di Carlo Musilli

Decenni di stragi, genocidi e deportazioni, ma alla fine è successo. Sul nostro pianeta è nata ufficialmente una nuova nazione, il Sudan del Sud. A gennaio un referendum ne ha sancito la secessione da Khartoum e sabato scorso si è svolta la cerimonia per la proclamazione di indipendenza. Il neonato africano (54esimo Stato del continente) è grande come Kenya, Uganda e Tanzania messi insieme, ma la sua popolazione non raggiunge i nove milioni di abitanti. La metà della sola città del Cairo. Per arrivare fin qui sono state combattute due guerre civili decennali (1955-1973 e 1983-2005). Da una parte i musulmani arabi del nord, dall'altra i cristiani del sud. Oltre due milioni di persone sono morte, quattro milioni gli sfollati.

Nonostante l'entusiasmo sfrenato che si respira in questi giorni per le strade di Juba, la nuova capitale, leggere quello che è successo sabato come il lieto fino di una brutta storia sarebbe quanto mai ingenuo. Il Sudan del Sud è ancora una delle aree più sottosviluppate al mondo e i massacri sono ancora pane quotidiano. Nulla lascia prevedere che la situazione possa migliorare in tempi brevi, soprattutto perché il nord rimane sotto il controllo del dittatore sanguinario Omar al Bashir. Su di lui pende un mandato di cattura emanato dalla Corte penale dell'Aia per i crimini di guerra e contro l'umanità commessi nel Darfur.

Al Bashir era presente alla proclamazione d'indipendenza. La sua doveva essere una visita diplomatica e di riconciliazione, ma è sembrata più un gesto di scherno. O, peggio ancora, un monito a non alzare troppo la testa. Sono ancora molte le questioni aperte su cui il dittatore non ha alcuna intenzione di negoziare.

A livello territoriale, la disputa principale riguarda la regione centrale di Abyei, diecimila chilometri quadrati fertili e ricchi di petrolio al confine fra i due stati. Dopo l'invasione delle truppe di Khartoum, nella zona sono stati schierati 4.200 caschi blu eritrei del contingente di pace Onu. Un'altra area critica è quella del Kordofan meridionale, terra abitata principalmente da cristiani, che però rimarrà nei confini del nord.

Oggi è presidiata dall'esercito sudanese, che intende prevenire qualsiasi possibile velleità di secessione. Un accordo per la spartizione pacifica della regione fra i due Paesi era stato raggiunto lo scorso 29 giugno. Al Bashir lo ha ricusato giovedì, due giorni prima di volare a Juba con un bel sorriso stampato sulle labbra.

Come prevedibile, gran parte dei conflitti ruota attorno al petrolio. L'oro nero contribuisce per il 98% ai ricavi del sud e per il 90% a quelli del nord. Dividere questa risorsa in un modo accettabile fra le parti sembra un'impresa titanica. Soprattutto perché, anche dopo la separazione, i due territori rimangono strettamente interdipendenti.

Nel sud, prevalentemente rurale, si trovano i tre quarti dei giacimenti, ma gli oleodotti e le raffinerie sono tutti al nord. Una delle soluzioni prospettate prevede che il sud venda a Khartoum il suo petrolio con uno sconto del 10% nei prossimi tre anni, pagando al contempo l'utilizzo delle infrastrutture. Ma non sarà un accordo facile da raggiungere.

Oltre alle contese con i vecchi connazionali, il Sudan del Sud deve anche fronteggiare una serie di problemi interni. Il più grave ha a che fare con la minaccia del conflitto etno-tribale. Sembra che nelle ultime settimane la comunità Dinka, a cui appartiene il neo presidente Salva Kiir, stia portando avanti un'ennesima, sistematica pulizia etnica nei confronti dell'etnia rivale Nuer.

Tutto questo accade in un Paese dove la stragrande maggioranza della popolazione guadagna meno di un dollaro al giorno e vive di agricoltura su terreni per lo più desertici. La mortalità femminile legata al parto è la più alta al mondo e oltre la metà dei bambini non va a scuola. In compenso, il Sudan del Sud è uno dei paesi più ricchi di armi di tutta l'Africa. Il mercato più fiorente è quello dei kalashnikov, degli Ak47 e soprattutto delle armi di piccolo taglio.

Degrado e mancanza di sicurezza sono ai livelli massimi su scala globale, ma tanto per cambiare le Nazioni Unite non sembrano disposte ad andare oltre il minimo sindacale per questa fetta del pianeta. Si limitano a monitorare gli attacchi portati dalle truppe sudanesi alla popolazione civile, senza garantire una reale protezione.

I governi occidentali si producono nei soliti appelli in favore dei diritti umani. Purtroppo Al Bashir nemmeno gira la testa per ascoltarli. L'unico Paese ad avere un vero potere contrattuale per far sentire la sua voce fin qui è la Cina, che acquista circa i due terzi del petrolio esportato dal Sudan. Ma se le disgrazie subsahariane non appassionano l'Onu, figuriamoci quanto possono interessare al regime di Pechino.

di Giuliano Luongo

Numerosi sono gli aspetti sottolineati in maniera più che ampia, spesso anche in maniera esplicitamente inutile, della grande rivoluzione egiziana culminata con la cacciata di Mubarak. In ogni caso, l'elemento economico sembra essere passato in sordina, quando invece si dimostra essere un dei fattori che più potranno influenzare seriamente il futuro del Paese. La situazione economica egiziana, infatti, era ed è tutt'ora disastrata.

E’ essenziale dare un’occhiata ai numeri per rendersi conto della gravità della situazione. Nel primo quadrimestre dell’anno in corso il PIL è tracollato di 7 punti percentuali, mentre il fatturato del turismo - settore traino per l’economia - è sceso dell’80%; il tutto condito da un tracollo del 32% del mercato azionario.

L’occhio vigile e metafisico del Fondo Monetario Internazionale ha stimato un tasso di crescita annuale per l’anno in corso dell’1%, quando solo 365 giorni fa la crescita annua era arrivata al 5,1%. Meno pessimista il molto meno blasonato IFI (Istituto della Finanza Internazionale), che ipotizza “solo” un dimezzarsi della crescita del PIL, con un dato per l’anno in corso al 2,5%, senza dimenticare che una crescita forte serve di base già solo a mantenere il passo con il livello di crescita della popolazione, cosa non facile in un paese come l’Egitto.

In quest’amena situazione (che potrebbe peggiorare) l’intervento di “salvataggio” delle istituzioni economiche e finanziarie internazionali è stato presentato come l’unico modo per uscire da questo momento di crisi. In effetti, però, è più inquadrabile come l’unico modo per le autorità egiziane per rendersi gradite al jet set delle potenze internazionali mostrando loro una faccia “globalizzata”. E magari anche per distrarre il resto del mondo dal fatto che le fazioni estremiste islamiche stanno tentando più che mai di colonizzare la politica del Paese.

In ogni caso, le cifre messe sul piatto dalle istituzioni economiche internazionali erano di certo più che ghiotte: 2,2 miliardi di dollari dalla Banca Centrale e soprattutto un maxi bail out da parte del FMI per coprire 10-12 miliardi di dollari di buco presente nel budget egiziano.

Inutile dire che, specie quello del Fondo, era un prestito più che condizionato dall’assunzione di misure liberalistiche e liberalizzanti da parte del governo provvisorio. Il Fondo aveva “dubbi” sulle vere intenzioni “liberali” dei leaders egiziani, temendoli troppo proni a “sottostare alla pressione popolare” e pertanto non avvezzi a dare il “colpo” necessario al sistema economico-istituzionale del Paese.

Vediamo dunque la tipica storiella della “liberalizzazione giusta” che si ripete: o ti apri forzatamente oppure niente, il prestito internazionale non arriva e via verso la bancarotta. Che allegria. Come sempre, questa vicenda pare dimenticare il fatto che allontanare lo Stato dalla società in un Paese tragicamente povero è solo un ottimo strumento per far sprofondare il Paese medesimo nelle mani degli oligarchi di turno supportati da residui di regimi precedenti e, perché no, potenze straniere interessate ad espandere la propria egemonia.

Il tempo passa, ma ancora nessuno pare imparare nulla dai fiaschi dei principi del Washington Consensus e della liberalizzazione forzata dell’Europa dell’est. E di certo a povertà diffusa l’Egitto sta messo più che bene, con un tasso medio del 20% di poveri nelle aree urbane che sale al 70% in quelle rurali.

In ogni caso, il 6 giugno scorso il FMI ha dato il proprio “via libera” al prestito, iniziando con la cifra di 3 miliardi di dollari (interessi all’1,5%) e la solita motivazione di rigore: il Fondo ha spiegato che il prestito sarà elargito per favorire una serie di riforme economiche che definiranno un nuovo assetto sociale tramite “lotta a povertà e disoccupazione” (anche con un programma di assunzioni pubbliche, un po’ in contrasto con l’idea di trinciare la spesa pubblica) e “varie riforme”.

Si noti come il termine riforme non venga mai associato a descrizioni - anche vaghe - sul contenuto delle stesse: in ogni caso, la verità è venuta a galla, con tutto il pacchetto innovatore che in pratica si sarebbe concretizzato in un mega taglio a tutto quello che potesse ricordare anche vagamente il caro, vecchio welfare. E fare questo in un Paese in cui i cittadini sono talmente esasperati da vivere accampati in piazza a spaccare tutto per richiedere condizioni di vita decenti, è francamente una baggianata. E si poteva scrivere di peggio.

Ma la leadership egiziana, memore di com’era finito Mubarak dopo l’ennesima manifestazione di piazza ove, accanto alle “solite” richieste di vere elezioni subito e più riforme politiche vi erano presenti forti inni contro questa devastazione economica supplementare spinta dal Fondo, ha deciso di non agire secondo quanto indicato dagli organismi finanziari internazionali.

Poco prima della fine di Luglio, infatti, il Ministro, delle Finanze egiziano Samir Radwan ha dichiarato che il suo Paese rinunciava pubblicamente a ricevere il prestito di salvataggio del Fondo, ritenendolo troppo oneroso sia per “numerosità” che per condizioni. Questo duro quanto inaspettato NO a caratteri cubitali si è manifestato (quale coincidenza) quasi in concomitanza con la dichiarazione di aiuto volontario e volenteroso da parte di Arabia Saudita e Qatar.

Riad aiuterà gli egiziani con 4 miliardi di dollari, erogati sotto forma di prestiti a lunga scadenza e contributi, mentre il Qatar - stando a quanto riferito dalle autorità dell’Egitto - contribuirà con “appena” 10 miliardi in investimenti (non sono state date specifiche ulteriori). La sensazione di sollievo venuta dal vedere come un Paese in via di sviluppo abbia mandato a quel paese il FMI viene però meno celermente vedendo che l’Egitto si allinea strettamente con due monarchie assolute a matrice islamica.

Non ci si può non domandare se l’Egitto abbia fatto o meno il tipico salto dalla padella alla canonica brace: non si può dirlo con certezza, in quanto non si può stabilire a tavolino quale sia il peggiore dei due mali, tra un’occidentalizzazione forzata (e sappiamo quanto le cose vadano male dalle nostre parti) ed una tendenziale re-islamizzazione, con l’alleanza economica - e probabilmente de facto anche politica - con le monarchie petrolifere islamiche.

Vedendo il sorgere di partiti legati ad estremisti islamici - non parliamo solo dei rinati Fratelli Musulmani, ma anche della nuova fazione politica ufficiale dei Salafiti - ed il supporto internazionale delle citate monarchie, non ci si può non preoccupare per vedere dove finirà l’Egitto: in barba agli slogan di libertà cantati dai coraggiosi rivoluzionari, le ombre che si stendono sul Paese sono lunghe e spesse come il braccio dell’oscurantismo. Non resta che sperare ancora nella forza della piazza. Perché, par di capire, serve ancora la piazza.

 

di Michele Paris

Il ritorno delle forze di sicurezza siriane nella città di Hama ad inizio settimana ha segnato un nuovo intensificarsi della repressione del regime del presidente Bashar al-Assad nei confronti delle proteste in corso da oltre quattro mesi nel paese. Mentre il governo sta per avviare un improbabile progetto di dialogo con l’opposizione, le pressioni esterne su Damasco continuano a crescere, prefigurando uno scenario incerto e destabilizzante non solo per la Siria ma per tutta la regione mediorientale.

Dopo il duro intervento del regime ad inizio giugno, le forze di sicurezza di Assad avevano abbandonato la città di Hama, permettendo una qualche libertà di espressione del dissenso. Come segnale di apertura, il presidente aveva inoltre rimosso dal suo incarico il governatore di Hama, Ahmad Khalid Abdel Aziz, nominato solo lo scorso mese di febbraio.

Meno di un mese più tardi i carri armati sono però tornati nella quarta più grande città della Siria –  dove nello scorso fine settimana erano scese in piazza centinaia di migliaia di persone – operando nuovi arresti a tappeto e uccidendo almeno una ventina di manifestanti. Ad aumentare le tensioni é stato anche l'arrivo ad Hama (giovedì scorso) degli ambaaciatori americano Robert Ford e francese Eric Chevallier, le cui presenze hanno suscitato le proteste del governo siriano.

Questa città della Siria centrale a nord di Damasco ha un’importanza simbolica del tutto particolare sia per il regime che per i suoi oppositori. Nel febbraio del 1982 fu infatti teatro del massacro di decine di migliaia di sostenitori dei Fratelli Musulmani in rivolta da parte dell’allora presidente Hafez al-Assad.

L’allargamento delle proteste nel paese sta così moltiplicando le voci di quanti nella comunità internazionale auspicano la fine del regime di Assad. I segnali che preannunciano un’azione diretta - se non addirittura un intervento militare sul modello libico - da parte dell’Occidente o di qualche paese vicino sono ormai molteplici nelle ultime settimane. Oltre alle sanzioni economiche contro i massimi esponenti del governo, già applicate da Stati Uniti e Unione Europea, sono sempre più frequenti le minacce verbali più o meno esplicite.

Il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, ad esempio, qualche giorno fa in un’intervista alla CNN ha ribadito che il tempo per Assad sta per scadere. Dalla stessa Turchia, la quale aveva costruito rapporti diplomatici ed economici molto stretti con la Siria negli ultimi anni, si parla poi di un possibile intervento militare in territorio siriano, sia pure circoscritto, per creare una zona cuscinetto di confine, in modo da permettere ai profughi di sfuggire alle violenze.

Dell’altro giorno è infine un rapporto di Amnesty International che accusa Assad e il suo entourage di crimini contro l’umanità. Una denuncia che potrebbe aprire la strada ad una incriminazione presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia per il presidente siriano e i suoi più stretti collaboratori, sulla scia di quella istruita recentemente contro Gheddafi e da utilizzare come pretesto dalle potenze occidentali per giustificare un eventuale intervento militare.

Il crollo del regime, in ogni caso, oltre che sotto l’azione di forze esterne, potrebbe avvenire per implosione. La prolungata siccità e la crisi alimentare nelle campagne, già tra le cause scatenanti della rivolta, e un’economia sempre più in affanno sono infatti i più immediati motivi di preoccupazione per la sopravvivenza di Assad. Le difficoltà dei mercanti sunniti – uno dei pilastri del regime alauita di Damasco – in seguito alla crisi interna potrebbe in particolare infliggere un colpo fatale alla tenuta e alla legittimità residua del governo.

Allo stato attuale delle cose, appare invece improbabile che un’opposizione debole e divisa possa provocare da sola la caduta del regime, tanto più che l’esercito e le forze di sicurezza appaiono ancora sostanzialmente fedeli alla cerchia di potere di Damasco, nonostante le notizie di massicce diserzioni circolate nei giorni scorsi.

Il raduno concesso eccezionalmente da Assad la settimana scorsa a circa 150 tra intellettuali e dissidenti di varia provenienza ha confermato le divisioni che attraversano la multiforme opposizione siriana. Il gruppo che si è riunito a Damasco ha invocato riforme ed ha lanciato un appello al dialogo, senza chiedere però la fine del regime. Una posizione fortemente criticata dai gruppi che stanno animando le proteste di piazze, i quali hanno infatti disertato l’inconsueta assemblea andata in scena in un hotel della capitale.

Mentre una certa opposizione, nonché verosimilmente una buona parte della popolazione siriana, sembra valutare con qualche interesse le concessioni fatte finora dal governo, come l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici o la soppressione della legge sullo stato di emergenza, le formazioni più o meno spontanee che continuano a manifestare chiedono con forza la partenza di Assad e una transizione democratica immediata.

In questa incertezza, domenica prossima dovrebbe scattare il “summit per il dialogo” che il presidente promette sarà un’occasione per discutere con l’opposizione delle riforme proposte dal regime. Tra le iniziative di cui si parlerà c’è la legge sui partiti politici, che dovrebbe porre fine allo status privilegiato del partito Ba’ath, ma anche la legge elettorale e possibili elezioni ad agosto, la legge sui media e il cambiamento della Costituzione. Resta da capire quale opposizione parteciperà al dialogo e di chi sarà voce, dal momento che in molti tra i militanti anti-regime hanno già annunciato di non voler discutere con il governo mentre è in corso la repressione nelle città siriane.

Con un’opposizione disunita e senza guida né obiettivi precisi, si aprono allora ampi spazi per le manovre dei paesi occidentali. L’obiettivo principale di Stati Uniti e Israele è innanzitutto quello di sganciare la Siria dall’alleanza con l’Iran e, di conseguenza, di spezzare il cordone che unisce questi due paesi ad Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano. Dopo il deterioramento già avvenuto delle relazioni tra Turchia e Siria, questo sviluppo contribuirebbe a rompere il fronte anti-americano e anti-israeliano in Medio Oriente. Allo stesso scopo lavorano anche i sauditi, il cui silenzioso intervento in Siria sta inoltre fomentando conflitti settari in uno dei paesi più secolari del mondo arabo.

I timori di una destabilizzazione incontrollata della Siria e dell’intera regione sembrano scemare a poco a poco di fronte alla possibilità di assistere alla prossima fine di Assad. Che nel mirino dell’Occidente ci sia poi, oltre al regime di Damasco, anche l’Iran appare chiaro. A confermarlo ci sono tra l’altro le nuove sanzioni decise settimana scorsa dall’amministrazione Obama contro la Repubblica Islamica, accusata pur senza prove sostanziali di aver fornito appoggio alla repressione condotta dal maggiore alleato di Teheran in Medio Oriente.

Da parte loro, Francia e Gran Bretagna stanno cercando di far votare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU una risoluzione contro il governo siriano. A questa iniziativa si oppongono tuttavia Cina e, soprattutto, Russia, la quale conserva in Siria la sua unica base navale nel Mediterraneo. Già critica nei confronti della NATO per le operazioni in Libia, Mosca comprende perfettamente che la rimozione di Assad per mezzo di un intervento occidentale rappresenterebbe un colpo mortale per i propri interessi in Medio Oriente.

La prospettiva di un’azione occidentale simile a quella in corso in Libia implicherebbe anche un probabile coinvolgimento dell’Iran, preoccupato per l’isolamento a cui andrebbe incontro con la caduta del regime alauita di Damasco. L’aggravarsi della situazione in un paese strategicamente fondamentale per gli equilibri mediorientali come la Siria minaccia insomma di innescare pericolosi conflitti che andrebbero ben al di là dei suoi confini.

di Carlo Musilli

Noi di intercettazioni ne sappiamo qualcosa, ma ora anche i sudditi di sua Maestà iniziano a capire di che si tratta. Con una piccola differenza: da noi il tycoon fa la parte dell'intercettato, oltremanica è l'intercettatore. Parliamo del magnate della comunicazione Rupert Murdoch, proprietario del colosso planetario "News Corporation". Uno dei suoi giornali inglesi, il News of the world, è in questi giorni al centro di uno dei peggiori scandali che abbiano mai toccato la stampa britannica e domenica sarà costretto a chiudere i battenti.

Dirigenti e giornalisti rischiano l'arresto per aver ascoltato illegalmente le telefonate di attori, calciatori, membri della famiglia reale, vip della politica e dello spettacolo. Non basta. Pare che, tramite un investigatore privato, abbiano ficcato il naso nelle conversazioni dei familiari delle vittime di rapimenti, attentati terroristici e perfino dei militari morti in Iraq e Afghanistan.

Ma lo schifo non sarebbe completo se non c'entrasse la politica. In questo caso, l'anello di congiunzione si chiama Andy Coulson. Vicedirettore della testata di casa Murdoch dal 2003, fu costretto a dimettersi quattro anni dopo. Già allora era sospettato di aver corrotto dei poliziotti per mettere in piedi un'oscura rete d’intercettazioni. A dargli una seconda chance è stato nientemeno che il primo ministro David Cameron, nominandolo suo portavoce nel maggio 2010. Purtroppo Coulson, inseguito da accuse sempre più gravi, ha dovuto lasciare anche questo incarico lo scorso gennaio.

Le sue dimissioni però non sono bastate a togliere d'impiccio il Premier, la cui credibilità è ormai compromessa dallo scandalo. Anche ammettendo che non fosse direttamente coinvolto (non ci sono accuse contro di lui) è difficile credere che non sapesse niente. E, se così fosse, ce ne sarebbe abbastanza per tacciarlo quantomeno di idiozia.

Ad oggi Cameron vorrebbe solo prendere tempo e lasciare che l'affare si sgonfi, ma non ha vita facile. Il suo alleato di governo, il liberaldemocratico Nick Clegg, è fra i più determinati a fare chiarezza. Quanto all'opposizione, l'agguerritissimo laburista Ed Miliband non si è lasciato sfuggire l'occasione di gettare fango sul Premier, chiedendo anche al governo di avviare un'inchiesta pubblica indipendente.

Ma veniamo al vero eroe di questa storia, re Murdoch d'Inghilterra. In questo momento la debacle del News of the world, da cui tutti gli inserzionisti pubblicitari sono fuggiti a gambe levate, è davvero il minore dei suoi problemi. Il vero rischio per il magnate australiano è che sfumi l'affare BSkyB.

Si tratta della seconda tv satellitare a pagamento del Regno Unito, con 10 milioni di clienti e un fatturato da 5,9 milioni di sterline. Per acquistarne l'intero capitale, Murdoch (che ha già in tasca il 39,1% delle azioni) sarebbe disposto a sborsare qualcosa come 9,4 miliardi di sterline. Il governo aveva dato il via libera all'operazione, ma i fatti degli ultimi giorni hanno rimesso tutto in discussione, facendo slittare la decisione finale dell'Esecutivo a settembre.

Se nonostante tutto la trattativa andasse in porto, il tycoon diventerebbe una specie di "Berlusconi inglese", come hanno scritto diversi giornali britannici. Nel Regno Unito la News Corporation è già proprietaria di varie testate di primo piano: oltre allo storico domenicale appena soppresso, fanno parte della famiglia anche il Sun, il Times e il Sunday Times. E non ci dimentichiamo della più nota emittente televisiva del mondo, Sky.

A tener presente il quadro generale, viene da pensare che forse l'ultimo scandalo scoppiato nella terra della Regina potrebbe paradossalmente rivelarsi un evento positivo per la salute cerebrale dei sudditi inglesi. Se si riuscisse a evitare che Murdoch rafforzi ulteriormente la sua leadership, tanto di guadagnato. Sia negli Usa che in Gran Bretagna il miliardario ha già creato dei sistemi di potere in grado di condizionare pesantemente non solo l'opinione pubblica, ma anche la vita economica e politica dei due Paesi.

Il meccanismo è semplice, per certi versi rozzo. Le aziende del grande burattinaio non si schierano da una parte o dall'altra per sostenere un qualche tipo dìideologia, ma solo per consentire al loro proprietario di trarre il maggior profitto materiale possibile. Basti pensare al diverso ruolo svolto in diversi contesti. Negli Stati Uniti la Fox (altra tv di Murdoch) ha praticamente fatto eleggere Bush Junior al suo primo mandato e tuttora sostiene i repubblicani più bigotti del Tea Party. Al contrario, in Inghilterra, le testate della News Corporation sono sempre state le migliori amiche del laburista Tony Blair, salvo poi passare dalla parte di Cameron con l'avvento di Gordon Brown.

Una strategia spregiudicata e quasi cannibalesca quella del Berlusconi di Inghilterra, che può contare su una potenza economica senza rivali, nemmeno dalle parti di Arcore. Soltanto l'anno scorso gli utili netti della News Corporation hanno raggiunto i 2,5 miliardi di dollari. Soldi che fanno gola a chiunque lavori nell'editoria, ma chi aspira ad un'informazione decente dovrebbe pregare che restino lontani. E davvero nessuno può stare tranquillo. Giù da noi, ad esempio, la versione australiana del Cavaliere ha messo gli occhi su La7.

 

di Michele Paris

Con una vittoria a valanga nelle elezioni di domenica scorsa, il principale partito di opposizione in Thailandia ha conquistato la maggioranza assoluta nel Parlamento di Bangkok. Il voto anticipato chiude una tormentatissima fase politica nel paese del sud-est asiatico e conferma l’ampiezza di consensi su cui può tuttora contare il popolare ex-premier in esilio Thaksin Shinawatra, la cui sorella minore, Yingluck, sarà chiamata a guidare il nuovo governo in un prossimo futuro che si annuncia pieno di incertezze.

Secondo i dati ufficiali, il partito di opposizione Pheu Thai si è assicurato 265 dei 500 seggi che compongono la Camera bassa del Parlamento thailandese. Nonostante la possibilità di formare un nuovo gabinetto in tutta autonomia, il primo ministro in pectore ha annunciato lunedì la sua intenzione di dar vita ad una coalizione di governo assieme ad altri quattro partiti minori.

Oltre a rafforzare una compagine governativa che dovrà affrontare sfide e resistenze durissime, la mossa di Yingluck Shinawatra è stata suggerita probabilmente dalla dichiarazione ufficiale della commissione elettorale tailandese poche ore dopo il voto. La commissione, infatti, ha rivelato di aver avviato indagini su possibili brogli che potrebbero portare all’esclusione di alcuni candidati del partito uscito vincitore dalle urne e ridurne così i seggi conquistati. I risultati definitivi saranno comunque resi noti tra non meno di un mese.

Il grande sconfitto dell’elezione di domenica è invece il Partito Democratico del premier in carica, Abhisit Vejjajiva, capace di ottenere appena 159 seggi. In seguito alla batosta elettorale, Abhisit ha presentato le proprie dimissioni da leader di un partito tradizionalmente espressione dell’establishment militare, della casa reale e della borghesia urbana.

A installare la 44enne imprenditrice senza precedenti esperienze politiche - Yingluck Shinawatra - al vertice del partito Pheu Thai, era stato il fratello ex premier, che da qualche anno vive a Dubai per sfuggire ai procedimenti legali intentati nei suoi confronti in Tailandia. Thaksin Shinawatra era stato rimosso dal potere con un colpo di stato militare, approvato tacitamente da Washington, nel settembre del 2006, in seguito al quale è stato appunto messo sotto accusa per abuso di potere e corruzione.

Leader populista e businessman miliardario nel settore delle telecomunicazioni, Thaksin aveva trionfato nelle elezioni del 2001 e del 2005. Il suo successo era dovuto principalmente alla promessa di ribaltare le politiche di rigore imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali dopo la crisi che aveva colpito l’Asia sud-orientale tra il 1997 e il 1998.

Grazie a programmi sociali relativamente generosi, sussidi ai contadini e la garanzia di un’assistenza sanitaria gratuita, Thaksin si era assicurato il sostegno dei ceti più poveri nelle città e nelle regioni rurali tailandesi. La sua azione politica - condotta in maniera sempre più autoritaria - aveva suscitato la dura reazione dei tradizionali centri di potere del paese, costituiti dall’apparato militare, dalla casa regnante e dalle classi più agiate della capitale.

Dopo il golpe, dunque, le nuove elezioni del 2007 avevano ancora una volta consegnato la maggioranza ai sostenitori di Thaksin. I due successivi primi ministri furono però deposti da altrettante sentenze giudiziarie politicizzate, così come due decisioni della Corte Costituzionale tailandese dissolsero per frode elettorale i partiti facenti capo all’ex premier - Thai Rak Thai (TRT) e Partito del Potere Popolare (PPP) - rispettivamente nel maggio del 2007 e nel dicembre dell’anno successivo.

Sempre nel 2008, in seguito alle manovre dei poteri forti del paese, venne così installato alla guida del governo Abhisit Vejjajiva del Partito Democratico. La sua ascesa fu resa possibile solo dal sostegno ottenuto in Parlamento di un certo numero di deputati usciti dal partito di Thaksin, oggetto delle pressioni dei militari e degli ambienti reali.

I metodi profondamente anti-democratici con cui venne manipolato il quadro politico della Thailandia fu alla base dell’esplosione delle proteste di piazza delle cosiddette “camicie rosse”, raggruppate nel “Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura” (UDD). Nella primavera del 2010, i manifesti, provenienti in gran parte dalle aree rurali del nord del paese, bloccarono per settimane il centro di Bangkok, chiedendo le dimissioni del governo e le elezioni anticipate. La risposta del premier e delle forze di sicurezza fu però molto dura e si risolse in una repressione che causò oltre novanta morti.

Le persistenti richieste delle “camicie rosse”, come ha confermato il voto dell’altro giorno, riflettono i cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio all’interno della società tailandese, dove ampi strati della popolazione non sono ormai più disposti a rimanere esclusi da un sistema di potere fondato su una ristretta élite. Un’evoluzione, questa, favorita dalle politiche implementate dallo stesso Thaksin Shinawatra durante gli anni di governo e che la sorella Yingluck, prossimo primo premier donna nella storia del paese, sarà chiamata ad incanalare tra mille difficoltà verso un futuro privo di conflitti.

La sfida per la neo-premier sarà la riconciliazione con le forze armate, così da evitare un nuovo colpo di stato. Le voci di un possibile ribaltamento dell’esito del voto da parte dei militari si erano inseguite alla vigilia delle elezioni, anche se la chiarissima vittoria del partito Pheu Thai e la maggioranza assoluta conquistata in Parlamento renderanno ora più difficile un colpo di mano dell’esercito. Per smorzare i toni, in ogni caso, Yingluck Shinawatra aveva già provveduto ad escludere dal proprio programma qualsiasi provvedimento di amnistia per il fratello in caso di successo.

Secondo la testata on-line Asia Times, inoltre, rappresentanti della casa reale e delle forze armate avevano già trovato un accordo con gli emissari di Thaksin per un’evoluzione pacifica del dopo voto. Fiutando una sconfitta del Partito Democratico del premier Abhisit, i militari avrebbero offerto a Yingluck Shinawatra la possibilità di formare il governo senza ostacoli, in cambio della rinuncia a perseguire i responsabili della repressione delle proteste dello scorso anno.

Thaksin, secondo l’ipotetico patto, dovrebbe impegnarsi anche a non intervenire nell’annuale rimpasto dei vertici dell’esercito e a tenere sotto controllo l’agguerrita fazione anti-monarchica delle “camicie rosse”. Forse proprio a conferma dell’intesa raggiunta, il ministro della Difesa uscente ha confermato pubblicamente lunedì che l’esercito non interverrà per modificare il risultato delle elezioni.

Al di là degli immediati sviluppi, appare difficile che il voto di domenica possa risolvere a breve le contraddizioni della società tailandese e i profondi conflitti che la attraversano. Thaksin, oltretutto, rimane una figura molto controversa nel Paese e le sue dichiarazioni appassionate dall’esilio subito dopo il successo del partito Pheu Thai confermano che sarà in sostanza la sua mano a manovrare l’azione di governo della sorella premier.

A complicare le cose c’è infine la possibile destabilizzazione causata dalla crescente rivalità sino-americana in Asia sud-orientale, soprattutto alla luce del rinnovato interventismo dell’amministrazione Obama in questa parte del globo. La Thailandia è uno storico alleato degli Stati Uniti ma, come altri paesi in quest’area, negli ultimi anni ha intensificato le relazioni con Pechino, in particolare in ambito commerciale.

Lo stesso ex premier Thaksin aveva cercato di bilanciare i rapporti tra le due potenze, appoggiando, da un lato, la guerra al terrore post-11 settembre dell’amministrazione Bush e, dall’altro, favorendo gli investimenti cinesi in Thailandia e allargando la cooperazione militare con il potente vicino settentrionale. Un equilibrismo interrotto dal colpo di stato che lo depose cinque anni fa ma che ha continuato a caratterizzare i governi che si sono succeduti da allora e con cui anche il nuovo esecutivo dovrà ben presto fare i conti.


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