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di Carlo Musilli
Il Sudan ha accettato la secessione del Sud: il 99% dei votanti delle regioni meridionali ha scelto l'indipendenza. E' stato questo il termine di un processo iniziato con l'accordo di pace siglato a Nairobi nel 2005, che pose fine, almeno formalmente, a una guerra civile durata 22 anni. Il conflitto, costato la vita a oltre due milioni di persone, ha messo a confronto i musulmani arabi del nord e la regione autonoma del sud, abitata da circa 6 milioni di africani cristiani. I risultati definitivi del referendum arriveranno solo il 14 febbraio. Se, come pare ovvio, saranno confermati, il nuovo Paese sarà libero di dichiarare ufficialmente la propria indipendenza il prossimo 9 luglio.
Può sembrare una storia a lieto fine, ma non lo è. Semplicemente perché ancora siamo ben lontani dalla fine. Il governo del Sudan ha scelto la strada del pragmatismo, l'unica possibile. Il sanguinario presidente al Bashir, infatti, è messo da più parti sotto pressione. Giudicato due anni fa colpevole dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l'umanità nel Darfur, oggi il dittatore si ritrova anche parecchi problemi in casa. E non solo al sud: le rivolte popolari in Tunisia e in Egitto sembrano aver incoraggiato alcuni gruppi a protestare contro il governo anche nel nord del Paese. A sua volta, lo strappo che si è consumato con successo in Sudan potrebbe rinvigorire altri movimenti indipendentisti africani: il Mthwakazi Liberation, che vuole dividere il Matabeleland dallo Zimbabwe, e il gruppo etnico dei Lozi, che punta all'autonomia nella parte occidentale dello Zambia.
Nonostante tutto, al Bashir sa benissimo che la strada per la secessione è ancora lunga e piena di ostacoli. Partiamo dal piano politico. Non è ancora chiaro quale percorso seguirà il confine fra i due stati ed è verosimile che in diversi casi si possa arrivare allo scontro. La regione centrale di Abyei, ad esempio (10 mila chilometri quadrati fertili e ricchi di petrolio) è contesa fra le due parti. C'è poi la questione del diritto di cittadinanza nel nuovo stato: a quali sudanesi sarà riconosciuto? In che modo?
Sul piano economico, come prevedibile, il discorso assume toni drammatici. Il Sudan ha un debito pubblico da 36 miliardi di dollari che i nuovi cittadini del sud non hanno nessuna intenzione di tenersi sulle spalle. Ma oltre ai soldi da pagare, c'è anche la ricchezza da produrre. I negoziati più difficili saranno proprio quelli relativi alle risorse economiche. I due stati dovranno trovare un accordo per spartirsi i terreni più produttivi, alcuni dei quali bagnati dal Nilo, le miniere d'oro, il gas naturale e, soprattutto, il petrolio.
Sarà proprio questo il punto più delicato della trattativa. Sia il nord che il sud del Paese fondano la stragrande maggioranza della propria economia sull'oro nero. Ma, purtroppo per loro, anche a secessione avvenuta, nessuno dei due territori potrà fare a meno dell'altro. Se nel sud, prevalentemente rurale, si trovano i tre quarti dei giacimenti, l'unico oleodotto del paese arriva a Port Sudan, nel nord. Qui sorgono anche tutte le infrastrutture per la lavorazione.
Non è certo facile immaginare che gli abitanti delle regioni meridionali scelgano di privarsi, seppure in parte, della loro unica ricchezza. Si fa strada così il progetto per un nuovo oleodotto tra Juba (Sudan meridionale) e Lamu (Kenya), che costringerebbe il nord a sperare in una produzione autonoma da sviluppare attraverso giacimenti nel mar Rosso.
E' inoltre probabile che nel nuovo stato meridionale si formino diversi gruppi in contrasto fra loro per il controllo delle risorse. Conflitti che potenzialmente si aggiungeranno a quelli lungo il nuovo confine, in corrispondenza dei territori più contesi. Tutto questo in una delle regioni più sottosviluppate del mondo.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Arriva al Cremlino, direttamente dalle valli del Caucaso del Nord, un video di guerra che annuncia nuovi atti di terrorismo (“sangue e lacrime per tutta la Russia”) per ribadire la volontà d’indipendenza della già martoriata regione cecena. Il volto dello speaker della morte è quello del leader degli insorti di Grozny, l’emiro Doku Chamatovic Umarov. Un personaggio temuto e leggendario. Ricercato da tutti i servizi segreti di Mosca per una catena di omicidi e di attentati, di questa “primula rossa” (tinta però dal verde dell’Islam) non si hanno notizie attendibili.
Tutto quello che lo riguarda è avvolto nella nebbia. E’ stato dato per morto più volte e l’ultimo annuncio funebre è del 2 gennaio scorso. Ma questo Bin Laden in salsa cecena continua a dar segni di vita a colpi di minacce e di veri attentati. Ora, sulla scia della strage del 24 gennaio nell’aeroporto “Domodiedovo” della capitale (5 chilogrammi di tritolo fatti esplodere tra i passeggeri nella grande sala d’imbarco), alza ancora il tiro e annuncia nuovi passi nella strategia del terrore.
Il segnale piomba su un paese che già vive in stato d’allarme con la polizia (sino a ieri definita milizia) che pattuglia ovunque, con i kalashnikov a portata di mano e con i piccoli blindati sempre in moto, mentre nelle caserme sono stati richiamati i riservisti.
La situazione scotta: questo Doku tiene sveglio il Cremlino. E un pur allenato Putin (che nella guerra contro la Cecenia ha sempre un ruolo di comandante in capo) mostra di avere i nervi a fior di pelle nei confronti di questa “primula” del Caucaso che risorge e fa paura. Seguiamo dall’inizio la vicenda di questo emiro che attacca l’orso russo.
Doku nasce a Kharsenoi (nel “teip” di Malkov, distretto di Shatovsky nella Cecenia meridionale) il 13 aprile 1964. Si laurea con ottimi voti in ingegneria edile, a Grozny. E’ in questi anni che entra in contatto con gli schieramenti che predicano la secessione da Mosca. Nazionalista e fervente religioso diviene uno degli esponenti di spicco della resistenza, forte anche della sua qualifica di emiro di quello che definì “Emirato del Caucaso” e cioè un territorio che doveva comprendere una grossa porzione della Russia meridionale e l’intera regione del Volga. Intanto Doku entra nell’esercito russo e si distingue per il suo coraggio.
Inizia quindi la scalata nella nuova nomenklatura dell’indipendentismo caucasico. Dal 2006 al 2007 è presidente della “Repubblica Ichkeria”, cioè la Cecenia dei ceceni. Fonda poi il nuovo Emirato del Caucaso settentrionale, uno Stato islamico che non verrà però riconosciuto. Ma la linea è già chiara. La “scelta” è quella del terrorismo a tutto campo oltre i confini della Cecenia. Inizia una tragica escalation con l’attentato del 29 marzo 2010 alla Metropolitana di Mosca dove una bomba - firmata dall’emiro - uccide 40 passeggeri.
L’attacco della guerriglia è quindi diretto al cuore della Russia. Con il Cremlino che tenta la strada della sottovalutazione della questione caucasica credendo di risolvere il problema confidando nel quisling Roman Kadyrov sistemato alla presidenza di una Cecena filorussa direttamente da Putin. Intanto l’emiro Doku torna a far parlare di se, ma questa volta perché annuncia (via Youtube) di lasciare la guida delle forze secessioniste passando il testimone a un leader più giovane: “Aslambek Vadalov, più energico di me”. “Ma questo non vuol dire - nota poi l’emiro - che mi ritiro dalla jihad”. Gli fa eco, subito il presidente della Cecenia filorussa, il quale afferma che Doku ”è malato, si nasconde in una tana come un ratto a schiacciare le pulci, non ha più denti e non è più in grado di comandare”.
Quanto all’attuale erede si sa che è un veterano della prima guerra, quella scatenata da Eltsin nel periodo 1994-1996 e che si è poi distinto combattendo contro le forze di Putin nel 1999 a fianco dell’emiro Ibn Al-Khattab. Il nuovo personaggio è ora nel mirino dei servizi russi che lo studiano attentamente. E per ora è guerra di nervi.
C’è, infine, in queste storie caucasiche, un’appendice italiana. Perché le autorità russe nei giorni scorsi avevano chiesto all'Italia di fornire tutte le informazioni sull'arresto di un ceceno - Ruslan Umarov di 35 anni - ritenuto il fratello di Doku Umarov. Ma si è poi accertato che l’uomo ricercato dai “servizi” russi non era ceceno, ma il daghestano Anvar Sharipov fratello di una delle kamikaze dell'attentato al metrò di Mosca avvenuto il 29 marzo 2010.
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di Michele Paris
Lo scioglimento del Parlamento irlandese e le imminenti elezioni anticipate, rappresentano l’ultimo atto di una farsa politica che ha segnato la fine della disastrosa esperienza di governo del primo ministro Brian Cowen. Mentre il voto del 25 febbraio prossimo produrrà un’inevitabile quanto umiliante sconfitta per il suo partito (Fianna Fáil), il nuovo Esecutivo che uscirà dalle urne è destinato a seguire lo stesso percorso fatto di devastanti misure di austerity per ripagare il prestito erogato dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale seguito alla crisi che ha sconvolto l’ormai ex “Tigre Celtica”.
Le tensioni sociali che attraversano l’Irlanda da oltre due anni a questa parte si sono amplificate nel corso delle ultime settimane, fino a produrre un totale sconvolgimento del panorama politico. Al centro delle trame dei vari partiti - alternativamente preoccupati per la loro sopravvivenza politica o decisi a sfruttare l’occasione per conquistare il potere - ci sono le sorti del Taoiseach (primo ministro) Cowen. A preannunciare il destino di quest’ultimo era stato peraltro uno scoop giornalistico, che aveva rivelato la sua complicità con il mondo della finanza responsabile del tracollo dell’economia irlandese.
In un recente libro, infatti, è stata descritta una telefonata e un amichevole incontro di golf tra lo stesso Cowen e Sean Fitzpatrick, già presidente di Anglo-Irish Bank. Il finanziere irlandese, nel 2008, si sarebbe sentito con l’allora ministro delle Finanze per concordare il salvataggio della propria banca sull’orlo del collasso. Poco più tardi, il governo di Dublino avrebbe incluso la Anglo-Irish Bank nel provvedimento di emergenza adottato per garantire tutti i depositi degli istituti bancari del paese, una decisione che avrebbe trasferito i circa trenta miliardi di debito della banca guidata da Fitzpatrick ai bilanci pubblici.
Con la prospettiva di un rovescio memorabile nelle prossime elezioni, a fare il passo decisivo verso la crisi di governo sono stati i Verdi, principale partner del partito di maggioranza. Allarmati per la loro stessa sopravvivenza politica, un paio di settimane fa i Verdi hanno così ritirato il proprio sostegno al gabinetto Cowen, passando all’opposizione. Nel frattempo, per il primo ministro la situazione ha cominciato a farsi critica anche sul fronte interno al proprio partito. I vertici del Fianna Fáil hanno cercato di dargli la spallata per presentarsi al voto anticipato con un leader meno impopolare. Brian Cowen, sostituito dal suo ex ministro degli Esteri, Michael Martin, è stato dunque costretto a farsi da parte, diventando il primo Taoiseach nella storia irlandese a non ricoprire contemporaneamente la carica di segretario del partito di maggioranza relativa.
Il tentativo di proseguire nella propria azione di governo è stato poi ostacolato dalle dimissioni di otto ministri. Dopo il fallito tentativo di rimpasto, Cowen si è ritrovato con soli sette ministri per guidare quindici dicasteri. Definitivamente alle corde, l’ex leader del Fianna Fáil ha alla fine informato i membri del Dáil, la camera bassa del parlamento irlandese (Oireachtas), di aver chiesto ufficialmente alla presidente dell’Irlanda, Mary McAleese, lo scioglimento delle camere con oltre un anno di anticipo sulla scadenza naturale della legislatura. La fine della carriera politica di Cowen, assieme al riconoscimento dei disastri provocati dalla sua gestione, era giunta pochi giorni prima con la rinuncia ufficiale alla sua candidatura nelle prossime elezioni.
Dopo essere diventata un modello di crescita economica, l’Irlanda ha visto crollare miseramente la propria economia con l’esplosione nel 2008 di una gigantesca bolla immobiliare speculativa. Da allora si sono susseguite una serie di misure di emergenza per salvare le banche più esposte, e ora nazionalizzate, che sono costate centinaia di miliardi di euro.
Con lo svuotamento delle casse pubbliche e sotto la minaccia crescente della speculazione internazionale, il governo di Dublino ha diligentemente proceduto al taglio della spesa sociale e degli stipendi pubblici, così come all’innalzamento del carico fiscale, provocando una crisi sociale che gli irlandesi credevano di aver definitivamente dimenticato grazie alle promesse della deregulation e del libero mercato. Quando, alla fine, l’unica soluzione è sembrata quella di accettare la medicina del Fondo Monetario e della Banca Centrale Europea per accedere ad un prestito di 85 miliardi di euro, nuovi e ancora più dolorosi provvedimenti sono giunti dal governo Cowen.
Erogata la prima tranche del pacchetto salva-Irlanda da 5 miliardi, FMI e BCE hanno chiesto a Dublino di andare oltre e di affondare ulteriormente gli attacchi ai lavoratori e alla classe media indigena. Per sbloccare il resto degli aiuti era perciò necessario approvare una nuova manovra di bilancio che prevede tagli al welfare per 780 milioni di euro, così da mettere l’Irlanda sulla strada verso la riduzione del deficit al di sotto del tre per cento del PIL entro il 2015.
Nonostante gli attacchi giunti da più parti al primo ministro, praticamente tutte le principali forze politiche irlandesi ne hanno condiviso le difficili scelte di politica economica prese in questi due anni. A conferma di ciò vi è l’ampio consenso raccolto dalla legge di bilancio straordinaria appena approvata. Dal momento che, con la defezione dei Verdi, Brian Cowen si è ritrovato a guidare un governo di minoranza, per ottenere il via libera dalle due camere il cosiddetto “Financial bill” ha avuto bisogno del sostegno di almeno una parte dell’opposizione, come puntualmente è avvenuto.
Grazie poi alle trattative condotte dal ministro delle Finanze, Brian Lenihan, il governo ha evitato una mozione di sfiducia che i due principali partiti di opposizione - Fine Gael (centro destra) e Laburisti (centro-sinistra) - minacciavano di presentare in caso Cowen avesse rifiutato di dimettersi in tempi brevi. L’accordo siglato ha anticipato le elezioni (inizialmente fissate per l’11 marzo) al 25 febbraio, rivelando la totale sottomissione della classe politica irlandese alle élite finanziarie. Il timore era che, anche in questi pochi giorni di differenza, un governo debole e screditato avrebbe potuto esporre il Paese agli attacchi della speculazione internazionale.
I cambiamenti promossi ai vertici del Fianna Fáil a nulla serviranno per evitare una sonora batosta elettorale ad un partito che, a partire dalla sua fondazione nel 1926, ha governato l’Irlanda per ben 61 anni. A beneficiarne saranno Fine Gael e Labour, entrambi nettamente avanti nei sondaggi, che daranno vita ad un governo di coalizione. Per il partito di Cowen c’è addirittura il rischio di vedersi sopravanzare dai nazionalisti del Sinn Féin che potrebbero diventare la prima forza di opposizione, anche grazie al contributo del leader nord-irlandese Gerry Adams, candidato al parlamento della repubblica d’Irlanda.
La politica economica di Dublino, in ogni caso, non cambierà di molto con il prossimo governo. Fine Gael e Labour si sono infatti limitati a criticare Cowen per i metodi con cui sta implementando le misure richieste dal Fondo Monetario e dalla BCE, non certo per le devastazioni sociali provocate nel paese o per la sostanziale rinuncia alla sovranità nazionale in politica economica. Entrambi i partiti si sono limitati a promettere una rinegoziazione del maxi prestito, così da ottenere al massimo tempi più lunghi per ripagarlo o interessi meno gravosi. Il nuovo gabinetto chiederà insomma altri sacrifici a quegli irlandesi che stanno subendo duramente gli effetti delle misure draconiane già implementate.
Una prospettiva che lascia intravedere un ulteriore aumento del malcontento popolare nel prossimo futuro e con il quale il governo che uscirà dalle urne dovrà fare i conti ben presto, dopo una luna di miele con gli elettori che, è facile prevedere, si annuncia di breve durata.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Oggi avrebbe ottanta anni. E’ scomparso nell’aprile del 2007 - all’età di 76 anni - dopo aver monopolizzato la presidenza della Russia dal 1991 al 1999. Ed ecco ora che, in un clima di singolare dualismo dirigenziale, il primo ministro Putin e il presidente Medvedev celebrano Boris Nikolaevic Eltsin con manifestazioni che ai russi più attenti ricordano i fasti dei compleanni di Stalin spingendo a paragoni asiatici con il coreano Kin Il Sung.
Ed è subito orgia. Con un preciso ricorso alla manipolazione degli episodi del passato ai fini della polemica corrente. Si parla così di Eltsin con toni enfatici. Viene giustamente ricordato come il “Primo presidente della Russia” ma poi ci si lascia andare ad affermazioni di questo tipo: è stato l'artefice delle privatizzazioni; carismatico e sanguigno; personalità vulcanica; icona di un’altra epoca; figura storica in un tempo di grandi cambiamenti; uomo legato alle speranze; trionfatore politico nel quadro di una crisi generale; autore principe della messa al bando del partito comunista; un dirigente che si è adoperato affinché potesse nascere una Russia nuova e democratica; un vero statista...
E sull’onda di queste emozioni arrivano i programmi ufficiali siglati in primo luogo da Putin che fu, appunto, il delfino di Eltsin. Si comincia con l’inaugurazione di un monumento nella città di Ekaterinburg, quella dove l’ex presidente mosse i primi passi nella nomenklatura comunista. Ed oggi la stele di marmo bianco - eretta nel centro storico con la modica somma di 50mila euro - lo ricorda come leader indiscusso e benedetto anche con un discorso di Medvedev che si aggiunge a quelli dei laudatores...
Tutto avviene mentre la macchina propagandistica del Cremlino impone ai canali radiotelevisivi (senza incontrare resistenze) servizi e documentari dedicati all’80mo del presidente. Escono i filmati dei congressi, le scene degli incontri internazionali, la vita in famiglia nella lussuosa residenza moscovita, le interviste con gli uomini che lo aiutarono nella gestione presidenziale. Del grande capo parlano a ruota libera, evidenziandone i meriti, gli ascari di un tempo, i vari Popzov, Burbulis, Sattarov, Kostikov, Ciubais, Akaiev, Stankevic, Tarpiscev, Filatov, Sciokin, Jastrgembskij, Sciuskevic, Jakovlev ... E parlano la vedova Naina Josifovna e la figlia Tatjana.
Da mattina a sera è un bombardamento d’immagini e dichiarazioni. Poi tutti al teatro Bolscioi per una serata ufficiale. Con la famiglia c’è il premier Putin che apre lo spettacolo con parole di ringraziamento per quanto fatto da Eltsin. In sala spiccano personaggi noti sui quali la tv si sofferma con lunghi primi piani. Ecco i registi Ljubimov e Zacharov (quello che si è sempre vantato di aver bruciato la tessera del Pcus), l’ex ministro della Cultura Svidkoi..
Tutto con l’accompagnamento musicale del Giuseppe Verdi della Forza del destino e poi con l’aria della furtiva lagrima di Gaetano Donizetti. Ma non c’è solo questo. L'archivista di stato Rudolf Pichoja, annuncia il libro "L'uomo dei cambiamenti. Analisi della biografia politica di Boris Eltsin" e il direttore esecutivo del “Centro Eltsin”, Aleksandr Drozdov, illustra una mostra fotografica alla Sala Esposizioni di Mosca e parla già dei concerti in onore di Eltsin che si terranno al Teatro di Stato di Ekaterinburg. Ci saranno poi la prima edizione del torneo di tennis giovanile dedicato alla memoria del presidente e persino un concerto rock con la band russa "Okean Elzy".
Al processo di santificazione mancano, ovviamente, molte pagine segnate da eccessi di collera e improvvise amnesie. Si sorvola volutamente sul suo forte potere personale che si caratterizzò con marcati tratti dispotici che furono alla base (almeno in gran parte) del processo di estinzione dell’Urss e della scesa in campo degli oligarchi e dei mafiosi che hanno depredato il paese... E si potrebbe continuare con intere pagine (tutte filmate) delle sue sbornie epocali, in diretta.
Si potrebbe poi far luce sulla vera natura dello scontro con Gorbaciov. Ma, soprattutto, c’è quel pesante dossier della guerra contro la Cecenia con la conseguente repressione dei movimenti interni di liberazione nazionale. Per non parlare del bombardamento della sede del Parlamento. Quell’incredibile azione di guerra del 3-4 ottobre del 1993, che Eltsin scatenò nel cuore della capitale per eliminare le opposizioni pur di restare sul trono del Cremlino.
I colpi delle artiglierie della divisione Tamanskij - da lui mobilitata - distrussero la facciata dalla Casa Bianca adagiata sulla Moscova. Ci furono decine di morti fatti scomparire in tutta fretta. Poi una ditta turca provvide immediatamente al restauro per far dimenticare lo scempio, pur se le foto della Tass dovrebbero ancora circolare.
Ma sul terreno delle celebrazioni (queste, al momento, non caricate dall’ufficialità del Cremlino) sembra che ci sia un posticino anche per quel Michail Sergeevic Gorbaciov che in Russia è persona quasi dimenticata. Ora corre verso gli ottanta anni che compirà il 2 marzo. Ma di lui c’è - a Mosca - solo il ricordo del precipitare della perestrojka.
Nessuna celebrazione in patria perchè il compleanno verrà festeggiato da lui e dalla figlia alla Royal Albert Hall a Londra, con ospiti del calibro di Sharon Stone, Bryan Ferry, gli Scorpions, la London Symphony Orchestra e Lara Fabian, tutti riuniti in occasione di un concerto di beneficenza che vedrà tra gli invitati anche Angela Merkel e Arnold Schwarzenegger. Nella capitale russa, invece, l’ex presidente dell’era comunista potrà contare su una mostra fotografica e niente più. Gli onori, infatti, vanno tutti al padre di questa Russia globalizzata e corrotta, dominata dalle mafie e dagli oligarchi, alleata al grande capitale americano e israeliano. Eltsin, in fondo, avvolto nell’incenso dei suoi laudatores, è la conferma del fatto che la Storia la scrivono i vincitori.
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di Fabrizio Casari
Un famoso detto arabo sostiene che “non c’è pace senza la Siria e non c’è guerra senza l’Egitto”. Intende con ciò che se Damasco è in grado di destabilizzare il quadro regionale con il suo peso politico, Il Cairo è indispensabile per poter consentire agli arabi qualunque avventura militare. Il fatto che dalla Guerra del Kippur in poi, i Paesi arabi non abbiano mai più tentato forzature militari anti-israeliane, vista la bruciante e rapidissima sconfitta subìta ad opera delle truppe di Tel Aviv, non cambia comunque la percezione generale che il detto arabo ben riassume.
L’Egitto, situato alla frontiera occidentale d’Israele, è crocevia ineludibile tra il possibile conflitto e l’assenza di guerre regionali; è un Paese cerniera che, per il suo peso specifico, risulta decisivo per qualunque scenario si voglia profilare. E proprio per anestetizzare i possibili contraccolpi che la crisi egiziana potrebbe generare nello scacchiere mediorientale, le cancellerie occidentali stanno correndo ai ripari invitando, né più né meno, Mubarak a lasciare il potere.
Diversa la posizione israeliana, che con il regime egiziano (e con la Giordania) ha un accordo di pace; Israele sembra notevolmente preoccupata dalla rivolta in corso. Del resto, la sua famosa intelligence (come tutte le altre occidentali) non era stata in grado di anticipare quanto sarebbe avvenuto. Il che, ovviamente, riporta all’ordine del giorno quanto già visto nell’ultima avventura militare in Libano: esercito e intelligence israeliana hanno patito sul campo due lezioni non indifferenti. La questione agita quindi fortemente i sogni del governo israeliano, che vorrebbe un appoggio deciso a Mubarak tale da consentire al Rais l’uso della forza per riportare l’ordine nel paese. Niente di strano d’altra parte: lo Stato ebraico ha nella forza l’unico strumento politico di cui si fida.
Le differenze di vedute che emergono tra Tel Aviv e Washington (e anche con Bruxelles e Ankara), attengono quindi al timore israeliano che il cambio di regime in Egitto possa rimettere in discussione il ruolo filo-occidentale del Cairo. Un paese ai suoi confini non più obbediente, viene visto come una possibile minaccia. Nello specifico, poi, la possibilità che El Baradei (che alla guida dell’Aiea ha dichiarato ripetutamente il suo disaccordo con Washington e Tel Aviv sul nucleare iraniano) possa divenire il nuovo leader egiziano, aumenta ulteriormente i timori; tra questi anche quello di non avere più campo libero contro Teheran.
Il quadro che agita Tel Aviv è questo: a est la monarchia giordana ha sciolto il governo e vede concretamente profilarsi una rivolta sociale, a ovest Mubarak ha già le valigie pronte e, con Hamas a sud ed Hezbollah a nord, con la Turchia non più annoverabile tra i paesi alleati, un’aera fino a pochi giorni fa sostanzialmente stabile minaccia di divenire instabile, dunque pericolosa per Israele e la sua sicurezza. La leadership israeliana vorrebbe quindi allertare i suoi alleati circa la possibilità che possa vacillare la sua certezza di supremazia nell’area. In realtà quello di Israele è un timore sui generis, dal momento che il suo apparato militare è più che sufficiente a sconfiggere ogni operazione sul terreno. Semmai, quello che invece si presenta come una novità non prevista (e sgradita a Tel Aviv) è che politicamente il quadro regionale è ormai molto diverso da come appariva solo due settimane fa.
Il fatto poi che con l’Amministrazione Obama il governo Netanyahu abbia avuto contrasti ripetuti lungo tutto il 2010, sebbene sia un fatto inedito per laforma, è in sostanza solo fumo negli occhi per l’opinione pubblica internazionale e per le cancellerie occidentali; perché per quanto siano state importanti le differenziazioni tra i due Paesi, nessuno può nemmeno ipotizzare una sorta di “neutralità” statunitense nella regione.
Il rapporto con Israele è fortissimo e solo la palese violazione di ogni impegno internazionale e la flagrante violazione di ogni accordo firmato e di ogni decenza nell’agire nella guerra totale combattuta contro i palestinesi, pure disponibili ad ogni tipo di accordo, hanno obbligato la Casa Bianca ad alzare la voce.
Certo, Obama vede nella transizione rapida l’unica via d’uscita alla crisi egiziana e questo, da Israele, viene visto come un ulteriore elemento di scarso feeling con la Casa Bianca, in coerenza con quanto già registrato da un anno in qua. Ma si tratta di divergenze d’opinione in ordine all’espansione ininterrotta degli insediamenti dei coloni, di differenze nell’approccio politico alla questione mediorientale, non di prese di distanza effettive e, meno che mai, di abbandono a se stesso dello Stato ebraico.
Obama non ha nessuna intenzione d’incrinare il rapporto con Israele e tantomeno risulta indifferente alla cornice di sicurezza dell’area. L’alleanza tra i due paesi è più che mai solida. E’ quindi ipotizzabile che le differenziazioni con Usa e UE saranno alla fine risolte con una campagna israeliana affinché, dalla minaccia di mutazione del quadro della sicurezza nell’area, Israele possa ricevere ulteriori superforniture di armamenti così da ammodernare le sue forze armate e minacciare ulteriormente i vicini arabi.
Ma la Casa Bianca crede che per ridurre il rischio di esplosione generalizzata in tutta l’area, che potrebbe portare il Medio Oriente sull’orlo dell’ingovernabilità, serva un’altra politica e, dunque, anche un’altra immagine degli stessi USA presso i Paesi arabi. Washington ritiene che il progressivo reinserimento siriano nel gioco mediorientale, le pressioni ma anche il dialogo con l’Iran, la soluzione del conflitto politico libanese e la moderazione d’Israele nella politica degli insediamenti debbano esser parte dello stesso progetto di controllo dell’area e che questa non possa rischiare di subire contraccolpi d’instabilità politica che, come si è visto, sono difficili da prevedere all’inizio e ancor di più nella loro ricaduta finale.
Cambiare tutto per non cambiare niente, questo è l’obiettivo statunitense ed europeo che a Tel Aviv non comprendono, abituati come sono a ritenersi l’unica democrazia mediorientale e convinti che la supremazia militare israeliana sia l’unica garanzia per la loro sicurezza e quella dell’Occidente. Europa e Stati Uniti, invece, per storia e cultura politica, hanno capito quanto è necessario capire e che Israele non è in grado d’intendere: o la rivolta in tutto il Maghreb trova un suo sbocco politico liberale, o rischia di essere solo il primo momento della rivoluzione che verrà.