di Carlo Musilli

Cacciare un dittatore non basta per essere liberi. Quello che sta accadendo nello Yemen lo dimostra meglio di ogni altra vicenda della primavera araba. Giovedì il Paese si è liberato del suo despota, Ali Abdullah Saleh, che dopo 33 anni di regno ha finalmente siglato un accordo di transizione. L'intesa però gli garantisce la totale immunità, una clausola inaccettabile per i manifestanti anti-regime.

Le migliaia di persone che da dieci mesi occupano le strade di Sana'a, la capitale, hanno annunciato che continueranno a protestare finché il dittatore non sarà processato per le centinaia di vittime provocate dalle sue repressioni. Nello stesso giorno della presunta liberazione, cinque persone sono state uccise dai miliziani in borghese.

Oltre all'amnistia, il piano prevede anche che Saleh mantenga la carica onorifica di presidente per tre mesi, trasferendo i poteri effettivi al suo vice, Abd Rabbo Mansour Hadi, che nello stesso arco di tempo dovrà costituire un governo di unità con le opposizioni e indire nuove elezioni presidenziali.

L'accordo, appoggiato dall'Onu, era stato proposto lo scorso aprile dai sei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Bahrein). Per tre volte Saleh aveva rifiutato di firmare. Oggi però, di fronte alla prospettiva di vedersi congelare tutti i beni, com'è accaduto a Muammar Gheddafi, si dice pronto a "cooperare con il nuovo governo e con l'opposizione" per "ricostruire il Paese".

Intanto, il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ci fa sapere che a breve il dittatore si recherà negli Usa per "cure mediche". Sarebbe questa una degna conclusione per il rapporto di amore e odio che negli ultimi decenni ha legato Saleh agli Stati Uniti. Durante l'amministrazione Bush il Presidente yemenita era considerato da Washington un alleato da preservare in funzione anti Al-Qaeda.

Negli ultimi anni però il suo potere è stato progressivamente logorato dalle spinte autonomiste delle tribù, oltre che dalle proteste della popolazione contro il dispotismo e la corruzione del regime. L'esempio di tunisini, egiziani e libici ha fatto il resto. Intanto, i gruppi legati ad Al-Qaeda hanno approfittato delle rivolte esplose lo scorso inverno per riorganizzarsi nel sud del Paese. Ed è stata questa la vera rovina di Saleh. Agli occhi degli americani il vecchio amico si è trasformato in una minaccia.

Non a caso il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Mark Toner, ha detto che l'accordo firmato a Riyadh è "un passo importante" verso una "transizione pacifica". Parole colme di speranza sono arrivate anche dal nostro nuovo ministro degli Esteri, Giulio Terzi: "L'Italia saluta con favore la notizia dell'accordo per la transizione politica in Yemen, si legge in un comunicato della Farnesina. Ora è necessario che l'accordo venga attuato pienamente e che cessi ogni violenza".

E' l'auspicio di tutti, ma purtroppo l'intesa che ha portato alla caduta di Saleh non lascia ben sperare. Le zone d'ombra sono troppe. Da chi sarà composto il governo di transizione? Chi guiderà l'esercito? Anche se il dittatore non c'è più, non è ancora chiaro se e da chi i suoi uomini saranno sostituiti. A cominciare da Ahmed, comandante della Guardia Repubblicana e figlio di Saleh.

Altre incertezze riguardano i veri detentori del potere nella società yemenita, i capi tribali. Nessuno sa dire quanti di loro (e sono oltre duecento) siano disposti ad accettare pacificamente la transizione pianificata. Tanto più che Mansour Hadi, l'uomo che dovrebbe traghettare il Paese alle elezioni, è considerato da molti come una figura debole, priva dell'appoggio politico e militare necessario a svolgere un compito del genere.

Quello che servirebbe allo Yemen è una riforma complessiva delle istituzioni in senso liberale. Il Parlamento esiste, ma allo stato attuale è praticamente destituito di ogni funzione. Se nulla cambierà nell'ordinamento, il successore di Saleh avrà quindi gli stessi poteri del suo predecessore. Senza contare che eleggere un nuovo leader in appena tre mesi - e senza alcun periodo di decantazione - significa scatenare scientemente una lotto alla successione che si preannuncia feroce. Un po' come decapitare il mostro e rimanere a guardare mentre gli cresce una nuova testa.

 

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