di Emanuela Pessina

BERLINO. La Germania ha consumato il sesto degli appuntamenti elettorali previsti per il 2011, il cosiddetto “super anno elettorale”: a essere chiamata al voto domenica è stata la regione federale del Meclemburgo- Pomerania Occidentale (nord- est della Germania), il Land più povero del Paese. Secondo le prime proiezioni si riconfermano in testa i socialdemocratici (SPD), mentre la CDU di Angela Merkel perde 5 punti percentuali e rimane la seconda forza politica nella dieta regionale.

L’altra forza al Governo, i Liberali (FDP), non hanno raggiunto la quota minima per sedere nel Parlamento regionale. All’appello elettorale manca ora solo Berlino, ma già si possono cominciare a tirare le somme: cristianodemocratici e liberali hanno registrato l’ennesima delusione elettorale che, a quanto pare, è il nodo di una crisi strutturale ben più profonda.

I risultati del Meclemburgo- Pomerania Occidentale, in realtà, hanno lasciato poco spazio alla sorpresa: i sondaggi delle ultime settimane avevano già predetto la vittoria dei socialdemocratici di Erwin Sellering (SPD), il governatore uscente, che ha presieduto negli ultimi cinque anni la “grande coalizione” con i cristianodemocratici di Angela Merkel (CDU). La SPD ha concluso in salita (37%), guadagnando 7 punti rispetto alle elezioni del 2006.

Esiti scontati, comunque, che non vanno ad alleviare lo smacco subito dal partito della Cancelliera: il candidato Lorenz Caffier (CDU) ha ottenuto soltanto il 24% dei voti rispetto al 29% del 2006. È il sesto fallimento per i cristianodemocratici tedeschi, dopo le storiche disfatte degli stati federati di Amburgo e Baden- Wuerttemberg. All’appello elettorale manca ora solo Berlino, dove si voterà tra due settimane: a questo punto un’eventuale rimonta della CDU nella capitale non potrà fare molto per la reputazione delle forze al Governo. Tra l’altro Angela Merkel avrebbe dovuto intervenire in prima persona per la campagna elettorale in Meclemburgo Pomerania Occidentale, ma ha dovuto rinunciare per un grave lutto: la Cancelliera ha sospeso ogni impegno a causa della morte del padre.

Rimane stabile il partito di estrema sinistra, Die Linke, che si è confermato al 17% dei voti. Per il momento non si parla ancora di una coalizione con l’SPD, ma l’eventualità (seppur remota) non si può escludere. Continua la scia di successo dei Verdi, che hanno ottenuto l’8,5% dei voti: con questo risultato, il partito è riuscito a entrare in tutte le diete regionali della Germania. Rimangono fuori, invece, i Liberali, che con una quota del 3% vanno a confermare la profonda crisi d’identità del partito.

Nonostante i sondaggi sfavorevoli, sono riusciti ancora una volta ad accedere al Parlamento regionale i cosiddetti nazionaldemocratici (NPD). L’NPD è entrato per la prima volta nella dieta regionale del Meclemburgo-Pomerania nel 2006, con oltre il 7% dei voti: il successo dei nazionalconservatori costituì già allora un segnale preoccupante di come le ideologie di estrema destra trovassero terreno fertile nei Laender dell’ex-Germania comunista, quasi a riempirne il vuoto ideologico.

E, forse proprio sulla scia di quel trionfo, il partito ultraconservatore non ha rinunciato quest’anno a una campagna molto aggressiva. Questa volta i sondaggi non concedevano all’NPD neppure la quota minima richiesta per entrare nella dieta regionale e i nazionalconservatori hanno tentato di risolvere con slogan della portata di “Fuori gli stranieri criminali!” e “Aprire alla Polonia? Via il lavoro! Via le auto!”. Campagna che, a quanto pare, ha purtroppo dato i suoi frutti.

Oltre a vantare gli stipendi più bassi della Germania, il Meclemburgo-Pomerania Occidentale è una delle regioni-stato tedesche con il più alto tasso di emigrazione giovanile e il minor numero di nascite. Regione dell’ex-Repubblica Democratica Tedesca (RDT), è ancora oggi uno dei Laender che meno ha saputo sfruttare i programmi di riequilibrio economico tra Est e Ovest. Gli esiti di queste regionali potrebbero essere interpretati alla luce dello scontento generale, ma è la sesta disfatta elettorale consecutiva per i cristianodemocratici, così come per i partner di Governo liberali, e diventa sempre più difficile non leggervi la delusione dei cittadini nei confronti del Governo di Berlino.

A pesare sul voto, probabilmente, ci sono anche le questioni di politica nazionale e internazionale, tra cui in particolare la politica salva- euro portata avanti caparbiamente dalla Germania. Se ai partner europei la linea tedesca sembra egoista e troppo conservatrice, agli occhi dei cittadini teutonici è pur sempre un compromesso che troppo concede all’Europa, mettendo in secondo piano i bisogni interni. Berlino, a quanto pare, non soddisfa: e le critiche, ormai, sembrano arrivare da tutti i lati.

di Eugenio Roscini Vitali

Erano le 11:50 del 17 aprile 1984 quando all’ospedale Westminster di Londra si spegneva Yvonne Fletcher, poliziotta britannica uccisa da un colpo d’arma da fuoco partito dal primo piano della rappresentanza diplomatica libica a Londra. Al momento dello sparo - le 10:15 circa - Yvonne Fletcher si trovava in servizio di fronte al numero 5 di St James’s Square, dove un gruppo di dimostranti legati al Fronte Libico di Salvezza Nazionale stava manifestando pacificamente per protestare contro l’esecuzione di due studenti che in patria si erano opposti al regime del Colonnello Gheddafi.

Ufficialmente per l’omicidio della poliziotta londinese non fu mai stato incriminato nessuno, anche perché dopo aver fatto assediare per 11 giorni l’ambasciata libica il governo Tatcher decise di ritirare la polizia ed espellere 30 diplomatici libici. Ma Scotland Yard non ha mai chiuso il caso e ora, a ventisette anni di distanza, ha pianificato una missione in Libia nella speranza di assicurare alla giustizia i responsabili della morte di  Yvonne Fletcher.

A rivelarlo è il quotidiano britannico Daily Telegraph, che parla del coinvolgimento di tre uomini e di un testimone che avrebbe identificato come autore dell’omicidio un certo Abdulmagid Salah Ameri, all’epoca dei fatti funzionario diplomatico di secondo livello presso la missione libica di Londra. Dalle 140 pagine dell’inchiesta stilata dalla Procura della Corona risulterebbe inoltre che a dare l’ordine di aprire il fuoco sarebbero stati Abdelgader Mohammed Baghdadi e Matouk Mohammed Matouk, membri del comitato rivoluzionario presso la stessa sede.

Ad inchiodare Ameri ci sono le dichiarazioni di David Robertson, pittore e decoratore che quel 17 aprile assistette all’omicidio: «L’uomo teneva il calcio dell’arma con la mano destra, mentre con la mano sinistra era vicino al grilletto, come se fosse sul punto di sparare. C’erano altri uomini con lui, uno alla sua sinistra e almeno altri due in piedi alle sue spalle».

Le indagini accertarono inoltre che la raffica che uccise Yvonne Fletcher e ferì altre 11 persone fu sparata dal primo piano dell’ambasciata e che l’arma utilizzata tornò in Libia attraverso i bagagli diplomatici del personale espulso in quei giorni; il 30 aprile gli agenti rinvennero all’interno del numero 5 di St James’s Square 4.367 proiettili e sette pistole, nessuna delle quali identificata come l’arma del delitto.

Secondo i servizi d’informazione britannici dei tre indagati l’unico ad essere certamente ancora in vita sarebbe Matouk Mohammed Matouk, ex vice primo ministro del governo Gheddafi, arrestato dalle forze rivoluzionarie subito dopo la conquista di Tripoli. I ribelli sostengono che prima della cattura l’ex diplomatico aveva tentato di passare tra le fila del Consiglio nazionale di transizione(Cnt) e che attualmente sarebbe detenuto in un carcere di cui non hanno comunque rivelato il nome.

Per Ali Tarhouni, vice primo ministro del Cnt, l’informazione è del tutto falsa; Tarhouni non nega che Matouk sia in vita ma sostiene che le autorità non sanno dove si trovi. Sorte diversa per Abdulmagid Salah Ameri - di cui si persero le tracce subito dopo il rientro in patria e che si pensa sia morto - e per Abdulgader al-Baghdadi, assassinato insieme ad altri otto fedelissimi del regime nel quartiere di Tajoura, sobborgo di Tripoli. Il ritrovamento del cadavere, confermato da Osama al-Abed, membro del comitato rivoluzionario, risalirebbe ai giorni dell’attacco alla capitale, mentre la salma è stata identifica solo qualche giorno fa.

Per il governo britannico il caso Matouk è strettamente legato ad un’altra vicenda, quella di Abdel Baset Al-Megrahi, l’uomo ritenuto responsabile dell’attentato contro il volo Pan Am esploso sopra il villaggio scozzese di Lockerbie il 21 dicembre 1988. Per l’attacco terroristico nel quale perirono 270 persone la giustizia scozzese condannò Al-Megrahi all’ergastolo; ammalato di cancro, dopo otto anni di carcere fu rilasciato e riconsegnato alla Libia.

La libertà gli venne concessa per ragioni umanitarie, anche perchè Washington e Londra pensavano che dovesse morire entro pochi mesi. Le continue apparizioni in pubblico e il fatto che continuasse a sopravvivere molto più del previsto hanno fatto si che con la caduta del regime le autorità britanniche abbiano richiesto una nuova l’estradizione, istanza che probabilmente non sarà mai soddisfatta visto che Tripoli ha già fatto sapere che non ha intenzione di consegnare i suoi cittadini ad un paese straniero.

Che la Libia non sia disposta a collaborare con Londra lo confermano anche le dichiarazioni di Hassan al-Sagheer, membro del Cnt che in una intervista al Sunday Times ha negato la possibilità che Al-Megrahi possa essere consegnato alle autorità britanniche. Ma se le ultime informazioni sullo stato di salute dell’attentatore sono tali da prevedere che comunque non tornerà nelle mani degli inglesi, così non è per Matouk Mohammed Matouk.

Per assicurarsi che l’uomo coinvolto nel delitto Fletcher compaia di fronte alla Corte britannica, Downing Street ha già presentato al Cnt una formale richiesta di estradizione ed inviato a Tripoli un team di investigatori; ad accompagnarli ci sarebbero gli agenti dell’intelligence di sua Maestà (MI5) e   i commando dello Special Air Service (SAS), le forze speciali dell’esercito britanno che dal scorso febbraio operano in Libia a fianco dei ribelli e le cui  unità “Smash” hanno avuto un ruolo determinante nella caccia ai sistemi di lancio dei missili SAM di Gheddafi. Il team avrebbe il compito di raccogliere informazioni sui responsabili della morte della poliziotta inglese, rintracciare chi di loro è ancora in vita e, molto probabilmente, nel caso la via diplomatica dovesse fallire, assicurarne la consegna alla giustizia inglese.

 

di Mario Braconi

Colpo di scena nella telenovela che ruota attorno a Wikileaks e al suo discusso uomo immagine Julian Assange: l’intera massa di 250.000 cablogrammi diplomatici top secret vengono messi a disposizione sul sito della più famosa organizzazione di “whistleblower”. Senza filtri (e fin qui va anche bene) ma anche senza alcuna rielaborazione finalizzata ad impedire l’identificazione delle persone citate nei documenti: informatori, membri di ONG, soldati. “Wikileaks potrebbe avere sulla coscienza qualche giovane soldato americano o una famiglia afgana” tuonò a ottobre 2010 il capo degli stati maggiori della difesa USA Mike Mullen: oggi, questa frase potrebbe non essere solo un’iperbole dettata da esigenze di propaganda.

Bisogna dare un’occhiata all’edizione internazionale di Der Spiegel per capire qualche cosa dell’intricata vicenda. Quando Assange e il Guardian filavano ancora d’amore e d’accordo, Assange fornì una copia (integrale?) dei suoi file top secret a David Leigh, capo della redazione di giornalismo investigativo della testata britannica, comunicandogli anche la frase di sicurezza da digitare per accedervi.

Poco dopo, il responsabile Wikileaks per la Germania Daniel Domscheit-Berg, ai ferri corti con Assange, lascia l’organizzazione con l’intento di fondarne un’altra a suo dire più onesta, OpenLeaks. Senza dimenticare di portarsi via una copia di tutti i documenti collezionati fino ad allora da Wikileaks. Secondo Der Spiegel, Daniel Domscheit-Berg non era al corrente del fatto che, all’interno di quel magazzino indistinto di informazioni si trovava, in una sottocartella difficile da trovare, l’intera raccolta dei cablogrammi diplomatici.

Come spesso accade, a fare danni è l’eccesso di zelo di persone benintenzionate; in questo caso gli amici e i simpatizzanti di Wikileaks, i quali hanno cominciato a condividere i file segreti di Assange e soci sul peer-to-peer Bit-torrent, normalmente impiegato soprattutto per condividere (illegalmente) roba molto più soft, come film e musica. Così, assieme ai file leggibili di Assange, sui computer collegati in Rete di chi era interessato è stata trasferita anche l’intera collezione dei cablogrammi segreti, sia pure protetta dalla famosa frase di protezione passata da Assange a Leigh. Se la versione accreditata dai media fosse confermata, si potrebbe concludere che Assange sia uno sprovveduto che lascia in giro i documenti che costituiscono il suo pane quotidiano; idem Domscheit-Berg, che si porta via il contenuto di un intero server senza accorgersi di quello che c’era dentro, non fa proprio una gran figura.

In ogni caso, la storia si evolve in modo distruttivo a causa di due circostanze sfortunate. Primo, un file, una volta condiviso su Bit-Torrent, non può essere più “ritirato” da chi lo ha messo a disposizione: gli altri utenti che usano il peer-to-peer se lo possono scaricare sull’hard drive, e ovviamente non può essere richiamato.

Questo significa che decine di migliaia di persone (amici di Wikileaks come agenti dei servizi segreti di tutto il mondo, terroristi) hanno avuto a disposizione per mesi i file “segretissimi”. Se si aggiunge il fatto che quella famosa frase di protezione non era poi tanto segreta, si conclude che la pubblicazione ufficiale di Wikileaks dell’intero corpus dei cablogrammi diplomatici “riservatissimi” è più che altro un atto formale.

La questione di quanto fosse facile accedere ai file protetti assume connotati quasi comici: nel libro “Wikileaks: Inside Julian Assange’s War On Secrecy” (“Wikileaks: dentro la guerra di Julian Assange contro la segretezza”), scritto dal capo dell’investigativo del Guardian, David Leigh e da Luke Harding, si racconta del momento in cui Assange decide di passare a Leigh il file, scrivendo la password su un pezzo di carta. Ora la cosa davvero inspiegabile è che nel libro questa password viene citata in modo esplicito. Addirittura, come fa notare l’esperto di comunicazione Nigel Parry nel suo blog, il titolo del capitolo 11 del volume è - esattamente - la password che apre le porte della stanza del tesoro.

L’ultimo capitolo della vicenda Wikileaks lascia molti interrogativi aperti. Innanzitutto, sembra davvero impossibile che due hacker che si presumono esperti come Assange e Domscheit-Berg, si siano comportati in modo tanto superficiale. Inoltre c’è molto da dire sulla deontologia di un giornalista come Leigh che, senza alcuna ragione plausibile, pubblica per esteso l’”apriti sesamo” che dà accesso a una delle più grandi basi di dati d’informazioni riservate al mondo.

Una scelta che può maturare solo per crassa incompetenza condita con narcisismo, a meno che il suo intento fosse proprio quello di dare una dritta ai vari soggetti interessati per consentirgli di mettere le mani sulle informazioni riservate. Da questo punto di vista suona patetica la sua giustificazione, secondo cui l’intesa con Assange era che la password sarebbe stata modificata poco dopo e comunque prima della pubblicazione del libro.

L’ironia è che il giornalista britannico non ha mai mancato di criticare (legittimamente) Assange per la sua superficialità nella gestione delle conseguenze della sua ossessione alla “trasparenza” sulla vita delle persone che compaiono sulle fonti di Wikileaks. Ora si scopre che proprio la superficialità (o l’ignoranza o la malafede) di Leigh possono aver provocato a loro volta dei danni: grazie alla brillante iniziativa di pubblicare per esteso la password, infatti, i cablo decrittati possono essere arrivati a molte persone non sempre benintenzionate.

D’altro canto è bene ricordare, come giustamente fa il Guardian, che il libro su Assange con la password “in offerta” è stato pubblicato a febbraio e quindi non è chiara la ragione per la quale Assange si sia svegliato sette mesi dopo. Quel che è certo è che il caso Wikileaks mostra una realtà dove giusto e sbagliato, grandezze e vanità umane s’intrecciano tra loro in modo quasi inestricabile.

di Michele Paris

Mentre le forze “ribelli” si apprestano all’assalto finale contro la roccaforte della resistenza di Gheddafi a Sirte, ìeri a Parigi è andata in scena la conferenza dei cosiddetti “Amici della Libia”, fortemente voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dal primo ministro britannico David Cameron. Alla presenza di 60 delegazioni tra governi e organizzazioni internazionali, i leader dei paesi NATO protagonisti dell’aggressione militare hanno discusso il futuro del paese nordafricano con il Consiglio Nazionale di Transizione, rappresentato dal segretario Mustafa Abdel Jalil e dal primo ministro Mahmoud Jibril.

Alla conferenza parigina - organizzata significativamente nello stesso giorno in cui 42 anni fa Gheddafi saliva al potere rovesciando la monarchia di re Idris - hanno partecipato anche i rappresentanti di Germania, Cina e Russia. Tutti e tre questi paesi si erano astenuti nel voto al Consiglio di Sicurezza ONU del 17 marzo scorso con cui venne approvata la risoluzione 1973 che ha fornito il pretesto per aprire le ostilità contro il regime di Gheddafi e, in particolare Cina e Russia, avevano successivamente criticato la NATO per essere andata al di là del mandato ONU per proteggere la popolazione civile.

Ora, tuttavia, nessuno di questi governi intende rimanere indietro nella corsa alla spartizione delle risorse libiche che si sta per scatenare. Allo stesso modo, a motivare la loro condotta è il tentativo di salvare quanto possibile i contratti nei settori energetico ed edilizio che avevano stipulato con il governo di Tripoli prima del conflitto. A conferma dell’atteggiamento pragmatico adottato da questi governi di fronte alla cambiata realtà sul campo, proprio giovedì Mosca ha annunciato il riconoscimento ufficiale del CNT come rappresentante legittimo della Libia.

Assente dal vertice di Parigi è stato invece il Sud Africa, il quale, pur avendo votato a favore della risoluzione ONU come membro provvisorio del Consiglio di Sicurezza, rimane critico verso il comportamento dei paesi NATO, accusati tra l’altro di aver boicottato i ripetuti sforzi del governo del presidente Jacob Zuma per trovare una soluzione pacifica alla crisi libica.

Le discussioni, in ogni caso, hanno riguardato principalmente le azioni da intraprendere al termine della campagna militare e l’instaurazione di un governo docile che sia in grado di superare le divisioni che già stano emergendo in tutta la loro gravità tra i “ribelli” a poco più di una settimana dalla presa di Tripoli.

“Il lavoro non termina con la fine di un regime oppressivo”, ha avvertito il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ai convenuti a Parigi. “Vincere una guerra non offre garanzie di pace. Quello che accadrà nei prossimi giorni sarà d’importanza cruciale”. Come hanno sottolineato ampiamente i media in questi giorni, la preoccupazione dei governi occidentali è quella di evitare una deriva settaria e violenta come quella dell’Iraq all’indomani dell’invasione americana del 2003.

Anche se esclusa ufficialmente dall’ordine del giorno, la spartizione delle ricchezze energetiche libiche e l’assegnazione degli appalti per la ricostruzione hanno verosimilmente rappresentato due dei punti centrali nei colloqui tra le potenze NATO e il CNT. In questo senso sarà da verificare quanto terreno dovrà cedere l’ENI in Libia, dove con Gheddafi aveva goduto di una posizione di assoluto privilegio.

Nonostante la salvaguardia degli interessi energetici italiani sia stato il motivo principale per il quale il governo Berlusconi si è accodato a Parigi e a Londra nella guerra alla Libia, è probabile che soprattutto l’intraprendenza transalpina determinerà un cambiamento degli equilibri nel paese. I francesi, infatti, oltre ad aver orchestrato la ribellione contro il regime di Gheddafi, si sono mossi in fretta per stabilire rapporti con il governo provvisorio. Almeno a partire da giugno, ad esempio, i dirigenti di alcune grandi aziende come Total hanno iniziato a frequentare Bengasi per gettare le basi di futuri contratti.

Sempre a Parigi, inoltre, nel mese di settembre è in programma un incontro tra i vertici del CNT e le compagnie francesi operanti in Libia per discutere di nuovi possibili progetti. “Dobbiamo fare un passo per volta”, ha detto chiaramente il numero uno della Camera di Commercio franco-libica, Michel Casals, alla Reuters, “ma dobbiamo trarre vantaggio da questo clima favorevole per le compagnie francesi, anche se i nostri concorrenti - turchi, cinesi o europei - sono molto agguerriti”.

Da parte sua, il segretario del CNT Jalil ha presentato la roadmap per la nuova costituzione, da sottoporre a referendum, e per le elezioni, da tenere entro 18 mesi. Per il CNT la questione più pressante è però quella dello sblocco dei beni libici congelati sui conti esteri di numerosi paesi occidentali. I vari governi partecipanti alla conferenza hanno già ottenuto di recente il via libera per qualche miliardo di dollari ma, soprattutto, stanno studiando nuove soluzioni per aggirare gli ostacoli legali che bloccano la gran parte dei fondi e chiedendo alla commissione ONU per le sanzioni di approvare apposite misure per poterli sbloccare definitivamente e trasferirli nelle casse del nuovo regime.

Sul fronte militare, intanto, i “ribelli” si sono posizionati alle porte di Sirte, città natale di Gheddafi e centro principale della tribù di cui il colonnello fa parte (Gaddafa). Il CNT ha lanciato un ultimatum - puntualmente rifiutato - alla resistenza del rais per arrendersi pacificamente entro sabato così da evitare un assalto militare. L’ultimatum è stato poi posticipato di una settimana, per consentire il proseguimento dei colloqui in corso tra il CNT e i capi tribù di Sirte. Nel frattempo, le forze “ribelli”, appoggiate da reparti speciali britannici e del Qatar, hanno annunciato un cessate il fuoco unilaterale di tre giorni, in occasione della festa per la fine del Ramadan (Id al-fitr).

Quello che si prospetta per Sirte e Bani Walid - una città di 50 mila abitanti nel deserto a sud-est di Tripoli dove secondo alcuni membri del CNT potrebbe trovare rifugio Gheddafi - se non si troverà una soluzione concordata è un bagno di sangue, preannunciato dai bombardamenti NATO degli ultimi giorni. Secondo il resoconto, peraltro senza riscontri indipendenti, del portavoce di Gheddafi, Moussa Ibrahim, in queste due località le bombe occidentali avrebbe già fatto oltre mille vittime.

L’imminente assedio di Sirte rischia di trasformarsi così in quell’evento (l’assedio di Gheddafi contro Bengasi, appunto) che la NATO pretende di aver evitato con l’intervento militare seguito alla risoluzione ONU di marzo. Lo scrupolo per la sorte dei civili da parte dei “ribelli” è apparsa d’altra parte evidente dalla dichiarazione fatta durante una recente conferenza stampa da Ali Tarhouni, numero due del CNT. Per quest’ultimo, infatti, “qualche volta per evitare una carneficina è necessario che ci sia comunque uno spargimento di sangue”.

Il massacro di civili che si prospetta andrebbe ad aggiungersi al già lungo elenco di crimini ascritti alle forze “ribelli” e alla NATO stessa in questi mesi, nonostante i media occidentali abbiano raccontato quasi unicamente la repressione del regime, come i bombardamenti indiscriminati su Tripoli ed altre città controllate da Gheddafi o l’uccisione e il linciaggio dei fedeli di quest’ultimo e degli immigrati africani di colore accusati di essere mercenari al suo servizio.

Mentre a Parigi si festeggia la buona riuscita dell’impresa libica, è proprio il CNT da Bengasi a dare un’idea più accurata del risultato dell’operazione. Secondo un portavoce, il bilancio provvisorio di quasi sei mesi di combattimenti per rovesciare il regime è di qualcosa come 50 mila morti tra civili e combattenti. Una cifra ben più pesante di qualsiasi repressione che si intendeva evitare e che la dice lunga sugli scopi “umanitari” dell’intervento NATO.

di Michele Paris

Il ministro delle Finanze giapponese, Yoshihiko Noda, questa settimana è diventato il sesto primo ministro del paese negli ultimi cinque anni. Il neo-premier ha sconfitto l’agguerrita concorrenza interna al partito di maggioranza - Partito Democratico (DPJ) - tuttora scosso dalle conseguenze del disastroso terremoto del marzo scorso e profondamente diviso sugli orientamenti strategici ed economici del Giappone.

Dopo aver conquistato la leadership del partito lunedì scorso, Noda ha incassato il voto di fiducia della Camera bassa del Parlamento nipponico (Dieta), succedendo al premier uscente, Naoto Kan, alla guida del governo. Le dimissioni di quest’ultimo erano nell’aria da parecchie settimane, dopo che i suoi indici di gradimento erano crollati a causa della cattiva gestione del disastro nucleare seguito al terremoto.

Yoshihiko Noda è il terzo premier Democratico - dopo Yukio Hatoyama e lo stesso Kan - dalla vittoria del suo partito nel settembre 2009 che ha posto fine a un monopolio pressoché ininterrotto di mezzo secolo del Partito Liberal Democratico (LDP) alla guida del paese. Nella sfida interna al partito, Noda ha sconfitto al secondo turno il candidato proposto dal leader non ufficiale, nonché fondatore, del Partito Democratico, Ichiro Ozawa, il quale aveva puntato le sue carte sul ministro del Commercio, Banri Kaieda.

Escluso dal ballottaggio dopo il terzo posto del primo turno è stato invece l’ex ministro degli Esteri, Seiji Maehara, considerato il favorito della vigilia assieme a Kaieda. Maehara fa parte della stessa corrente di Noda, ma la sua candidatura è stata verosimilmente compromessa dall’accusa di aver ricevuto un contributo elettorale da un cittadino straniero residente in Giappone, pratica illegale per il codice nipponico e che aveva portato alle sue dimissioni già nel mese di marzo.

Il duro confronto tra le due fazioni del partito di governo riflette non solo le divisioni prodotte dalla controversa figura dello stesso Ozawa, estromesso dal partito per uno scandalo legato a finanziamenti illeciti, ma soprattutto i veri e propri dilemmi che travagliano l’élite politica ed economica del Giappone.

Profonde differenze esistono infatti nella classe dirigente sia sul percorso da intraprendere per resuscitare un paese che da tempo attraversa un grave declino economico, sia sull’atteggiamento da tenere nei confronti di quello che è diventato ormai il maggiore partner commerciale - la Cina - e del tradizionale alleato - gli Stati Uniti - in un clima di crescente tensione tra le due superpotenze.

I differenti punti di vista su entrambe le questioni hanno così segnato gli scontri nel Partito Democratico in questi due anni per la selezione degli uomini destinati a guidare il paese. Da un lato, la fazione vicina a Ozawa appoggia rapporti più stretti con la Cina - a scapito della relazione con Washington - e dimostra una certa propensione ad adottare misure di stimolo all’economia basate sull’aumento della spesa pubblica. Dall’altro, la fazione rivale auspica il mantenimento di solidi legami con gli USA e un allineamento alla politica di contenimento della spesa perseguita dai paesi occidentali.

Su questi due punti nel 2009 aveva condotto la campagna elettorale l’allora candidato premier alleato di Ozawa, Yukio Hatoyama, per ritrovarsi poi sotto pressione e costretto alle dimissioni pochi mesi dopo aver assunto la guida del governo. Le misure promesse per aumentare i programmi sociali provocarono la reazione dei mercati internazionali, preoccupati per la solvibilità di un paese che già registra il più alto livello d’indebitamento del pianeta, così come la volontà di intensificare i rapporti con Pechino e di chiudere la base americana sull’isola di Okinawa si scontrarono con la ferma opposizione degli Stati Uniti.

Il cambio della guardia al vertice del governo nel giugno 2010 segnò contestualmente il declino della fazione facente capo a Ichiro Ozawa nel Partito Democratico. L’ascesa di Naoto Kan e il cambiato clima internazionale riproposero così anche in Giappone l’adozione di misure di austerity per far fronte al dilagante debito pubblico. Misure che risultarono tuttavia impopolari e che influirono in maniera decisiva nella sconfitta dello stesso Partito Democratico nelle elezioni per la Camera alta, ora dominata dal Partito Liberal Democratico. Al cambiamento di rotta sul fronte interno fece così seguito la riproposizione della partnership strategica con gli USA e un irrigidimento nei confronti della Cina, sfociato successivamente in alcuni incidenti diplomatici fra i due paesi vicini.

Fedele a questa linea, subito dopo la nomina a primo ministro, Yoshihiko Noda ha prospettato ulteriori provvedimenti tesi a ridurre la spesa pubblica del Giappone. “Il messaggio che intendo inviare sia al Giappone che all’estero, è che la nostra disciplina fiscale non è compromessa”, è stata la prima dichiarazione da capo del governo del 54enne Noda.

Già alla vigilia del voto in Parlamento, quest’ultimo aveva d’altra parte fatto capire che nuove tasse, tagli alla spesa e privatizzazioni di beni pubblici sarebbero stati presto all’ordine del giorno per far fronte al costo della ricostruzione del paese dopo il terremoto e lo tsunami di marzo.

Le divisioni all’interno del partito, l’impopolarità delle misure che s’intravedono all’orizzonte e l’oggettiva complessità dei problemi che affliggono il paese asiatico renderanno con ogni probabilità ben presto estremamente precaria anche la posizione del nuovo primo ministro.

A ricordare la precarietà della situazione in Giappone, la settimana scorsa l’agenzia di rating Moody’s ha declassato il debito giapponese da AA2 a AA3, mentre un altro nodo delicato riguarderà l’eventuale liquidazione del nucleare, promessa dopo il disastro di Fukushima dall’ormai ex premier Naoto Kan e verso la quale il suo successore si è mostrato invece decisamente più prudente.


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