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di Alfredo Mignini
EDIMBURGO. L'aula magna di George Square è semi-deserta. Fuori la pioggia va e viene, come al solito. Dentro ci sono una ventina di studenti, quasi tutti del secondo o del terzo anno, impegnatissimi a discutere i contenuti della loro protesta: cosa chiediamo all'università, alla città di Edimburgo e, infine, al governo. Alcuni sono venuti fin qui da Glasgow o da St. Andrews, che significa qualche ora di treno. Scoprirò in seguito che si tratta di attivisti avveduti, accorsi per l'occasione con striscioni e volantini, che grazie agli sforzi di questo ultimo anno di lotte hanno iniziato a fare rete, mettendo da parte alcune (normalissime) divisioni.
In assemblea, infatti, ritrovi gli ambientalisti di People&Planet così come gli anarchici con le bandiere rosso-nere e il collettivo femminista, ma c'è anche il candidato alle elezioni studentesche e gli altri dell'EUSA, l'associazione che raccoglie tutti gli immatricolati e li rappresenta negli organi accademici.
Si tratta di gente, comunque, che da più di un anno ha smesso di aspettare. A Glasgow, ad esempio, è grazie a loro che da febbraio scorso l'Hetherington Research Club ha riaperto i battenti nelle vesti di quello che in Italia si chiamerebbe un centro sociale. D'altronde anche prima era uno spazio di socializzazione e scambio fra studenti e studiosi aperto nel 1954 e chiuso nel 2010 per via dei numerosi tagli che l'istruzione britannica ha subito e sta subendo a svariati livelli.
E forse è proprio per questo attacco generalizzato ai servizi sociali, che si è scatenata una sorta di “febbre del fare” capace di riallacciare legami e rapporti fra i molti gruppi della sinistra studentesca. «Il momento - mi dicono - è così serio, che non ti puoi permettere di essere frammentato in mille gruppuscoli». Una cosa che in Italia sembra una bestemmia. Gli slogan invece, e solo quelli, sono gli stessi che ho lasciato a casa: il nostro «noi la crisi non la paghiamo» trova un gemello in «we won't pay their crisis».
Qui ad Edimburgo il “nuovo anno di rivolta e resistenza” è precocemente iniziato il 5 settembre, quando l'università ha deciso di alzare le tasse di iscrizione al massimo consentito dal governo: £9000 (contro le £1800 attuali). Si tratta di un aumento considerevole, spiegabile in parte dal fatto che in Scozia, a pagare davvero, sono da un lato gli studenti che vengono dal Galles e dall'Inghilterra, i cosiddetti RUK Students (Rest of UK), e dall'altro gli internazionali.
L'università, infatti, è gratis tanto per gli scozzesi quanto per gli studenti europei, essendo impossibile per un paese UE discriminare i cittadini degli altri stati membri. Dico in parte perché, in realtà, da quando il governo Cameron ha innalzato a 9mila il tetto massimo, 47 università su 123 hanno già chiesto di poter applicare il massimo dall'anno accademico 2012/13, segno che comunque le cose non vanno affatto bene, anche fuori di qui. E sono molti i giovani che hanno rinunciato al consueto gap year, l'anno sabbatico fra liceo ed università, pur di non pagare il salasso il prossimo settembre.
E così a quasi quindici giorni dall'aumento, che ha subito trovato il parere negativo dell'EUSA in consiglio, quel gruppo eterogeneo che risponde al nome di Anti-Cuts Movement ha deciso di lanciare un ciclo di occupazioni da 36 ore, come saranno 36mila le sterline da pagare per avere una normale laurea di quattro anni, che per ora è partito dal Lecture Theatre di Edimburgo e si sta allargando alle altre città universitarie.
Il programma è mobilitare più persone possibili in vista dei prossimi mesi, soprattutto i nuovi che si sentono salvi per essere saliti a bordo dell'ultima scialuppa di salvataggio e forse per questo fanno più fatica a rimboccarsi le maniche.
Non è così, nessuno è salvo se quella scialuppa deve affrontare la tempesta, come sembra. Le richieste (http://bit.ly/pUKxgS) che vengono discusse, infatti, tengono conto, seppur in maniera naif, di questo quadro ed é cercando intelligentemente di inscrivere la lotta dentro l'università in una cornice comune con le altre lotte, soprattutto sindacali, che stanno prendendo piede in tutto il paese.
Staremo a vedere come questo movimento riuscirà a gestirsi nel futuro, visti anche i primi successi dell'anno scorso in termini di visibilità e di capacità di non farsi criminalizzare e stroncare sul nascere. Non è dato sapere, ad oggi, se la cosa verrà risolta in termini classici con qualcuno che saprà raccogliere politicamente le loro richieste, oppure se dal movimento verranno fuori idee politicamente nuove.
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di Michele Paris
Per la prima volta da oltre cinquant’anni, la sinistra francese ha conquistato ieri la maggioranza assoluta nella camera alta del Parlamento di Parigi. Il voto per il Senato ha inflitto una nuova batosta al presidente Nicolas Sarkozy, sempre più impopolare tra l’elettorato d’oltralpe a ormai meno di sette mesi dalle elezioni presidenziali. Era dal 1958 che la destra in Francia deteneva la maggioranza al Senato.
I partiti di centro-sinistra (Socialisti, Verdi e Comunisti) hanno guadagnato 24 seggi nel voto di domenica, abbastanza per raggiungere la maggioranza di 177 su un totale di 348. Il voto è stato il primo dopo l’entrata in vigore della riforma elettorale che ha decretato l’aumentato del numero dei senatori, conseguenza dell’aumento della popolazione, e il rinnovo della metà dei componenti della camera alta ogni tre anni.
Lo storico cambio di maggioranza al Senato è la diretta conseguenza delle vittorie fatte segnare dalla sinistra nelle elezioni locali degli ultimi anni. L’elezione dei membri del Senato in Francia avviene infatti in maniera indiretta. A scegliere i senatori è cioè una delegazione di “superelettori” - 150 mila in totale, di cui poco meno di 72 mila si sono espressi domenica - composta da deputati, consiglieri regionali, rappresentanti dei consigli municipali e membri dell’Assemblea dei francesi all’estero. “Il 25 settembre 2011 rimarrà nella storia”, ha affermato Jean-Pierre Bel, capogruppo socialista al Senato, ad una televisione transalpina. “I risultati di questa elezione per il Senato rappresentano un’autentica punizione per la destra”.
Concretamente, la sconfitta della destra non dovrebbe creare troppi impedimenti all’azione del governo, dal momento che il Senato francese dispone di poteri decisamente inferiori rispetto all’Assemblea Nazionale (camera bassa), dove la destra conserva la maggioranza. Sarkozy, tuttavia, potrebbe veder svanire la possibilità di modificare la Costituzione per inserire l’obbligatorietà del pareggio di bilancio.
Come le recenti elezioni locali, anche quelle per il Senato hanno dunque confermato la popolarità in declino dell’inquilino dell’Eliseo, penalizzato, tra l’altro, dalla crisi economica persistente, da un livello di disoccupazione ancora elevato e dagli assalti portati allo stato sociale francese. A ciò vanno aggiunti anche gli scandali giudiziari che hanno colpito svariati alleati e amici di Sarkozy.
Per i vertici del partito del presidente (UMP), in ogni caso, la sconfitta di ieri va attribuita principalmente alle divisioni all’interno dello schieramento di centro-destra, confermate dalla presenza di numerose liste di candidati “dissidenti” che avrebbero sottratto voti ai partiti principali.
D’altro canto, nonostante i toni trionfalistici del Partito Socialista, la corsa alla presidenza appare tutt’altro che in discesa per l’opposizione. Oltre alla consueta combattività di Sarkozy in campagna elettorale, i Socialisti, dopo lo scandalo che ha colpito l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, dovranno fare i conti con la carenza di un candidato forte per il voto di aprile. I favoriti per la vittoria nelle imminenti primarie socialiste sono la segretaria del partito, Martine Aubry, e, soprattutto, il suo predecessore, François Hollande.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Si è conclusa ieri con la messa di Friburgo (Sud-Ovest) la visita del Papa in Germania: 90mila fedeli hanno raggiunto l’aeroporto della città per l’ultima celebrazione del pontefice nella sua terra natia, dopo quattro giorni di tappe importanti che hanno richiamato centinaia di migliaia di fedeli da tutto il Paese. Eppure c’è stata anche una parte di Germania che non ha risparmiato critiche a Benedetto XVI: al centro, inutile dirlo, la politica sessuale della Chiesa, considerata antica e ormai slegata dalla realtà.
Particolarmente discusso è stato l’incontro del Papa con alcune vittime di molestie sessuali condotte da preti e incaricati religiosi. Il colloquio è avvenuto venerdì sera in un collegio ecclesiastico di Erfurt, nella Germania centrale, dove il Papa ha poi pernottato. Dal Vaticano si sono impegnati a spiegare che l’appuntamento non era previsto, né tantomeno ufficializzato dal programma, che si è trattato di una “sorpresa”, un atto straordinario: anche se qualcuno, in realtà, già se lo aspettava.
Perché lo scandalo che ha colpito la Chiesa cattolica tedesca nel 2010 è ancora fresco nella memoria di tutti e, nella sua visita in Germania, Papa Ratzinger non poteva certo fingere indifferenza. L’anno scorso un’indagine interna partita dal collegio Canisius di Berlino ha portato alla luce una realtà di circa duecento casi di pedofilia avvenuti dal 1995 in istituzioni cattoliche in tutto il Paese, suscitando vergogna in tutto il mondo.
Con l’incontro di venerdì il Papa ha dimostrato di non rinnegare il problema della pedofilia nel clero, di aver quindi preso atto di ciò che è accaduto, e il gesto è stato particolarmente apprezzato dai credenti tedeschi, che sono accorsi a decine di migliaia per festeggiare l’appuntamento. Ma è proprio nell’attimo in cui tutte le luci erano puntate verso la questione “pedofilia nelle istituzioni cattoliche”, con la presenza importante del supremo pontefice che attirava l’attenzione, che qualcuno ha pensato bene di illuminare anche il rovescio della medaglia.
Perché venerdì, a Erfurt, c’erano un migliaio di persone che dimostravano contro Benedetto XVI e la Chiesa cattolica: i manifestanti hanno puntato il dito contro l’ambiguità e la “doppia morale” della Chiesa, un atteggiamento che ha portato a decenni di vergognoso silenzio, di cui nessuno sembra volersi prendere la responsabilità. È difficile pensare che l’incontro di Ratzinger con le vittime dell’ambiguità, in questo gesto simbolico a Erfurt, possa cambiare qualcosa e impedire altri abusi. Concretamente ci si aspetta più chiarezza da una Chiesa che sembra esprimersi con opinioni sociali fuori dal tempo.
Il rappresentante supremo della Chiesa cattolica è stato anche criticato per la discriminazione degli omosessuali, così come per l’obbligo del clero al celibato e la disparità di trattamento delle donne. La voce di protesta più potente è venuta da Berlino, dove si sono raccolte quasi 10mila persone - tra cui i membri di settanta associazioni omosessuali, antifasciste e sindacali - per chiedere alla Chiesa una politica sessuale più legata alla realtà. La contromanifestazione ha avuto luogo in occasione del discorso di Benedetto XVI nel Parlamento tedesco, evento per i manifestanti già di per sé controverso: come si può permettere di tenere un discorso in Parlamento, un’istituzione della democrazia, a qualcuno che rifiuta l’omosessualità, e dimostra quindi di non rispettare la libertà e i diritti dell’essere umano?
Come ha scritto il tedesco Werner Tzscheetzsch, ex-professore cattolico di teologia, la dottrina cattolica non prevede l’autonomia dell’essere umano e non accetta nessun pensiero indipendente, due condizioni tuttavia imprescindibili della nostra esistenza razionale. Finché non ci sarà un’evoluzione in questo senso è difficile immaginarsi una maggiore adesione del cattolicesimo alla realtà sociale, soprattutto a livello sessuale, e con ciò esso rimarrà sempre a rischio “doppia morale”: da una parte la dottrina, legata a dogmi antichi fuori dal tempo, dall’altra le necessità dell’uomo, due linee parallele che non si incontreranno mai nella realtà.
Tant’è che il viaggio del Papa a Berlino rimane, per Tzscheetzsch, pura scena, un grande spettacolo: “Quando [il Papa] se ne andrà sarà tutto come prima, non cambierà nulla”, scrive il teologo. Anche se quest’ultima costatazione non è del tutto esatta: dopo il discorso del Papa in Parlamento, ora i Verdi tedeschi cominciano a chiedersi perché non invitare anche il Dalai Lama. E già questo potrebbe essere visto come un piccolo passo avanti.
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di Michele Paris
I già complicati rapporti tra gli Stati Uniti e il Pakistan hanno subito giovedì una nuova gravissima scossa. L’ufficiale più alto in grado nelle forze armate americane, il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, ha infatti accusato pubblicamente i servizi segreti del paese centro-asiatico di avere avuto un ruolo diretto nei recenti spettacolari attacchi che hanno colpito il contingente NATO in Afghanistan.
Parlando di fronte ai membri della Commissione per le Forze Armate del Senato, Mullen ha sostenuto che l’attentato del 10 settembre scorso contro una base NATO di Kabul, nel quale hanno perso la vita cinque persone e sono stati feriti 77 soldati della coalizione, e l’assalto della settimana scorsa all’ambasciata USA, che ha fatto 16 morti tra civili e poliziotti afgani, sono stati opera della rete terroristica degli Haqqani con il sostegno concreto dell’ISI (Inter-Services Intelligence), la principale agenzia spionistica pakistana.
Senza mezzi termini, Mullen ha affermato che “gli Haqqani agiscono come se fossero una vera e propria sezione dell’ISI”, pur senza specificare che genere di supporto i servizi segreti pakistani avrebbero fornito a questo gruppo di insorti né citare alcuna prova concreta al riguardo.
Esponenti del governo e delle forze armate americane spesso accennano più o meno esplicitamente alla complicità delle autorità pakistane con i gruppi talebani che operano nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan, al fine di estendere la propria influenza in quest’ultimo paese. Mai però era stata fatta un’accusa così esplicita da una personalità autorevole come Mullen, ritenuto oltretutto, nell’establishment militare statunitense, tra i più convinti sostenitori della necessità di stabilire rapporti amichevoli con il Pakistan.
Le accuse del Capo di Stato Maggiore americano vanno ad aggiungesi a numerosi altri episodi che negli ultimi mesi hanno già incrinato notevolmente i rapporti tra i due improbabili alleati, a cominciare dal blitz dello scorso mese di maggio contro il rifugio di Osama bin Laden nella cittadina pakistana d Abbottabad.
La nuova disputa, inoltre, accresce le pressioni sul Pakistan per rompere definitivamente i rapporti con i gruppi terroristici che operano sul proprio territorio e, con ogni probabilità, preannuncia un intensificarsi delle incursioni americane con i droni nella province nord-occidentali, le quali causeranno nuove vittime civili e frizioni con Islamabad e alimenteranno l’odio delle popolazioni locali.
La risposta del governo pakistano alle accuse di Mullen è giunta tempestivamente per voce del Ministro del Interni, Rehman Malik, il quale ha negato il coinvolgimento dell’ISI negli attacchi di Kabul. Malik ha anche affermato che il Pakistan non consentirà azioni militari americane entro i propri confini contro la rete degli Haqqani nel Waziristan del Nord.
Di questa ipotesi si è probabilmente parlato martedì scorso a Washington, dove il numero uno dell’ISI, generale Ahmed Shuja Pasha, ha incontrato il direttore della CIA, generale David Petraeus. Il Pakistan è particolarmente sensibile alla questione, soprattutto dopo la palese violazione della propria sovranità verificatasi con l’azione delle forze speciali americane incaricate di assassinare bin Laden.
I ripetuti contrasti tra i due paesi avevano recentemente spinto il Pakistan ad intraprendere alcune misure nei confronti degli USA, tra cui l’allontanamento della maggior parte degli “istruttori militari” presenti sul proprio territorio. Iniziativa a cui Washington ha risposto con la minaccia di tagliare gli oltre 2 miliardi di dollari in aiuti militari stanziati annualmente.
Nonostante gli incerti passi avanti che sembravano aver avuto luogo nelle ultime settimane, le pesanti accuse dell’ammiraglio Mullen contro l’intelligence pakistana rischiano ora di aggravare le relazioni bilaterali tra i due paesi e di aumentare ulteriormente le tensioni in tutta la regione.
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di Mario Braconi
Sono molti i temi affrontati nel corso degli incontri tra rappresentanti dei governi americano e turco avvenuti tra lunedì e martedì a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York: gli attuali pessimi rapporti tra Ankara ed Israele, la possibile esplosione di una guerra civile in Siria, le rinnovate tensioni su Cipro e, inevitabilmente, la questione della nazione palestinese portata all’attenzione delle Nazioni Unite. Le tensioni tra i due alleati NATO ci sono, e si sentono: Hillary Clinton non ha fatto mistero della preoccupazione americana sul grave deterioramento dei rapporti tra la Turchia e Israele, specificando che in questo specifico momento non è desiderabile un aumento di tensione in Medio Oriente.
Maggiore sintonia si registra tra le posizioni di Obama ed Erdogan sul caso Assad: da quando il premier turco ha preso una netta posizione contro i “regimi di violenta repressione” del dissenso, su questo tema è tornato il sereno. Tensioni permangono inevitabilmente sul tema dello showdown con Israele e sul pieno appoggio turco alla decisione dell’Autorità Palestinese di continuare la sua lotta per lo stato palestinese alle Nazioni Unite. Educatamente respinte al mittente dagli Americani, invece, le parole del ministro degli esteri turco Davutolu che, discutendo la decisione della parte greca di Cipro di dare il via a ricerche di gas nel Mediterraneo orientale, ha parlato di “provocazione”.
Da un punto di vista di strategia politica, potrebbero essere proprio i punti di dissenso con gli americani più che quelli di sintonia a rendere cruciale la figura di Recep Tayyip Erdo?an nel futuro prossimo del Medio Oriente. Innanzitutto, con la primavera araba (in particolare dopo la caduta di Mubarak) è evidente l’attivismo con cui il premier turco si sta muovendo sullo scacchiere del Medio Oriente, per accreditare il suo paese come potenza di riferimento nel mondo islamico. In questo senso va interpretato il suo recente tour in Egitto, Tunisia e Libia; perfino il modo muscolare con il quale ha affrontato la questione della Mavi Marmara tradisce l’intenzione di aumentare in modo facile la sua popolarità nei paesi islamici.
Del resto, se Erdogan è diventato famoso “come una rockstar” é anche grazie alla sua passione per le boutade grossolane ad alto gradimento delle masse. Bisogna però dire che, come ricorda Owen Matthews su The Daily Beast, questo atteggiamento qualche volta si traduce in un boomerang: ricordiamo ad esempio la volta in cui definì Hamas un gruppo di “combattenti per la libertà”. Eppure, al di là degli errori politici e dei difetti personali, è essenziale che gli Stati Uniti - ma anche tutti i paesi occidentali nominalmente interessati allo sviluppo di una compiuta democrazia nei paesi islamici - prendano atto del peso politico delle posizioni espresse dal primo ministro turco nel corso della sua visita in Tunisia: “La Turchia è uno stato democratico, laico e sociale.
Per quanto riguarda la laicità, uno stato laico mantiene l’equidistanza rispetto a tutti i gruppi religiosi, inclusi musulmani, cristiani, ebrei e atei.” Va detto che la sua storia decennale di contrasto agli estremisti laicisti è stata confermata in diverse occasioni e non tutte degne di patenti democratiche: colpi di Stato ed annullamento di risultati elettorali, fino al risultato ottenuto nel 2008 con l’abolizione del divieto di indossare il velo nelle università turche.
Eppure, l’ambasciatore israeliano ad Ankara, secondo il contenuto di un cablo di pubblicato da Assange arrivò a definire Erdogan “un pericoloso estremista islamico che ci odia dal punto di vista religioso”. Forse non è in errore Matthews quando definisce la Turchia di Erdogan “la nuova superpotenza mediorientale”: un paese a maggioranza assoluta islamica che ha raddoppiato il suo prodotto interno lordo in meno di un decennio e che può costituire un modello per le nuove democrazie arabe.
I Paesi islamici hanno bisogno di sentir parlare di diritti e di libertà da qualcuno che sentano vicino, specie dopo anni in cui le parole “libertà” e democrazia sono state spese da personaggi come Bush, divenendo sinonimo di guerra e abusi. E sarebbe bene che anche Israele comprendesse che normalizzare i rapporti con l’ex alleato, anche a costo di qualche passo indietro, è anche nel suo interesse.