di mazzetta 

Sarà un Venerdì particolare per l'Egitto. Secondo i piani concordati in rete dai rivoltosi, al termine della preghiera i fedeli dovrebbero uscire dalle moschee in corteo e dare vita a manifestazioni itineranti. Alcune moschee fungeranno da catalizzatore per i non praticanti e le folle di giovani che sono stati il nerbo delle proteste dei giorni scorsi. I Fratelli Musulmani hanno annunciato l'adesione alla protesta, l'ex capo dell'Agenzia Atomica Internazionale, El Baradei, è ritornato in patria da Vienna, dove si era ritirato quando ha capito che la sua candidatura alle scorse presidenziali si sarebbe risolta nella solita truffa. E infatti Mubarak ha trionfato per l'ennesima volta con percentuali bulgare tra i pochi votanti spinti a forza dal regime verso i seggi.

Prevedibilmente ci saranno in piazza molte più persone che nei giorni scorsi. La repressione governativa, per quanto spietata, è sembrata debole agli egiziani, che nel migliaio di arresti e nella decina di vittime hanno letto per la prima volta un'offesa da vendicare e non il segnale che bisogna chinare la testa.

Il regime è atteso a una specie di prova del nove, la protesta mira alla cacciata del dittatore e lo scontro dovrà avere un vincitore, soluzioni di compromesso non sembrano nell'aria. L'unità politica delle opposizioni non potrà certo allearsi con il regime, non ha il controllo della piazza e nemmeno può dirsi rappresentativa delle folle che scendono in strada. Lo stesso El Baradei, che è una personalità formalmente adatta ad incarnare un Egitto nuovo, gode di un supporto frammentato e può aspirare alla leadership solo se investito di un ruolo di garanzia e godendo di consensi che per il momento non sembra avere.

Il regime, apparentemente compatto, è bene organizzato per reprimere, ma bisogna capire che risorse abbia per agire in una situazione che non controlla alla perfezione e nella quale deve subire l'iniziativa e giocare un gioco deciso da altri. La sua tenuta è tutta da verificare, anche alla luce del velocissimo dissolvimento del regime tunisino e all'evaporazione del relativo partito unico di governo.

La rivoluzione tunisina avrà un'influenza fortissima proprio sul regime, perché offre un modello nel quale la transizione dalla dittatura a qualcosa di diverso evolve con il sacrificio minimo e per niente truculento di esponenti del vecchio regime. Non c'è dubbio che, seguendo l'esempio tunisino, la quasi totalità della burocrazia, dell'esercito e delle classi dirigenti egiziane passerebbe senza colpo ferire la prova della dissoluzione della dittatura di Mubarak e del suo partito. Questo ferisce la tenuta del potere almeno quanto la pressione della piazza, perché riduce drasticamente il numero delle persone che si vedono costrette a difendere la dittatura perché in pericolo di vita o a rischio di tragedie.

La palla è nel campo di Mubarak, nelle segrete stanze del potere egiziano: se la risposta sarà brutale si allontanerà la possibilità di una soluzione alla tunisina e la protesta potrà solo essere stroncata o radicalizzarsi, come ha già dimostrato di poter fare in reazione alla brutalità del regime, ad esempio devastando per la prima volta una sede del partito al potere come reazione agli omicidi di manifestanti a Suez.

Se l'Egitto cede alla rivoluzione, il problema per l'Occidente non è quello dei Fratelli Musulmani, che sono solo lo spauracchio con il quale Mubarak e la sua propaganda hanno giustificato le peggiori repressioni. La piccola Tunisia è già un esempio; se il gigante egiziano dovesse virare decisamente verso una democrazia pretesa dalla base popolare contro l'élite e le pressioni internazionali delle grandi e piccole potenze, molte autocrazia arabe si troverebbero a fare i conti con un drastico calo di legittimità, mentre l'Occidente si troverebbe a rincorrere e a cucire nuovi rapporti con le nuove classi dirigenti, presto costretto a pietosi mea culpa (come quello recente di Sarkozy) e a fare i conti con decenni di complicità con i peggiori regimi repressivi.

 

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Con ancora negli occhi le immagini terribili dell'attentato di Mosca e dopo aver allontanato i responsabili della sicurezza dell'aereoporto di Domodiedovo, pur nel pieno delle polemiche politiche e delle indagini, il Presidente Medvedev sceglie di rilanciare la Russia sul piano internazionale e arriva a Davos, dove si apre il meeting annuale del World Economic Forum. Per il massimo dirigente del Cremlino (con alle spalle pesanti interventi amministrativi) l’occasione della riunione in Svizzera è destinata ad avere una risonanza epocale  dal momento che  la Russia intende mettere in campo una serie di fondamentali privatizzazioni per i prossimi cinque anni.

A Davos sarà presentato un mega-programma di sviluppo globale che, però, dovrà prima passare al vaglio delle maggiori economie interessate al progetto russo. Perchè - come spiega Arkady Dvorkovich, uno dei consiglieri del presidente - la Russia, prima di muoversi, dovrà approntare un preciso grafico d’interventi volti a mettere profonde radici nella società. E Medvedev, da politico pragmatico e attento agli equilibri del duopolio di potere con il premier Putin cerca, in tal senso, di non fare passi falsi.

Sa bene che il governo russo quanto a rapporti internazionali, nel quadro dell’organizzazione mondiale del Commercio (Wto, World Trade Organization), deve completare entro quest’anno il processo di integrazione commerciale che è considerato come un vero strumento di difesa della società russa. Comunque vadano le cose è chiaro che Medvedev si appresterà a debuttare nella scena dell’economia mondiale forte dei successi che Mosca va riportando nei mercati di tanti paesi.

Per il giovane Presidente del Cremlino l’obiettivo attuale consiste soprattutto nell’appianare le divergenze con l’Ue e definire i processi di normalizzazione ed integrazione dissipando le nebbie che oscurano l’orizzonte. E in questo contesto va rilevato che già molte questioni controverse - tra Mosca e Bruxelles - sono state inquadrate e in parte risolte nel corso di un recente incontro di Igor Ivanovic Shuvalov con il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, l'Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune dell'Unione Europea, Catherine Ashton, e il commissario europeo per il Commercio, Karel De Gucht.

Non è, quindi, un caso se tutta la trattativa è stata affidata dal Cremlino a Shuvalov. Personaggio noto negli ambienti dell’economia mondiale: si deve a lui la strategia destinata a portare la Russia nel WTO passando per l’Europa e portando così  a compimento, dopo 17 anni di trattative, il processo di integrazione commerciale. Medvedev, di conseguenza, attende il grande risultato relativo all’ammissione nell’Organizzazione prima che il cielo delle relazioni internazionali si copra di nuove e pesanti nuvole cariche di incognite. C’è, infatti, il rischio che si evidenzino problemi nel rapporto della Russia con gli Usa e la Nato e proprio nel momento delicato in cui si discute la ratifica dei trattati sul disarmo e la costruzione di un sistema di sicurezza anti-missile.

Il Presidente russo ha preparato la sua partecipazione al vertice convinto di ottenere un buon successo. Di fare “cassa”, in particolare, tenendo però conto che tra Russia ed Europa i dossier ancora aperti riguardano i dazi imposti sull'export russo e i diritti di sorvolo della Siberia. Con alte tariffe che le compagnie aeree europee devono pagare all’Aeroflot. Tariffe discriminatorie, rivolte solo agli europei. Ma questo - assicurano i russi - è un problema che scomparirà una volta che Mosca sarà entrata nella Wto. Il rapporto tra Ue e Russia, specie nel campo dell'aviazione, «è infatti uno spreco di opportunità», diceva nei giorni scorsi il commissario europeo ai Trasporti, Siim Kallas. Altri problemi “tecnici” da risolvere riguardano quelli relativi agli interessi delle imprese russe impegnate nella lavorazione del legno e di quelle europee, costrette ora ad acquistare a prezzi più alti.

Infine, nell’agenda dei lavori c’è il regime dei visti. Forse l'ostacolo più grande: rimuoverlo significherebbe aver realizzato di colpo tutto ciò che Medvedev sogna nella sua partnership con l'Europa: sicurezza, fiducia reciproca, trasparenza, affidabilità. Le questioni non sono da poco. Va ricordato, in proposito, che il presidente russo, all’ultimo vertice con la Ue svoltosi nella scorsa estate a Rostov, aveva dichiarato la disponibilità immediata all’abolizione dei visti. Ma in quella occasione si erano registrate, da parte degli interlocutori del presidente russo, perplessità diverse riguardo a sicurezza dei passaporti, gestione delle frontiere, emigrazione dagli altri paesi dell'ex Urss, droga e terrorismo.

Sul piano della diplomazia consolare ci sono stati, è vero, alcuni passi in avanti tesi a semplificare "misure congiunte" tecniche e amministrative e a preparare il terreno alla liberalizzazione. Ma è chiaro che Medvedev spera in qualcosa di più. Anche sul piano dell’immagine interna e internazionale. Ed è in questo contesto “mediatico” che il presidente si accinge, da Davos, a dar vita ad una conferenza via internet. Rispondendo alle domande in diretta.

Oltre a questa importante novità é anche previsto un incontro speciale dedicato alla modernizzazione dell’economia, nel corso del quale Medvedev e i responsabili delle compagnie che lavorano in Russia - insieme ad eventuali investitori - si dovrebbero impegnare in modo dettagliato ad illustrare il progetto d’innovazioni denominato “Skolkovo”, alle porte di Mosca (una “città” degli studi  dedicata al settore imprenditoriale e che vede già tra gli sponsor i colossi americani Cisco e Boeing, nonché la corporazione finlandese Nikia e il gruppo olandese Philips) e i piani russi di Pepsi Co, Alstom, Boeing, Deutsche Bank, Siemens.

Infine, stando alle informazioni che si hanno in questo momento qui nella capitale, Medvedev dovrebbe porre l’accento sul settore energetico, attraverso lo scambio di asset con le maggiori società mondiali, come recentemente è stato fatto fra RosNeft e BP. Un’intesa che al dibattito di Davos potrebbe essere al top.

La cooperazione fra RosNeft e BP è, infatti, importante non solo dal punto di vista della partnership o dell’attuazione di alcuni progetti. E’ un punto di partenza per conoscere l’esperienza di una compagnia leader delle innovazioni tecnologiche che mancano alla RosNeft. In tal modo - si dice a Mosca - la società russa potrà lottare per la leadership tecnologica e non solo essere fra i primi per il volume di produzione di idrocarburi.

 

di Michele Paris 

Il secondo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama martedì scorso ha, come al solito, dipinto un quadro immaginario delle condizioni attuali dell’economia e della società americana. Nel suo intervento di fronte al Congresso, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato un appello bipartisan al rinvigorito Partito Repubblicano, promettendo in gran parte di sposarne i progetti di riduzione indiscriminata del deficit, ed ha ancora una volta ribadito la sua totale fiducia nel libero mercato come motore della crescita economica e come unico strumento per resuscitare un sogno americano di prosperità e benessere in cui a credere è rimasto ormai un numero sempre più ristretto di privilegiati.

In tutto il discorso di Obama non è praticamente emerso alcun cenno significativo alla gravità della situazione economica di un paese con una disoccupazione ancora alle stelle e con un numero di persone al di sotto della soglia di povertà in continuo aumento. Con il consueto e vago ottimismo, Obama ha rievocato i tradizionali valori americani della solidarietà e della perseveranza nel raggiungimento degli obiettivi, rilanciando nel contempo la sfida della competitività in un mondo globalizzato, da vincere attraverso un modello industriale “diverso” e innovativo.

Le parole di Obama sono state accolte da un Congresso animato da un clima di riconciliazione tra i due partiti dopo le tensioni che avevano contraddistinto il discorso sullo stato dell’Unione di dodici mesi fa. Un’atmosfera dettata in parte dallo shock della recente strage di Tucson, nella quale la deputata democratica Gabrielle Giffords è stata ferita molto gravemente, ma soprattutto dall’accordo più o meno esplicito raggiunto tra Casa Bianca, democratici e repubblicani, sulla strada da seguire nei prossimi mesi. Un’intesa che appare il risultato delle elezioni di medio termine dello scorso novembre e che sarà fondamentalmente indirizzata all’obiettivo che senza alcuna esitazione lo stesso Obama ha indicato nel suo discorso, e cioè “trasformare l’America nel posto migliore del mondo per fare affari”.

Lo scrupolo del presidente nei confronti dell’aristocrazia economica e finanziaria statunitense è apparso chiaro fin dall’apertura del suo discorso. Senza citare le sofferenze che affliggono tuttora le classi più disagiate del paese, Obama ha parlato di una crisi ormai superata, come dimostrerebbe sia la risalita degli indici di borsa, sia la crescita dei profitti delle corporation. Che queste ultime rappresentino d’altra parte l’esclusivo referente politico di Obama e dell’intera classe politica americana è chiaro da tempo, nonostante l’illusione dei liberal e degli ambienti della sinistra da entrambe le parti dell’oceano.

Per questo motivo, i provvedimenti già avallati dal presidente negli ultimi mesi, come il prolungamento dei tagli alle tasse per i redditi più alti o l’inclusione nel proprio staff di nuovi membri provenienti dal mondo del business, saranno presto seguiti da ulteriori iniziative dello stesso stampo. A ciò ha fatto riferimento Obama parlando della necessità di svincolare l’economia da regolamentazioni superflue o di riformare il sistema fiscale, abbassando le tasse per le grandi aziende, a suo dire le uniche strade per creare nuovi posti di lavoro.

In poco più di un’ora, Obama ha così tessuto le lodi del capitalismo americano, senza accennare alle responsabilità di un mondo degli affari che ha portato l’economia mondiale sull’orlo del baratro non più di due anni fa, causando la rovina di milioni di persone. Allo stesso modo, nell’urgenza di implementare manovre per il contenimento di un deficit pubblico fuori controllo, Obama ha mancato di dire agli americani che l’esplosione della spesa é dovuta in gran parte ai colossali piani di salvataggio per le banche di Wall Street che oggi raccolgono profitti miliardari mentre il resto del paese dovrà pagarne il conto con tagli ai programmi pubblici più popolari. Non sorprende quindi che nell’unica concreta proposta uscita dallo stato dell’Unione, Obama abbia invocato il congelamento delle spese domestiche per i prossimi cinque anni.

L’altra ossessione repubblicana che Obama ha fatto sua e, sia pure con qualche distinguo, ha riproposto nel suo intervento è la necessità di una macchina pubblica meno invasiva. Un governo federale più leggero ma pur sempre necessario, secondo l’inquilino della Casa Bianca, soprattutto per garantire la “sicurezza nazionale”, ma anche per sostenere con massicci finanziamenti quelle aziende private che altrimenti non sarebbero disposte ad investire nell’innovazione tecnologica e nel risparmio energetico.

Una lunga parte del discorso è stata dedicata poi al sistema scolastico. Obama ha ricordato i progressi che ancora devono essere fatti per aumentare il livello della scolarità dei giovani americani. L’appello alle nuove generazioni a seguire una carriera nell’insegnamento contrastano però con la politica portata avanti dalla sua amministrazione in questi due anni, fatta di chiusure di scuole pubbliche e licenziamenti di migliaia di insegnanti. Alla promozione degli istituti privati va anche aggiunta l’impennata generalizzata delle tasse universitarie, spesso a livelli insostenibili, per far fronte ai tagli dei budget decisi a livello statale e federale.
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Il vanto, in definitiva, della “più grande e prosperosa economia del pianeta” dimostra il sostanziale disinteresse di Obama per i redditi più bassi, dal momento che da quella prosperità un numero sempre crescente di cittadini risulta esclusa, tanto che la condizione dei lavoratori e della classe media negli USA ha perso costantemente terreno rispetto a molti altri paesi in Occidente. In questo ambito, il presidente americano ha quanto meno riconosciuto le difficoltà nel trovare un lavoro stabile e ben pagato in un panorama di devastazione che accomuna ormai molti stati americani.

Per Obama tale situazione è dovuta tuttavia ad un mondo che è cambiato irreversibilmente, soprattutto in seguito all’innovazione tecnologica. La trasformazione avvenuta in questi decenni appare ai suoi occhi un processo del tutto naturale e non piuttosto il risultato di deliberate politiche ultraliberiste che egli stesso continua a sostenere e che hanno eroso progressivamente le faticose conquiste dei lavoratori, distruggendo un tessuto industriale che aveva contribuito all’avanzamento sociale di milioni di famiglie della working-class.

Oltre alla ribadita disponibilità al dialogo con i repubblicani per studiare eventuali modifiche ai provvedimenti presi dalla maggioranza democratica nei primi due anni del suo mandato, Obama non ha mancato infine di citare rapidamente le avventure belliche degli Stati Uniti. Anche in questo caso la sua retorica, a dire il vero meno ispirata rispetto ad altre uscite pubbliche, ha delineato uno scenario fantasioso circa i presunti progressi in Iraq e in Afghanistan, ovviamente tralasciando gli effetti collaterali sui civili e le vere ragioni della presenza americana in aree geo-strategiche fondamentali per gli interessi del paese.

Nell’annuale messaggio presidenziale al Congresso previsto dal secondo articolo della Costituzione americana, Barack Obama ha dunque prospettato chiaramente il percorso che la sua amministrazione intenderà seguire in questo anno che precede la campagna per la rielezione del 2012. Su un piano più generale, invece, il presidente democratico, come molti suoi predecessori, ha presentato l’Unione in uno stato di salute decisamente migliore di quanto non appaia veramente. Ciononostante, all’America più sofferente non può sfuggire la realtà di un paese in declino e sempre più incapace di garantire il benessere di ampi strati della sua popolazione nonostante l’enorme ricchezza prodotta.

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Partono le indagini mentre l’intera Russia è in lutto. L’ombra della strage di Domodiedovo (35 morti) domina nei palazzi del potere e il Cremlino comincia a fare i conti con la realtà. Come solito in questo Paese, i conti si fanno con le irregolarità, le violazioni, le manchevolezze. Ne parla direttamente il Presidente Dmitrij Medvedev il quale, annuncia che “la direzione dell'aeroporto Domodiedovo di Mosca dovrà rispondere dell'attentato”.

Non usa perifrasi Medvedev: "Quello che è accaduto dimostra chiaramente che ci sono state violazioni delle regole di sicurezza. C'è stato un vero fallimento dei servizi di vigilanza perchè si è arrivati a portare, o far passare, una grande quantità di esplosivo. Pertanto, quelli che hanno delle responsabilità, quelli che prendono delle decisioni, dovranno rispondere di tutto. I dirigenti dell’aereoporto saranno portati davanti alla giustizia per la violazione delle norme di sicurezza e di conseguenza ho incaricato il procuratore generale - dice ancora Medvedev - d’indagare in questa direzione ”.

Scatta, di conseguenza, la giusta repressione nei confronti dei servizi. Ma la vera attenzione, in questo momento, riguarda i primi risultati che le fonti ufficiali rendono noti. Secondo i dati preliminari, sarebbero stati due i terroristi kamikaze, una donna e un uomo, gli autori della strage effettuata con un ordigno che oltre a cinque kg. di tritolo conteneva pezzi di filo d’acciaio, di 5 millimetri di diametro e lunghi 2 centimetri: il che spiega il così alto numero di vittime. Il copione - dicono quelli della sicurezza - è “classico”. E questo vuol dire che, in particolare, si segue la pista di quel terrorismo che proviene (questa la tesi dell’intelligence locale) dal Caucaso del Nord e che ricorda le bombe nella metropolitana di Mosca della primavera scorsa.

Il perché della “pista caucasica”, comunque non è un fatto nuovo. Tutte le volte che a Mosca o in altre città accade qualcosa che si avvicina a fatti di terrorismo, la prima reazione consiste nell’aprire il dossier della lotta ai musulmani – independisti caucasici - provenienti dalla Cecenia, dal Daghestan e dall’Inguscezia. Di conseguenza scattano indagini a tappeto con il fermo di quelle persone che hanno la sola colpa di avere “un volto caucasico”. Ed è, quindi, una caccia all’uomo che alimenta anche il fanatismo dei nazionalisti russi.

Ma ci sono anche altre versioni ed altre piste nelle indagini di queste ore. Secondo il deputato Maksim Scevcenko, “l’attentato potrebbe essere un gesto estremo effettuato da organizzazioni neonaziste che vogliono sabotare il rapporto tra la Russia e i paesi dell’Asia post-sovietica”. “Non è un caso - aggiunge l’esponente della Duma - che l’attentato è stato messo in atto mentre si stava procedendo allo sbarco dell’aereo proveniente da Duscianbè in Tagikistan: un volo quasi interamente riservato a quei lavoratori asiatici che vengono a lavorare, clandestinamente, a Mosca. E cioè musulmani contro i quali la destra neonazista russa in questi ultimi tempi si sta scatenando”.

Intanto la caccia alle persone “non russe” continua ovunque. Nella città di Ulianov un gruppo di musulmani denuncia violazioni effettuate dalla polizia locale che, sull’onda dei fatti di Domodiedovo, attua perquisizioni e arresti, senza motivi plausibili. Mentre questo avviene, a Mosca una donna azera di 45 anni è stata aggredita ed uccisa da un gruppo di razzisti in un vagone della metropolitana. Ed è un fatto, anche questo, che va messo nel conto delle tante piste che si seguono a Mosca.

 

di Michele Paris 

A poco meno di due settimane dalla fuga del deposto presidente Zine el-Abidine Ben Ali, il popolo tunisino continua a manifestare contro un governo provvisorio che, nonostante alcuni provvedimenti di facciata, continua ad essere dominato da esponenti del vecchio regime. In una situazione di pieno fermento nel paese nord-africano, a Washington e a Parigi, così come tra le élites locali, si teme un’ulteriore escalation delle proteste popolari e delle rivendicazioni sociali e civili. Uno scenario che rischia di diffondere il contagio della rivolta in tutto il mondo arabo e che potrebbe non limitarsi al solo rovesciamento dei regimi autoritari per sostituirli con governi più presentabili ma ugualmente al servizio degli interessi occidentali.

A dare sostegno ai manifestati che da giorni chiedono le dimissioni del primo ministro ad interim e già braccio destro di Ben Ali, Mohammed Ghannouchi, giovani, lavoratori e disoccupati continuano a giungere a Tunisi dalle aree interne più disagiate del paese. Mentre nei giorni scorsi le forze di polizia erano sembrate concedere una tregua ai tunisini scesi in piazza, confidando in un rapido dissolversi delle contestazioni una volta insediato un nuovo governo, questo atteggiamento ha lasciato spazio ancora una volta alla repressione, indicando la volontà di rimanere al potere da parte degli uomini che già facevano parte della cerchia dell’ex presidente e che stanno cercando di incanalare la rivoluzione verso una transizione pacifica e indolore.

I segnali che la rabbia popolare scatenata in Tunisia sta attraversando i confini sono molteplici. La stampa internazionale negli ultimi giorni ha raccontato diffusamente degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in Algeria, Egitto, Marocco, Libia, Giordania e Yemen. Ovunque, invariabilmente, gli strati più poveri di questi paesi arabi protestano contro la disoccupazione, l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, la corruzione dilagante e la mancanza di spazi democratici che permettano loro di avere una vera rappresentanza politica e di beneficiare delle ricchezze dei loro paesi.

La persistenza dei tunisini in rivolta ha presto smascherato anche il divario tra le loro aspettative e quelle stesse istituzioni e organizzazioni che pretendevano di costituire un baluardo di opposizione nei confronti di Ben Ali. Quei partiti dell’opposizione più o meno tollerati e la stessa Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT), l’unico sindacato permesso da un regime che aveva di fatto appoggiato fino all’esplosione delle proteste, sono infatti stati costretti a ritirare i propri rappresentati dal primo governo di “unità nazionale” seguito alla cacciata di Ben Ali.

Il timore di un’opposizione popolare fuori controllo, che aveva spinto i partiti nominalmente anti-regime a entrare in un Gabinetto di emergenza al fianco degli uomini che avevano rappresentato l’ossatura del regime fino al giorno precedente, è in definitiva ciò che ha spinto anche il generale Rachid Ammar, capo delle forze armate tunisine, a parlare recentemente alla folla a Tunisi. Ad essa, Ammar ha promesso di sostenere la rivoluzione ma ha chiesto allo stesso tempo di confidare nell’opera del governo provvisorio, di cui l’esercito non è altro che lo strumento, come unica strada per risolvere la crisi ed evitare una nuova dittatura.

Il ritratto decisamente benevolo che i giornali occidentali stanno facendo in questi giorni dell’esercito tunisino - apolitico, professionale e favorevole ad una transizione democratica - così come del generale Ammar (secondo il New York Times la personalità più popolare del paese e un possibile candidato ad una carica politica di spicco) rientra perfettamente nel tentativo di appoggiare la normalizzazione della situazione nel paese maghrebino da parte americana ed europea. Un ritorno all’ordine basato su un governo più presentabile e che si limiti a qualche limitata concessione democratica, preservando gli interessi dell’Occidente e della ristretta cerchia che detiene il potere in Tunisia.

Per i governi occidentali che consideravano Ben Ali ed il suo regime un modello di stabilità per il mondo arabo, d’altra parte, le preoccupazioni sono sostanzialmente identiche a quelle della classe dirigente tunisina. A dimostrarlo sono le dichiarazioni ufficiali e la gran parte dei commenti della stampa istituzionale, da cui traspare non solo l’opportunismo dell’appoggio tardivo alle rivendicazioni del popolo tunisino, ma anche l’inquietudine per una protesta che non accenna a placarsi.

Campione d’ipocrisia in questo senso è stato il presidente francese Sarkozy, il cui ministro degli Esteri, Michèle Alliot-Marie, aveva offerto il sostegno delle forze di polizia di Parigi a quelle di Ben Ali, impegnate nel soffocare la rivolta, solo pochi giorni prima della sua deposizione. Nel tentativo di rimediare alle gaffe del suo governo, Sarkozy ha dichiarato di aver sottovalutato la rabbia che proveniva dalla popolazione della Tunisia e che, in ogni caso, per la Francia sarebbe stato inopportuno intromettersi nelle vicende interne di un’ex colonia.

Come é evidente, alla classe politica transalpina sono sempre state chiare le condizioni del popolo tunisino, oppresso da un dittatore che in questi 23 anni ha avuto il pieno appoggio di governi e presidente francesi. Allo stesso modo, la pretesa di non voler intervenire nei fatti domestici di un paese indipendente suona totalmente falsa, dal momento che la Francia, come le altre potenze occidentali, continua ad esercitare una profonda influenza su molti paesi africani per promuovere i propri interessi. Basti pensare alla Costa d’Avorio, dove enormi pressioni si stanno facendo sul presidente Laurent Gbagbo per lasciare la carica al suo rivale sostenuto dall’Occidente, presunto vincitore delle elezioni dello scorso novembre.

Lo stesso terrore per scenari inaspettati e un sostanziale disprezzo per le aspirazioni delle classi più disagiate, in Tunisia come altrove, traspare anche dai media americani. Sul Washington Times, ad esempio, recentemente il commentatore islamofobo Daniel Pipes ha messo in guardia da un possibile effetto domino della rivoluzione tunisina nel mondo arabo, facendo inoltre notare come il diffondersi dei disordini potrebbe rinvigorire l’integralismo islamico, nonostante quest’ultimo non abbia avuto praticamente nessun ruolo nei fatti di Tunisia. Per il direttore del think tank conservatore Middle East Forum, insomma, l’amministrazione Obama dovrebbe procedere sulle orme di George W. Bush, promuovendo la democrazia, ma “con la dovuta cautela”, poiché essa potrebbe “inavvertitamente facilitare la presa del potere da parte degli islamici radicali”.

Ancor più sconcertanti sono le conclusioni del giornalista e scrittore Robert Kaplan, apparse in un editoriale pubblicato dal New York Times. Avallando incondizionatamente gli interessi imperialistici americani e senza alcuno scrupolo per le condizioni delle popolazioni arabe, Kaplan in definitiva assegna a Ben Ali un ruolo tutto sommato positivo nella crescita del suo paese. A suo dire, infatti, “per ciò che concerne gli interessi americani… la democrazia comporta numerosi pericoli”. Se la democrazia ha portato al potere un movimento estremista come Hamas a Gaza, meglio allora appoggiare autocrati come Sadat o re Hussein di Giordania, dai quali gli Stati Uniti hanno ottenuto maggiore condiscendenza e garanzie di stabilità.

Se le sorti della rivoluzione tunisina appaiono ancora incerte, quel che é evidente è che le legittime speranze di vero cambiamento, pagate con il sangue di decine di morti in queste settimane, non potranno in nessun modo essere soddisfatte né da una classe politica locale compromessa con il vecchio regime, né da governi occidentali totalmente delegittimati a fornire lezioni di democrazia.


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