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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Si chiama "frozen zone" il simbolo dell'America di oggi. Centinaia di poliziotti sorvegliano i chilometri di transenne attorno a Ground Zero. La vista è surreale, sopra alle strade completamente deserte - a parte i numerosi poliziotti - svettano i grattacieli di Wall Street e la nuova mastodontica torre del World Trade Center, in costruzione. Non posso fare a meno di pensare che questa sarebbe stata la vista spettrale di Manhattan, nel caso in cui Al Qaeda l'avesse vinta, questa famigerata guerra al terrorismo.
Ma l'ironia si trasforma subito in amarezza. Il distretto finanziario di Lower Manhattan, a dieci anni esatti dall'attacco, è una caricatura dell'America. Una trentina di isolati attorno a Ground Zero sono sorvegliati da un impressionante dispiegamento di forze. Ad ogni angolo di strada mi avvicino a uno dei poliziotti e chiedo se si può assistere alla commemorazione delle vittime. "Mi dispiace, questa è una frozen zone," la stessa risposta; "una volta che la zona è dichiarata congelata, nessuno può più entrare o uscire." Mentre il poliziotto mi spiega la situazione, un suo collega fa passare una decina di persone visibilmente seccate che, patente alla mano, dicono di abitare proprio lì di fronte.
Accesso vietato a tutti, inclusi i giornalisti. Decine e decine di cameraman, operatori del suono con i microfoni a giraffa, giornalisti che agitano la tessera stampa in faccia ai poliziotti, niente da fare. Non ci si può avvicinare a meno di mezzo chilometro da Ground Zero. In mezzo alla no man's land, tra due cordoni di polizia e circondati da transenne, uno sparuto gruppo di manifestanti innalza cartelli strampalati con su scritto “Dio odia l'America!” L'ennesimo gruppo dell'estrema destra ultra-religiosa che protesta contro la decadenza dei costumi americani. Secondo loro 9/11 è stato un castigo divino, non di Allah ma del Dio cristiano.
Al di fuori del perimetro invalicabile della “frozen zone”, numerose manifestazioni pacifiste. Un potente sound system montato sul retro di un camion, degli attivisti protestano contro la guerra in Afghanistan e Iraq e contro la pena di morte. I comizi si alternano ogni cinque minuti, tutti chiedono il ritiro immediato delle truppe. Le “Nonne contro la guerra” innalzano i loro striscioni di fronte alla folla che percorre il perimetro della zona militare in cerca di un varco. Centinaia di persone vorrebbero assistere alla cerimonia, ma non ci si può avvicinare. Sono quasi tutti turisti europei, parlano tedesco, polacco, spagnolo, italiano. Flash back nel 2003, quando c'era Bush alla Casa Bianca, l'Iraq era appena stato invaso e manifestazioni contro la guerra percorrevano le strade di Manhattan.
I newyorchesi, le vere vittime dell'attacco, se ne stanno alla larga. Se fosse stato per loro, non ci sarebbe stata nessuna guerra e nessun Patriot Act. I sondaggi in questo senso sono uno strumento inestimabile per interpretare la strada presa da questo Paese. La stragrande maggioranza degli abitanti della Grande Mela si sono sempre opposti a qualsiasi intervento militare e il cuore liberale di New York ha sempre diffidato delle leggi speciali anti-terrorismo. E naturalmente anche all'idea di trasformare la ricostruzione di Ground Zero in un colossale business immobiliare.
Dieci anni dopo, un obiettivo sicuramente è stato centrato da bin Laden: trasformare gli Stati Uniti in uno stato di polizia. Le ultime notizie che stanno trapelando al riguardo sono allarmanti. La polizia di New York, la famosissima NYPD, pare abbia prestato uomini e mezzi alla CIA per sorvegliare centinaia di “sospetti” musulmani in città. Ma la CIA per legge non può operare sul suolo americano e lo scandalo sta mettendo in grosso imbarazzo i vertici della polizia.
Le notizie che provengono dal FBI sono ancora più inquietanti. I primi processi contro terroristi islamici statunitensi stanno cominciando in tutta la nazione. Dei cinquecento processi attualmente in fase di dibattimento, la quasi totalità riguarda persone che sono state “incastrate” dai federali. Il copione è lo stesso in tutti i casi. Un informatore del FBI s’infiltra in una comunità islamica o in una moschea.
Tipicamente, l'informatore è un cittadino americano di origine araba che, dovendo scontare un debito con la giustizia, si mette a disposizione della polizia. L'informatore individua un povero cristo, tipicamente disoccupato o con seri problemi mentali, che in un delirio di rabbia minaccia di voler attaccare il governo. L'informatore a quel punto entra in scena, avvicina il sospetto e cerca di convincerlo a mettere in pratica i suoi deliri, fornendo soldi, contatti, armi e finti complici, il tutto ovviamente messo a disposizione dall'FBI.
Nel momento in cui il sospetto accetta l'offerta e inizia a organizzare l'attentato, viene arrestato per terrorismo. E passerà in carcere il resto della sua vita. Nessuna delle persone sotto processo avrebbe mai potuto pianificare alcunché, se non fosse stato per l'aiuto massiccio dell'FBI. Rientrano in questo copione tutti i più famosi casi di recenti attentati sventati, tra cui gli attentatori alla metropolitana di New York e alla sinagoga nel Bronx nel 2009 e ad un corteo natalizio a Portland nel 2010. Alcuni degli accusati hanno deciso di contrattaccare e fare causa all'FBI per aver fabbricato un complotto: con i migliori auguri.
Questa dunque l'America a dieci anni dal 9/11. Un enorme apparato di sicurezza, l'Homeland Security, che sperpera centinaia di miliardi di dollari in regali alle aziende della sicurezza privata (come documentato nelle recenti inchieste dell'Huffington Post) e che, invece di ricordare l'attacco alle Torri con una cerimonia popolare, trasforma il distretto finanziario di Manhattan in una zona militare off limits.
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di Mario Braconi
Tutto fa presagire che per Israele si stia aprendo un periodo particolarmente difficile, per non dire esplosivo. Mentre l’ex alleato turco ingaggia con lo stato ebraico una guerra diplomatica d’inusitata violenza e l’ambasciata israeliana del Cairo viene evacuata con l’aiuto delle forze speciali egiziane, Abu Mazen continua per la strada che lo condurrà, in un modo o nell’altro, ad appellarsi alle Nazioni Unite.
L’esito del progetto è molto dubbio, ma l’inerzia degli USA e la latitanza del cosiddetto quartetto (Unione Europea, Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna), il cui Inviato Speciale è niente meno che Tony Blair, spiega anche il ricorso a mosse disperate come questa. In un pezzo pubblicato ieri sul New York Times, il caporedattore di Gerusalemme, Ethan Bronner, descrive lucidamente le sfide che Palestinesi ed Israeliani dovranno affrontare nei prossimi mesi.
Innanzitutto, sembra non sia del tutto esclusa la possibilità che i palestinesi si appellino direttamente al Consiglio di Sicurezza, anziché, come era sembrato finora, all’Assemblea Generale, dove peraltro dovrebbero ottenere la maggioranza richiesta senza troppe difficoltà. Una mossa quasi suicida, dato che, su questa proposta, gli Stati Uniti hanno dichiarato che porranno il veto.
L’ha detto chiaro e tondo lo scorso 8 settembre Wendy Sherman, Counselor del Dipartimento di Stato americano, che in altre occasioni non aveva fatto mistero della netta contrarietà del governo americano all’utilizzo delle Nazioni Unite come ambito nel quale lavorare al riconoscimento dello Stato palestinese. Senza contare che, in caso di proposta al Consiglio di Sicurezza, il rappresentante americano potrebbe prendere tempo, chiedendo di poter esaminare con più calma il contenuto della richiesta dei palestinesi, dando così tempo a Tony Blair di tirare fuori qualche coniglio dal suo cilindro, ormai piuttosto impolverato.
Se anche i Palestinesi conquistassero lo status di osservatore presso l’Assemblea Generale, la mossa potrebbe avere degli effetti collaterali molto gravi. Poiché a tenere i cordoni della borsa sono gli americani, non è impossibile immaginare che l’irritazione statunitense, già oggi palpabile, prenda domani la forma della riduzione di quel flusso monetario tanto importante per la sopravvivenza dalla ANP; lo scorso gennaio Abbas ha dichiarato al giornale palestinese Al-Hayat al-Jadida che si tratterebbe di circa 460 milioni di dollari all’anno.
Secondo Bronner, il taglio ai finanziamenti esterni e il possibile indebolimento della collaborazione tra israeliani e palestinesi nel mantenimento della sicurezza potrebbero finire per rafforzare Hamas. Lo scenario estremo di un tentativo di rovesciamento dell’Autorità Palestinese nella West Bank da parte di Hamas sarebbe un’evoluzione davvero molto pericolosa, anche perché Israele non sarebbe disposto a tollerarla.
Altra questione essenziale è quella dei confini dello Stato palestinese che i delegati palestinesi vorrebbero veder riconosciuto dalle Nazioni Unite. Secondo il New York Times, diplomatici francesi starebbero aiutando i negoziatori palestinesi a metter giù la bozza di risoluzione costruita attorno ad una mappa della futura Palestina disegnata sui confini del 1967 (più alcuni scambi di territorio con Israele). Niente di scandaloso: Obama lo scorso 20 maggio aveva detto la stessa cosa.
Peccato che Israele non accetterà mai una simile soluzione, come del resto è dimostrato dall’immediata reazione del Primo Ministro israeliano Netanyahu alle parole di Obama (“proposta irricevibile”). Se la risoluzione passasse in questa forma, immediatamente circa mezzo milione di cittadini israeliani diventerebbero occupanti abusivi del territorio di un altro paese. Il destino di un popolo resta così tristemente sospeso, tra veti incrociati e colpevole inerzia.
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di Rosa Ana De Santis
Sono 12,4 milioni le persone che nella regione hanno urgente bisogno di aiuti umanitari: 3,7 milioni in Somalia, altrettanti nelle regioni del Kenya, quasi 5 milioni nell’est dell’Etiopia e 165.000 a Gibuti. Il Corno d'Africa comprende la Somalia, l'Eritrea, l'Etiopia, Gibuti e il Kenia. Crisi alimentare, carestia e il flagello delle epidemie, come il colera, che stanno colpendo gli sfollati e soprattutto numerosi bambini, tratteggiano i contorni di una orrenda catastrofe umanitaria.
Gli scontri armati, forti soprattutto in Somalia, rendono difficilissimo il lavoro degli operatori umanitari e la situazione dei campi complica moltissimo le stime e le statistiche. Quello che è chiaro a tutti è che i bambini malnutriti, che potrebbero essere salvati in poche settimane attraverso alimenti terapeutici, sono le principali vittime. Decine di migliaia sono morti e 2,3 milioni sono quelli malnutriti.
L’appello UNICEF per raccogliere 364 milioni di dollari, necessari al finanziamento dei primi sei mesi di aiuti, per ora è finanziato al 61%. La miscela fatale di siccità, il conseguente rialzo dei prezzi alimentari e la guerra in Somalia costituiscono i fattori scatenanti di questa tragedia umanitaria. La fuga dalle zone di guerra, il rifugio negli sterminati campi profughi e le condizioni naturali hanno scatenato un dramma che di così vaste proporzioni non si vedeva da 20 anni.
A fine luglio il vertice straordinario della FAO aveva dato le linee e le stime economiche degli aiuti necessari per intervenire nella regione, sorvolando appena il problema della volatilità dei prezzi alimentari adottato nell’ultimo G20 dai Ministri dell’agricoltura. E’ proprio questo fattore, invece, a giocare un ruolo non marginale in questa crisi e a rappresentare il motore di uno scontro politico ampio e globale tra il Nord e il Sud del mondo, le multinazionali da un lato e i movimenti contadini dall’altro, il business e i produttori di materie prime, espropriati, nella pratica, di terre e risorse.
La privatizzazione silente, sostenuta dietro le quinte proprio dalla Banca Mondiale, e i vertici politici rimandati sul lungo periodo e risolti in eventi scenografici, rappresentano il preludio fondamentale a crisi umanitarie come quella del Corno d’Africa. Quando alla guerra si uniscono disagi climatici e l’accesso al cibo viene tolto dalle mani dei paesi coinvolti la garanzia del disastro è assicurata. E’ lo scenario politico ed economico la vera e reiterata causa di questi esodi di massa e di tutte queste morti.
La risposta degli aiuti, per quanto necessaria come soccorso, non è mai una soluzione a lungo termine perché non altera mai gli equilibri e i rapporti di forza che governano a monte le relazioni con i Paesi in via di sviluppo e non fa che rafforzare quella modalità di elemosina con cui ci siamo abituati comodamente a sentirci dei benefattori.
Nel mese in cui i numeri dei bambini africani da vaccinare e da proteggere aumentavano di giorno in giorno, il nostro Ministro degli Interni portava in trionfo, proprio dal Meeting dei cattolici a Rimini, la politica dei rimpatri, fatti all’”italiana”. Proclami quantomeno di cattivo gusto se pensiamo ai messaggi, almeno quelli lanciati dal pulpito, in cui il papa invitava all’accoglienza e agli aiuti. La progressiva perdita d’interesse del governo italiano nella zona del Corno d’Africa con un totale allineamento alla politica internazionale USA ha significato finora anche un impegno davvero pallido negli aiuti umanitari.
La storia del Corno d’Africa è uguale a quella di molti altri. Disperati che non possono fuggire e non possono essere accolti. Che devono rimanere stritolati in casa dalla trappola di meccanismi economici creati ad arte per impedire ogni loro sviluppo, in attesa di qualche volo carico di cibo e medicinali. E’ questa mente occidentale la stessa che ha partorito la strage della Norvegia. La bomba che facciamo finta di non avere nella pancia.
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di Michele Paris
Il presidente Barack Obama è apparso giovedì sera di fronte ai membri del Congresso per presentare il suo nuovo piano per rilanciare l’economia e cercare di mettere in moto un meccanismo che possa tornare a produrre posti di lavoro. Il pacchetto da 447 miliardi di dollari dell’inquilino della Casa Bianca ha però ben poche possibilità di venire approvato da un Congresso nel quale i repubblicani sono in grado di bloccare ogni iniziativa democratica e, in ogni caso, la sua eventuale implementazione farebbe ben poco per risolvere la crisi occupazionale degli Stati Uniti.
Il piano promosso da Obama, costretto a fare i conti con la concorrenza televisiva dell’avvio della nuova stagione del football americano, combina sostanzialmente una serie di tagli alle tasse per le aziende e modesti progetti di spesa per la realizzazione di opere pubbliche.
L’intero pacchetto (“American Jobs Act”) risulta più sostanzioso rispetto a quanto annunciato nei giorni precedenti ed è stato accolto dalla stampa liberal con moderato entusiasmo, soprattutto alla luce di un presunto spirito combattivo che il presidente avrebbe ritrovato in un momento di grave crisi per il paese.
Durante i 32 minuti del suo intervento, tuttavia, Obama ha più volte supplicato i parlamentari repubblicani per convincerli ad approvare il piano, i cui meriti starebbero a suo dire nella presenza di misure appoggiate nel recente passato sia dagli stessi repubblicani che dai vertici delle compagnie private.
Punto centrale del programma è l’estensione dei benefici fiscali per le aziende che assumono nuovi dipendenti, una misura tutt’altro che innovativa e che ben poco ha fatto finora per ridurre il livello di disoccupazione. La premessa che ulteriori sconti e favori al settore privato contribuiscano a creare posti lavoro appare infatti quanto meno discutibile, dal momento che le più grandi aziende americane siedono letteralmente su centinaia di miliardi di dollari di profitti senza mostrare alcuna volontà di tornare ad assumere.
Oltre a ciò, sarebbe prevista poi l’estensioni dei sussidi di disoccupazione e circa 140 miliardi di dollari per lavori di ammodernamento di strutture pubbliche, ovviamente destinati anche in questo caso al settore privato.
Ciò che più sconcerta del discorso di Obama è la sua promessa di pagare queste iniziative con altri devastanti tagli alla spesa pubblica, che andrebbero così ad aggiungersi a quelli già previsti dall’accordo raggiunto poche settimane fa con il Congresso in occasione dell’aumento del tetto del debito americano.
Nonostante le concessioni ai repubblicani, è in ogni caso estremamente improbabile che il Congresso sarà in grado di far passare molto di più di qualche singolo provvedimento contenuto nel piano Obama, la cui efficacia complessiva è stata peraltro messa in discussione anche dai commentatori vicini alla Casa Bianca.
Costretta a fare i conti con un debito pubblico che ha raggiunto proporzioni colossali, la classe dirigente americana, senza toccare le enormi ricchezze accumulate dalla ristretta oligarchia economico-finanziaria di cui è espressione, si ritrova dunque a corto di soluzioni da offrire agli oltre 25 milioni di disoccupati.
Le uniche risposte, come ha tristemente mostrato il discorso di ieri di Obama, sono poco più di inutili esercizi retorici, nel tentativo di recuperare una parvenza di credibilità di fronte ai lavoratori e ad una classe media sempre più scoraggiati da un sistema politico da tempo incapace di farsi carico delle loro necessità.
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di Mario Braconi
Ulteriore escalation nella crisi diplomatica tra Turchia ed Israele, iniziata a fine maggio 2010 con il caso Mavi Marmara, e recentemente esplosa con l’anticipazione al New York Times di un report delle Nazioni Unite sull’incidente. Il Palmer report, infatti, concede ad Israele il punto, non da poco, della legittimità del blocco navale, che è poi la causa scatenante della reazione violenta dell’esercito israeliano e le conseguenti nove vittime (otto turchi ed un americano di origini turche).
Ma la Turchia appare determinata a sfidare apertamente lo Stato Ebraico proprio su questo punto: ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato ad Al Jazeera che il governo del suo Paese è determinato a continuare il sostegno alla popolazione civile della striscia di Gaza. “Navi da guerra turche sono autorizzate a scortare i natanti che portano aiuto alla popolazione di Gaza”, ha dichiarato il primo ministro, mettendo in chiaro che il suo governo non permetterà in futuro aggressioni come quelle avvenute lo scorso anno ai danni della Freedom Flotilla: d’ora in poi gli israeliani dovranno fare i conti con “una risposta adeguata”.
Parole inquietanti, che ventilano lo scenario di un possibile scontro in mare tra i due Paesi. Su cui, almeno per il momento, il Ministro dell’Intelligence israeliano, Dan Meridor preferisce glissare: “Queste dichiarazioni sono estremamente gravi - ha dichiarato ai microfoni della radio militare - ma non abbiamo intenzione di entrare in polemica. Non c’è nessun interesse ad aggravare la situazione replicando a questi attacchi”.
Meridor ha comunque aggiunto che chiunque forzi il blocco navale disposto da Israele su Gaza viola il diritto internazionale, dal momento che “una commissione dell’ONU ha stabilito la legittimità di questa iniziativa militare israeliana”. Il ministro israeliano si riferisce al Palmer report, ovvero al documento che, passato alla stampa in modo semi-clandestino il 2 settembre dopo due mesi di ritardo, ha fatto infuriare i turchi, facendo saltare un complicato negoziato tra i due paesi teso ad evitare l’attuale showdown diplomatico.
Se da una parte Meridor, pur mantenendo il discutibile punto, appare interessato a non infiammare ulteriormente gli animi, dall’altra il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, sempre a suo agio in tutte le situazioni in cui si devono menare le mani, picchia duro. Secondo Yediot Ahronot, Lieberman starebbe intessendo una manovra a tenaglia per interposta persona: aizzando da un lato la lobby filoebraica di Washington contro contro la Turchia e mettendosi contemporaneamente a disposizione a quella armena, che si batte da tempo per il pieno riconoscimento internazionale del genocidio del suo popolo, perpetrato dai turchi tra il 1915 e il 1918.
Lieberman non si fa mancare niente: secondo il quotidiano israeliano egli intenderebbe incontrare, e perfino finanziare, i ribelli curdi. Quando si dice la buona fede e l’innato senso di giustizia. In ogni caso, in una situazione incandescente, gli occhi continuano a essere puntati sulla visita di Erdogan in Egitto: andrà o no a Gaza?