di Michele Paris

Le metropoli indiane sono tornate nel mirino del terrorismo questa mattina, quando una violenta esplosione in un tribunale della capitale, Nuova Delhi, ha causato la morte di almeno 9 persone. Alle 10.17 locali, la deflagrazione ha investito l’area d’ingresso dell’Alta Corte di Nuova Delhi, particolarmente affollata nella giornata di mercoledì, tradizionalmente dedicata alle cosiddette “udienze di pubblico interesse”.

L’esplosivo sarebbe stato piazzato in una valigetta all’interno del tribunale con circa 4 chili di nitrato di ammonio. Secondo il quotidiano indiano Hindustan Times, i morti sarebbero già saliti a 10, mentre sono una cinquantina i feriti, alcuni dei quali in condizioni critiche. La stessa Alta Corte della capitale indiana era già stata bersaglio di un attentato pochi mesi fa. Lo scorso 25 maggio, infatti, una piccola bomba lasciata in un’auto parcheggiata di fronte al tribunale esplose senza fare danni.

Questo precedente ha già contribuito al riaccendersi delle polemiche sull’adeguatezza delle misure prese dalle forze di sicurezza indiane per prevenire attentati terroristici. Tanto più che il paese da qualche anno è stato colpito da una serie di sanguinosi attentati, il più eclatante nel novembre 2008 a Mumbai dove persero la vita 160 persone.

Se la matrice del terrorismo islamico sembra molto probabile, il ministro degli Interni indiano, Palaniappan Chidambaram, ha detto che le autorità sono ancora nelle fasi iniziali delle indagini e perciò non sono ancora emerse piste percorribili. Nessuna rivendicazione è finora giunta alle autorità. Il segretario del ministero, R. K. Singh, ha tuttavia affermato che l’esplosione porta tutti i segni di un IED (ordigno esplosivo improvvisato) predisposto da un gruppo terroristico.

A suscitare ulteriori perplessità sulla competenza delle forze di sicurezza è stata un’altra dichiarazione dello stesso ministro Chidambaram, il quale ha confermato come Nuova Delhi sia da tempo nel mirino di gruppi terroristici e perciò gli obiettivi sensibili della capitale dovrebbero essere sorvegliati con particolare attenzione. L’intelligence indiana, ha continuato poi il ministro, condivide costantemente le informazioni a propria disposizione con la polizia di Delhi e l’ultimo rapporto è stato trasmesso solo lo scorso mese di luglio.

L’esplosione, se verrà confermata la pista islamica, rischia anche di incrinare i già difficili rapporti con il Pakistan, dove secondo l’India hanno trovato appoggio nel recente passato molti degli autori degli attentati commessi nel paese.

L’indagine è stata affidata all’unità antiterrorismo NIA, agenzia federale istituita dal governo indiano all’indomani degli attentati di Mumbai del 2008 per cercare di combattere più efficacemente il terrorismo sul territorio indiano.

di Mario Braconi

Con due mesi di ritardo rispetto alla data per la quale era atteso, lo scorso 2 settembre il report delle Nazioni Unite sul caso della Freedom Flotilla viene anticipato al New York Times, che lo pubblica integralmente. Le conclusioni del panel, presieduto dall’ex Primo Ministro neozelandese Palmer, dall’ex presidente colombiano Uribe, da un rappresentante israeliano e da uno turco, sono molto più salomoniche di quanto il governo turco sia disposto a tollerare.

Secondo i quattro membri della commissione, Israele ha agito legittimamente stabilendo il blocco navale sulle acque al largo di Gaza, considerate le minacce alla sua sicurezza rappresentate dal sistematico lancio di razzi sui suoi centri abitati da parte di Hamas. D’altra parte, l’uso della forza da parte dell’esercito israeliano in quella circostanza, in particolare l’assurda decisione di abbordare la Mavi Marmara, è stato “eccessivo ed irragionevole”.

A questo proposito, i referti autoptici acquisiti dalla commissione evidenziano come la ricostruzione dei fatti da parte di Israele, che continua a battere sul tasto della legittima difesa, sia palesemente falsa: risulta infatti che su Furkan Dogan, una delle vittime, sono state rilevate ferite al volto, sulla nuca, sulla schiena e sulla gamba sinistra. Elementi a sostegno della tesi secondo cui il colpo mortale lo abbia raggiunto quando si trovava già a terra, ferito. Se non si è trattato di esecuzione, poco ci è mancato.

Il ritardo nella pubblicazione dell’abrasivo documento, originariamente attesa per il 2 luglio, è stato causato da un tentativo di negoziazione andato per le lunghe e poi saltato. Secondo fonti turche, citate questa mattina da Haaretz, la velocità e la veemenza con cui sta reagendo il governo turco sarebbe motivata dal sospetto che siano stati proprio gli israeliani a anticipare alla stampa americana il report delle Nazioni Unite: “Avremmo potuto continuare a discutere dei problemi relativi alla formulazione del testo, e perfino trovare un accordo, ma la soffiata di Israele alla stampa ha gettato i nostri accordi alle ortiche”, sostiene una fonte turca.

Secondo la ricostruzione del New York Times, alla richiesta israeliana di non pubblicare il report, i turchi avrebbero opposto, come contropartita, il risarcimento ai parenti delle vittime e una dichiarazione ufficiale di scuse da parte di Israele. Lo stesso Palmer report raccomanda che Israele esprima “rammarico” per aver provocato nove morti, anche se non vere e proprie scuse.

Ed è proprio qui che le trattative si sono arenate. La destra nazionalista israeliana, così ben rappresentata dal primo ministro Netanyahu e dal titolare degli esteri Liebermann, è del tutto contraria alle scuse. Non che esse sarebbero sufficienti per riportare il sereno tra i due Paesi, vista l’insistenza con cui il premier turco Erdogan, continua a chiedere la fine al blocco navale israeliano su Gaza. L’atteggiamento del governo israeliano è ben riassunto dalle dichiarazioni rese stamattina dal ministro dei trasporti israeliano Israel Katz alla radio: “Israele difende i suoi interessi e non chiederà scusa”.

La crisi dei rapporti tra Turchia ed Israele non poteva cadere in un momento meno opportuno: come confermano le agenzie, il premier turco Recep Tayyip Erdogan sta organizzando una visita ufficiale in Egitto, Tunisia e Libia. Il 12 settembre Erdogan dovrebbe recarsi in Egitto, accompagnato dai suoi ministri degli Esteri e dell’Economia e da un gruppo di imprenditori. Ed è proprio questo il passaggio chiave: Erdogan attraverserà il confine egiziano per visitare la striscia di Gaza, dove comanda Hamas, nemico giurato di Israele? Benché il diretto interessato anche ieri si sia premurato di escludere questa possibilità, un eventuale cambio di programma assesterebbe un altro gravissimo colpo alle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Israele.

In ogni caso, come riporta oggi Haaretz, lo stesso Erdogan ha fatto sapere che i rapporti tra i due Paesi non devono essere ostaggio di una eventuale questione personale tra i due premier: quello che è in gioco è l’interesse nazionale della Turchia; che appare ormai pronta ad usare il pretesto (legittimo e ben supportato) della Freedom Flotilla per estendere la sua influenza sull’Egitto post-Mubarak.

Resta inspiegabile la politica autolesionista di Israele. Sembra proprio che il paese, sotto la guida tattica ed invelenita dei suoi governanti, stia facendo di tutto per inimicarsi i pochissimi paesi a maggioranza musulmana con cui era riuscita a costruire relazioni costruttive. Quella della Turchia (verso cui Israele ha esportato beni e servizi per oltre 600 milioni di euro solo nel primo semestre 2011) è una bella grana.

Ma potrebbe rappresentare un problema serissimo per lo Stato ebraico: se anche Giordania ed Egitto dovessero seguire l’esempio della Turchia, si aprirebbe una fase particolarmente difficile per Israele, ormai vittima della coazione all’autoisolamento messa in atto dagli irresponsabili e sprovveduti politici che lo governano.

di Mario Braconi

Dei documenti rinvenuti a Tripoli nell’ufficio dell’ex capo dei servizi segreti libici, Moussa Koussa, testimoniano di un periodo (tra il 2002 e il 2004) in cui i “democratici” servizi inglesi e americani facevano squadra i colleghi del sanguinario regime libico. Un terzetto di quelli da barzelletta (“ci sono un inglese, un americano e un libico...”) che, a dispetto delle differenze culturali e politiche, lavorava molto bene quando si trattava di turismo. Più che viaggiare in prima persona, qui si trattava di organizzare vacanze per altri, di solito sospetti terroristi, solitamente restii a lasciare i posti dove si erano rintanati soprattutto quando la destinazione finale era qualche paese nel quale la tortura è lo sport nazionale (tipo la Libia).

Niente di nuovo, il solito modo disinvolto ed ipocrita di combattere il delitto (terrorismo) con altri delitti (rapimento e tortura) che va sotto il nome di extraordinary rendition. Ma questa volta c’è un intoppo: pare che tra i beneficiari dei viaggi-premio per cui vanno famose le intelligence anglosassoni ci sia Abdelhakim Belhadj, conosciuto anche con il nome di guerra Abu Abdallah Sadiq, capo (discusso) del Consiglio Militare di Guerra nell’attuale assetto libico post-Gheddafi.

Belhadj è stato il numero uno del Movimento Libico Islamico (ex Movimento Combattente Libico Islamico), un’organizzazione che, a dispetto dei sospetti legami Al-Quaeda, è risorto di recente grazie agli “alleati”, enfatizzando il suo pedigree anti-Gheddafi e sfumando gli aspetti meno comodi relativi alla sospetta contiguità al terrorismo islamico. Così Belhadj e soci, ieri nemici numero uno, oggi sono nel gruppo dei migliori amici dell’Occidente, pronti a dare una mano a ricostruire la “nuova Libia democratica”.

Belhadj, a dispetto dell’attuale posizionamento tattico a fianco dei “liberatori” occidentali, ha dei conti in sospeso con gli 007 di Sua Maestà e con la CIA. Nel 2004, infatti, mentre si trovava a Kuala Lumpur, tentò di recarsi a Londra via Pechino, usando per l’occasione un passaporto francese: permesso negato, anche se per i cittadini europei che desiderino entrare nel Regno Unito non serve ovviamente alcun visto. Secondo la ricostruzione del Guardian, a quel punto Belhadj decide di giocare (quasi) pulito: va all’ambasciata britannica di Kuala Lumpur ad esprimere la sua intenzione di chiedere asilo politico in Gran Bretagna.

Nuovo viaggio, nuova identità e nuovo passaporto, questa volta marocchino: nuovo scalo, fatale, a Bangkok, dove Belhadj viene fermato dalle autorità tailandesi. Racconta Belhadj come dopo essere stato torturato nello stesso aeroporto da due uomini della CIA, venne deportato in Libia, proprio tra le braccia degli agenti di Gheddafi che non vedevano l’ora di gettargli le braccia al collo.

Se i documenti pubblicati ieri sono autentici, non c’è modo per gli Inglesi di sostenere la loro estraneità a questo episodio di rendition illegale di un sospetto terrorista: a dimostrarlo, l’incauta lettera spedita da Mark Allen - allora capo dell’Antiterrorismo britannico - a Moussa Koussa, finita nelle mani della ONG americana Human Rights Watch. Nella missiva l’acuto dirigente fa i complimenti a Koussa per il dono che gli è stato appena recapitato (la testa del nemico del regime Belhadj). L’orgoglio per il “buon lavoro” svolto dai suoi uomini lo tradisce: ci tiene a precisare che l’intelligence del caso Abu Abdallah [alias di Belhadj] è stata inglese”.

Il testo della lettera, di cui il Telegraph pubblica brevi stralci, è illuminante: “Caro Moussa [...] la cosa divertente è che ho ricevuto dagli americani la richiesta di far transitare le richieste di da Belhadj attraverso personale americano. Io non ci penso neanche. So bene che non sono stato io a pagare il cargo [usato per il trasferimento, pare messo a disposizione dai volenterosi colleghi della CIA]. Ma credo di avere il diritto di trattare direttamente con te su questo tema e ti sono molto grato per l’aiuto che ci stai dando”. Grand’uomo, Allen: costretto alle dimissioni dai servizi a causa dell’imbarazzante “dossier Iraq”, che spiegò agli Inglesi perché “Baghdad delenda est”, nel 2004 è stato assunto alla BP, dove pare si sia fatto molto onore siglando contratti milionari con l’allora “quasi nemico” libico.

Tra una sessione di tortura e l’altra, pare che Belhadj non si annoiasse: era infatti continuamente interrogato, oltre che dagli uomini di Moussa Koussa, non solo da un team di inglesi (capitanati da una signora), ma anche da rappresentanti di altri Paesi (compresa l’Italia). Passò i cinque anni successivi in carcere.

E c’è un altro documento, reso pubblico ieri, altrettanto imbarazzante per l’intelligence britannica: un fax spedito dalla CIA a Tripoli il 23/03/2003, nel quale l’agenzia americana si mette a disposizione per fornire il passaggio aereo da Hong Kong, dove si rifugiava Abu Munthir, vice di Belhadj, a Tripoli. Un documento grottesco dal quale traspare la curiosa combinazione d’ingenuità, spregiudicatezza e ipocrisia che caratterizzano la politica estera degli Stati Uniti.

“Siamo al corrente che avete collaborato con i servizi britannici per la deportazione di Abu Munthir e che avevate un aereo disponibile allo scopo alle Maldive.” Il governo di Hong Kong non desidera avere un velivolo libico sul suo territorio - continua il documento - ma è disponibile ad dare l’OK al trasferimento se effettuato attraverso un aereo di nazionalità terza. Se il costo del trasferimento è un problema, la CIA è pronta a dare una mano”. Nella comunicazione si afferma, per ben due volte, che la collaborazione americana è condizionata alla formale rassicurazione che il Abu Munthir e la sua famiglia saranno trattati con umanità dai libici (!).

Dopo l’esplosione di quest’ultimo scandalo, che certifica un coinvolgimento diretto di MI5 ed MI6 nei casi di extraordinary rendition, sarà ancora più difficile per gli inglesi sostenere che l’unica responsabilità del governo è stata quella di essere troppo lento a comprendere il fenomeno, il tipo di giustificazione patetica che pure è stata accettata in passato dall’Intelligence and Security Committee, il comitato nominato dal Primo Ministro con il compito di supervisionare il lavoro dei servizi segreti.

di Michele Paris

Costretti a vivere in condizioni sempre più precarie, gli indios Guaranì del Brasile hanno chiesto al gigante energetico Shell di cessare tutte le attività di produzione di etanolo sulle loro terre ancestrali. Da circa un anno la compagnia anglo-olandese ha dato vita ad una joint-venture con il produttore locale di biocarburanti Cosan, coltivando canna da zucchero sulle terre appartenenti ai Guaranì.

Nella loro lettera, gli indios brasiliani sostengono che “da quando la compagnia ha iniziato ad operare, la nostra salute - quella dei bambini, degli adulti e degli animali - si è deteriorata”. Inoltre, i Guaranì lamentano che i nuovi coltivatori “non hanno mai chiesto il nostro permesso né ci hanno consultato prima di seminare sulla nostra terra”.

Già nell’estate del 2010 il governo brasiliano aveva notificato alla Shell la propria preoccupazione per le attività della joint-venture appena creata, ma senza risultati concreti. Gli indios e le associazioni a difesa dei diritti delle comunità indigene accusano ora il governo centrale di non essere in grado di far rispettare le proprie leggi.

Queste terre appartengono infatti ufficialmente ai Guaranì, ma il governo brasiliano non è ancora riuscito a tracciarne i confini in maniera definitiva a causa di continui ritardi. Per questo, spesso molti indios tornano sulle loro terre ancestrali ancora prima che le autorità abbiano ultimato l’opera di demarcazione, esponendosi ad attacchi violenti, come dimostrano i 56 morti nel solo 2010.

L’industria dei biocarburanti brasiliana è una delle più avanzate dell’intero pianeta, anche se il suo sviluppo ha causato la deforestazione di ampie aree del paese sudamericano e la trasformazione di terre fertili dei Guaranì in piantagioni di canna da zucchero da cui si ricava appunto il “biofuel”.

Queste terre sono state letteralmente sottratte alle popolazioni indigene, che si vedono confinate in riserve sovraffollate o ridotte a vivere in accampamenti di fortuna. Tale situazione ha fatto in modo che per molti Guaranì sia diventato impossibile pescare e cacciare in molte aree, per non parlare della mancanza di terre fertili da coltivare.

“È un’amara ironia”, ha osservato Stephen Corry, direttore dell’organizzazione Survival International che si batte per i diritti delle popolazioni indigene, “che la gente acquisti l’etanolo della Shell come un’alternativa “etica” ai combustibili fossili. Certamente non vi è nulla di etico nel modo disumano in cui sono trattati i Guaranì. Il governo brasiliano deve far rispettare le proprie leggi e fermare la distruzione totale delle terre degli Indios”.

di Alessandro Iacuelli

La Cina avrebbe offerto enormi quantità di armi al colonnello Muammar Gheddafi lo scorso luglio, e ha condotto colloqui segreti sulla loro consegna via Algeria e Sudafrica. Lo riporta oggi il quotidiano canadese The Globe and Mail. Il tutto aggirando le sanzioni dell'Onu. Citando documenti in suo possesso, il quotidiano canadese afferma che le fabbriche di armi cinesi, controllate dallo Stato, erano pronte a fine luglio a vendere armi e munizioni per una cifra pari almeno a 200 milioni di dollari.

Il Globe and Mail non conferma che le armi siano state consegnate, ma cita i nomi di alcuni leader del nuovo regime di Tripoli secondo i quali i documenti rinforzano i loro sospetti sui movimenti recenti di Cina, Algeria e Sud Africa. Omar Hariri, responsabile degli affari militari nel Consiglio nazionale di transizione (Cnt), ha esaminato i documenti e ha concluso che questi potrebbero spiegare la presenza di nuove armi sul territorio libico, dice il giornale. "Sono quasi certo che queste armi siano arrivate e che siano state utilizzate contro il nostro popolo", ha dichiarato Hariri.

Quel che è certo, è che il governo di Gheddafi aveva provato a liberarsi delle prove di queste trattative, infatti i documenti sono stati scoperti in una discarica nel quartiere di Bab Akkarah a Tripoli, dove hanno vissuto alcuni tra i sostenitori più fedeli del colonnello. In particolare, secondo quanto ritrovato dai ribelli libici in discarica, le armi in questione sono principalmente lanciarazzi, missili anticarro e altre armi, nonostante l'embargo su questo genere di esportazioni. Questo particolare viene riportato dal New York Times, che cita Abdulrahman Busin, un portavoce militare dei ribelli, che dichiara: "Abbiamo prove inconfutabili di negoziati in corso tra la Cina e Gheddafi, abbiamo tutti i documenti che li provano".

Anche tra i ribelli stessi però qualcuno è scettico sull'autenticità dei documenti, mentre fonti dell'Onu coinvolte nelle sanzioni contro il regime libico sostengono che "non e' stato portato alla loro attenzione alcun accordo con la Cina in materia di armi". Per il momento dalla Cina non arriva alcun commento ufficiale alla notizia, ma in passato Pechino ha più volte assicurato lo scrupoloso rispetto delle sanzioni imposte al regime di Gheddafi dalle Nazioni Unite. Anche se non confermata, la vicenda potrebbe inasprire i già difficili rapporti tra i ribelli e Pechino, accusata di non aver chiaramente e tempestivamente preso posizione contro il colonnello.

Ma la Cina smentisce e nega recisamente di aver fornito armi al regime libico fino al luglio scorso. La portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Jiang Yu, conferma la notizia riportata dal giornale, secondo il quale consiglieri militari dell'ex leader libico hanno incontrato a Pechino, a metà luglio, i dirigenti di alcune imprese cinesi produttrici di armi tra cui la China North Industries Corp. (Norinco), la China National Precision Machinery Import&Export Corp.(Cpmic) e la China XinXing Import&Export Corp, ma nega che la riunione abbia dato vita alle forniture militari.

Parlando in una conferenza stampa a Pechino, Jiang Yu ha precisato che gli incontri hanno avuto luogo ''senza che il governo di Pechino ne fosse a conoscenza'', ma che comunque detti incontri ''non hanno concluso alcun accordo con le aziende cinesi”. La portavoce ha aggiunto che ''dopo l'approvazione della risoluzione dell'Onu n. 1970, la Cina non ha venduto direttamente o indirettamente armi alla Libia''. "Le società cinesi - ha concluso la Jiang - non hanno firmato contratti commerciali e non hanno neppure esportato attrezzature militari in Libia.

 


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