lo ha fatto pagando un altro contributo di sangue a quello che molti esponenti dell’opposizione definiscono come il “fascismo religioso al potere”. Due morto, diversi feriti e centinaia di arresti in una manifestazione che, nonostante l’assenza del capo del partito Eternad-meli e leader del fronte antigovernativo, Mehdi Karroubi, posto agli arresti domiciliari dagli uomini del ministero degli Interni, ha visto la partecipazione di quasi dodicimila persone, donne e ragazzi che hanno sfilato per le vie della capitale al grido di “Morte al dittatore”.
Maryam Rajavi, presidente del Consiglio iraniano in esilio di resistenza nazionale (Cnri) parla di «rivolta senza precedenti», di una nazione decisa a combattere contro le misure repressive adottate dal regime e di un popolo «che continuerà fino al rovesciamento della dittatura religiosa al potere per instaurare in Iran la democrazia e la sovranità popolare».
Le proteste, iniziate alle prime ore del 14 febbraio, sono state subito segnate dal violento intervento della polizia in tenuta antisommossa; secondo i siti web dell’opposizione, Herana e Peykeiran e radio e-Persian, i basij, le forze paramilitari di mobilitazione fedeli al governo, avrebbero attaccato i manifestanti con manganelli e gas lacrimogeni. Una fonte vicina all’agenzia Reuters riferisce di migliaia di persone prese di mira dalle forze di sicurezza mentre sfilavano in silenzio e senza scandire slogan vicino a piazza Imam Hossein. Notizie di scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza anche a piazza Enghelab, piazza Azadi e nei pressi dell’università Sharif, dove gli squadroni della polizia erano schierati sin dalla notte precedente, e nelle città di Shiraz, Isfahan, Rasht e Mashhad.
Gholam Hossein Mohsenì Ejeì, portavoce del potere giudiziario iraniano, ha informato che gli autori dei disordini di Teheran verranno processati senza alcuna clemenza. Per le autorità la morte dei due manifestanti sarebbe imputabile ai Mujaheddin del Popolo iraniano (Pmoi) che avrebbero aperto il fuoco sulla folla; tra le vittime ci sarebbe Sanè Jalè, 24 anni, studente di Arti Rappresentative all’Accademia delle Belle Arti dell’università di Teheran, ucciso secondo Irib dai colpi sparati dalle armi dei “mercenari armati” dagli Stati Uniti.
Il regime era stato chiaro: il comandante dei pardaran, Hossein Hamadani, aveva parlato dei manifestanti come di cospiratori da considerarsi “cadaveri”; pene esemplari per chi sarebbe sceso in piazza; controllate le abitazioni e tagliate le linee telefoniche dei principali leader dell’opposizione; censurata internet e oscurati i canali televisivi trasmessi via satellite.
L’aria che tira oggi a Teheran è sicuramente pesante ed è evidente che il vento non può che spirare in una sola direzione: nel mirino i “pochi individui che si sono separati dal popolo” e che “cercano di offuscare l’immagine splendente della rivoluzione”. All’indomani dei disordini 233 deputati hanno chiesto l’avvio di una indagine che porti al processo di Karroubi e di Mir Hossein Mousavi, il candidato riformista che il 13 giugno 2009 denuncio i brogli elettorali che consentirono ad Ahmadinejad di vincere le lezioni presidenziali, definiti dal conservatore Gholam Alì Haddad Adel «due signori sono ormai famosi per i servigi resi a Washington e Tel Aviv».
Il Majles, il Parlamento iraniano, ha iniziato i lavori con il discorso del presidente Larijani che ha parlato di manifestazioni «orchestrate a favore degli interessi di Stati Uniti e Israele»; Mohsen Rezaee, candidato sconfitto delle ultime elezioni, ha ribadito che in Iran maggioranza e opposizione sono sostenitori della Repubblica Islamica ed al servizio della guida suprema ed ha invitato tutti a condannare un evento orchestrato e programmato dagli Usa.
L’11 febbraio Ahmadinejad aveva tentato di cavalcare l’onda della rivolta egiziana accorpando l’evento alla celebrazione del trentaduesimo anniversario della Rivoluzione del 1979. Parlando in piazza Azadi, il presidente iraniano aveva la folla affermando che «vedremo presto un Medio Oriente libero dall’America e dal regime sionista, dove non vi sarà posto per l’arroganza dell’Occidente».
Il presidente pasdaran aveva parlato di potenze in stallo e d’inizio del risveglio islamico, di movimento globale di protesta e di vittoria del popolo egiziano da non considerare più solo come fenomeno nazionale. Parole che ricalcavano il sermone tenuto il venerdì precedente dall’ayatollah Ali Khamenei, quando al termine della preghiera aveva inneggiato al risveglio delle coscienze contro i governanti arabi servi degli Stati Uniti: «Eccolo il terremoto che stavamo aspettando, il segno tanto atteso; quella cui assistiamo in questi giorni è un’esplosione di rabbia sacra, un movimento di liberazione islamico, e io prego per la vostra vittoria».
Anche se il potere non è mai stato concretamente indebolito dal sangue versato durante l'estate 2009, Ahamdinejad sa che milioni di ragazzi per strada rappresentano un pericolo; la repressione non può che provocare altre grane e una nuova stretta internazionale all’embargo sul petrolio, un passaggio che non potrebbe altro che peggioramento le già difficili condizioni economiche e sociali in cui versa il Paese. Per tagliare le spese il governo ha già dimezzato le sovvenzioni statali sui generi di prima necessità, una decisione che vale 80 miliardi di euro all’anno, ma che scontenta 15 milioni di poveri e di 10 milioni di disoccupati.
L’installazione di 20 mila impianti per la produzione di energia solare decisa dall’Organizzazione nazionale per l’efficienza dei consumi energetici e la prossima inaugurazione della più grande raffineria del Medio Oriente, la Shazand che sorge ad Arak, un progetto che porterà la capacità di produzione di benzina dell’Iran ai 17 milioni di litri al giorno, non hanno impedito rincari di benzina, elettricità e acqua tra il 10 e il 30%.
E sul fronte dell’occupazione e dei bilanci familiari non cambieranno la vita degli iraniani i 7 miliardi di dollari che la Cina dovrebbe investire nelle raffinerie di Abadan e Isfahan, 30 milioni di litri di benzina e gasolio al giorno, ne l’inaugurazione della seconda sezione del giacimento petrolifero di Darkhovin, un progetto sviluppato dalla compagnia italiana ENI che porterà la produzione dell’impianto da 50 mila a 160 mila barili al giorno, con una capacità giornalmente di estrazione di 280 milioni di metri cubi di gas naturale.