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di Michele Paris
La visita a Parigi del presidente ruandese, Paul Kagame, ha segnato questa settimana una nuova tappa nel difficile percorso di riconciliazione tra i due paesi dopo la rottura avvenuta in seguito al ruolo della Francia nel genocidio del 1994. Il discusso leader del paese centro-africano è atterrato domenica scorsa nella capitale francese ed è stato ricevuto all’Eliseo il giorno successivo dal presidente Nicolas Sarkozy.
Il riavvicinamento tra i governi di Francia e Ruanda aveva già fatto registrare un timido passo avanti nel febbraio del 2010, quando proprio lo stesso Sarkozy aveva trascorso qualche ora a Kigali nell’ambito di un tour del continente africano. “Stiamo lavorando assieme per lasciarci la storia alle spalle e andare avanti”, ha affermato Kagame nella giornata di domenica durante un incontro con alcuni espatriati ruandesi giunti a Parigi.
Al palazzo dell’Eliseo, inoltre, il leader di etnia Tutsi ha lanciato un segnale di distensione importante al suo omologo francese, annunciando che il governo ruandese non ritiene più necessario che Parigi faccia le proprie scuse ufficiali per la parte svolta nei sanguinosi fatti del 1994.
Kagame, in ogni caso, non ha risparmiato una frecciata a Sarkozy e alla politica estera neo-coloniale perseguita dalla Francia in questi ultimi anni, criticando la tendenza degli occidentali a “giudicare gli africani” e a intervenire negli affari del continente da lontano, senza rispettare “le aspirazioni dei popoli africani”.
Da parte sua, il presidente francese ha promesso di raddoppiare gli aiuti economici destinati al Ruanda - da 22,7 a 42,2 milioni di euro l’anno - ed ha rivelato che le aziende transalpine prenderanno parte ad una serie di progetti energetici in questo paese. “Ho chiesto rapporti commerciali più intensi ed una partnership più stretta”, ha confermato Kagame. “I francesi saranno liberi di investire in Ruanda”.
La portata effettiva degli accordi annunciati a Parigi passa in ogni caso in secondo piano di fronte alla rilevanza politica del meeting tra i due presidenti, puntualmente sottolineata da entrambi nel corso del faccia a faccia. Tanto più che rimangono forti resistenze nei confronti del processo di pacificazione con il Ruanda di Kagame nell’esercito e nel governo francese, a cominciare da quelle manifestate dal ministro degli Esteri, Alain Juppé, accusato da Kigali di complicità nel genocidio e spedito qualche giorno fa in visita in Australia. “Siamo consapevoli che questa visita non sarà gradita a molti”, ha ammesso un consigliere di Sarkozy all’agenzia di stampa AFP. “Ma il presidente ha deciso di voltare pagina nelle dolorose relazioni con il Ruanda”.
I legami della Francia con il Ruanda erano in realtà molto intensi fino al 1994. Con il venir meno del sostegno dell’ex potenza coloniale (Belgio), nei primi anni Novanta i francesi avevano infatti garantito il loro appoggio all’allora governo guidato da un’élite di etnia Hutu. Grazie al sostegno e alla fornitura di armi francesi, l’esercito ruandese fu in grado di rafforzarsi notevolmente. Le truppe ruandesi furono addestrate dai militari francesi, i quali presero anche parte attivamente alla guerra civile combattuta contro il Fronte Patriottico del Ruanda (FPR) - trasformatosi successivamente nell’attuale partito di governo di Kagame - formato da militanti Tutsi e appoggiato dagli Stati Uniti.
A sconvolgere gli equilibri nella regione furono i fatti che precedettero e seguirono il genocidio. Il missile che nell’aprile del 1994 colpì l’aereo su cui viaggiavano il presidente ruandese Juvénal Habyarimana (Hutu) e quello del Burundi, Cyprien Ntaryamira, mentre si stava avvicinando all’aeroporto di Kigali, fu l’episodio che fece esplodere le violenze in un paese già provato da una gravissima crisi economica. La morte di Habyarimana fu il pretesto cui il governo Hutu alleato di Parigi fece ricorso per scatenare una carneficina che avrebbe fatto almeno 800 mila vittime, la gran parte dei quali di etnia Tutsi. Lo sterminio venne alla fine fermato in seguito al rovesciamento del governo Hutu da parte dei ribelli Tutsi con l’aiuto dei militari ugandesi.
Quando nel 2006 un giudice francese stabilì che i ribelli Tutsi guidati da Paul Kagame avevano ordinato l’abbattimento dell’aereo del presidente Habyarimana, provocando indirettamente il genocidio, Kigali ruppe definitivamente le relazioni diplomatiche con Parigi. Da parte del nuovo regime Tutsi in Ruanda non tardarono ad arrivare le accuse nei confronti della Francia, i cui militari erano intervenuti tardivamente nel paese sotto l’egida dell’ONU per fermare la strage e offrire protezione agli Hutu - compresi quelli coinvolti nelle violenze - presi di mira dalle ritorsioni del nuovo regime.
Ad indicare un certo cambiamento nei rapporti tra i due paesi fu la già ricordata visita di Sarkozy in Ruanda del 2010, durante la quale il presidente francese, pur non offrendo scuse ufficiali, ammise che il suo paese era stato cieco di fronte al genocidio portato avanti dal governo Hutu. Le accuse sollevate nei confronti della Francia da parte di Kigali erano tuttavia ben più gravi. Nel 2008, infatti, il governo di Kagame aveva pubblicato i risultati di un’indagine, fermamente respinti da Parigi, che mostravano come i francesi avessero addestrato e armato la milizia Hutu, ipotizzando così un ruolo attivo negli stupri e nelle uccisioni di massa del 1994.
Il raffreddamento dei rapporti con la Francia aveva inevitabilmente spinto l’anglofono Paul Kagame verso le braccia di Stati Uniti e Gran Bretagna. Nel 2010, il Ruanda ottenne addirittura l’accesso al Commonwealth britannico, pur non essendo una ex colonia di Londra. Il regime di Kagame - eletto formalmente presidente solo nel 2000 - ha fatto però registrare un’evoluzione sempre più autoritaria negli ultimi anni, nonostante fosse stato indicato come un modello di crescita e stabilità per tutto il continente africano. La repressione del dissenso interno si è più volte manifestata anche con l’eliminazione fisica degli avversari politici del presidente.
Le critiche sempre più insistenti che giungono soprattutto da Washington e da Londra hanno contribuito al progressivo isolamento del governo ruandese sulla scena internazionale. Da qui la necessità di cercare di ristabilire i contatti con Parigi. Le aperture mostrate da Kagame sono state accolte prontamente da Sarkozy, impegnato a ridare slancio alla propria politica africana, come dimostra il ruolo di primo piano giocato recentemente in Libia e in Costa d’Avorio.
Un ulteriore segnale di disgelo da Parigi era arrivato poi nel marzo del 2010, subito dopo la visita di Sarkozy, quando le autorità transalpine arrestarono, sia pure per un breve periodo, la vedova del defunto presidente Habyarimana, residente in Francia fin dal 1994. Per Agathe Habyarimana il Ruanda aveva chiesto l’estradizione, in quanto accusata di essere tra i leader di Akazu, una ristretta organizzazione informale di estremisti Hutu che pianificarono e incitarono al genocidio.
Il riavvicinamento al Ruanda viene valutato con estremo interesse da una parte della classe dirigente d’oltralpe, poiché potrebbe consentire alla Francia di tornare ad esercitare una certa influenza nella regione dei Grandi Laghi. Quest’area dell’Africa centro-orientale ha una certa rilevanza strategica, soprattutto grazie alla presenza e al transito di risorse minerarie preziose per i mercati internazionali.
La visita di Kagame a Parigi rappresenta perciò un momento importante nella ricomposizione dei rapporti tra la Francia e il Ruanda. Una distensione che risponde agli interessi di entrambi i governi, con Kagame, da un lato, desideroso di attrarre nuovi investimenti esteri e di far cessare le critiche della comunità internazionale al suo regime autoritario e Sarkozy, dall’altro, ben deciso a far dimenticare le responsabilità del proprio paese in uno dei più feroci massacri del ventesimo secolo.
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di Eugenio Roscini Vitali
Venerdì scorso centinaia di dimostranti hanno assalito l’ambasciata israeliana al Cairo; dopo aver demolito a colpi di ariete il muro di recinzione eretto a protezione della sede diplomatica, alcuni di loro sono saliti fino al diciassettesimo piano del palazzo che ospita la missione e hanno devastato parte degli uffici della delegazione israeliana. L’irruzione ha costretto alla fuga l’ambasciatore Yitzhak Levanon e il suo staff, ottanta persone che insieme alle famiglie hanno lasciato il Paese a bordo di due velivoli militari israeliani; sei agenti di sicurezza barricati all’interno di una delle camere di sicurezza dell'ambasciata sono stati tratti in salvo dalle teste di cuoio egiziane mentre centinaia di documenti riservati sono stati gettati dalle finestre.
Parlando di tragedia evitata il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha commentato l’incidente ricordando che «l’Egitto non deve ignorare la grave offesa alla sostanza della pace con Israele e l’evidente violazione della legge internazionale». L’analisi fornita da una fonte del ministero dell’Interno egiziano al giornale al-Youm al-Sabaa parla invece di «mani straniere dietro l’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo».
La dimostrazione, iniziata dopo la preghiera del venerdì con un sit-in pacifico organizzato in piazza Tahrir contro la giunta militare che dal marzo scorso sostiene il premier Essam Sharaf, si era poi spostata davanti all’ambasciata israeliana, già bersaglio di manifestazioni di protesta per le cinque guardie di frontiera egiziane uccise il 19 agosto scorso dalle forze speciali israeliane durante la caccia agli autori degli attentati di Eilat. Negli scontri scoppiati dopo l’arrivo della polizia, intervenuta per sedare i disordini con almeno 16 blindati, sono morte cinque persone e si sono registrati 1.049 feriti.
Secondo quanto riferito dalla tv satellitare al-Arabiya la zona continua ad essere fortemente presidiata dagli agenti anti sommossa che sono intervenuti anche sabato mattina per disperdere la folla che si stava nuovamente ammassando di fronte all'ambasciata. Il governo israeliano ha reso noto che l'evacuazione è comunque una misura momentanea e che la delegazione tornerà al Cairo al più presto, non appena saranno accertate le condizioni di sicurezza necessarie alla salvaguardia dei cittadini israeliani. In Egitto intanto è rimasto il numero due dell’ambasciata, Yaakov Dvir, console per gli affari di Stato che può contare sul sostegno e l'ospitalità della missione statunitense.
Sul fronte egiziano l'attacco di venerdì scorso ha costretto il Consiglio supremo delle forze armate e il gabinetto di crisi del governo ad una riunione straordinaria: la giunta militare ha innanzi tutto respinto le dimissioni presentate dal premier ad interim Essam Sharaf e si è impegnata a rispettare i trattati internazionali ed assicurare alle sedi diplomatiche presenti nel Paese la necessaria protezione. Ha inoltre dichiarato lo stato di allerta ed ha autorizzato le forze dell’ordine a mettere in atto le norme previste dalla legge d’emergenza in vigore in Egitto da oltre trent’anni.
Nulla è trapelato circa i possibili organizzatori dell'assalto ma, secondo fonti israeliane, non è escluso che tra le fila dei dimostranti ci fossero elementi legati a Jama'a al-Islamiya, il movimento islamista accusato d'intrattenere strette relazioni d'alleanza con al-Qaeda e di aver compiuto innumerevoli attacchi terroristici, da quello che il 6 ottobre 1981 costò la vita al presidente egiziano Anwar al-Sadat al furgone-bomba esploso il 26 febbraio 1993 nel parcheggio sotterraneo della torre nord del World Trade Center di New York, al massacro di Luxor che ebbe luogo il 17 novembre del 1997 a Deir el-Bahari. Sempre secondo gli israeliani, all'assalto avrebbero inoltre partecipato militanti appartenenti alle frange più estreme del Movimento 6 aprile e ai Fratelli musulmani.
Per alcuni analisti l'attacco all'ambasciata israeliana potrebbe essere una delle conseguenze dell'attuale crisi turco-israeliana, con i Fratelli musulmani che muoverebbero le fila della rivolta per dimostrare come l'attuale giunta militare egiziana sia pronta a sopprimere con la forza ogni forma di protesta, anche se rivolta contro il "nemico di sempre". In realtà è dal 1979 che i rapporti diplomatici tra Egitto e Israele non toccavano un punto così basso: mentre domenica era attesa al Cairo la delegazione israeliana incaricata di indagare sull’incidente di frontiera del 19 agosto scorso, sul confine meridionale del Sinai le guardie di frontiera aprivano il fuoco contro un veicolo delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), senza comunque causare vittime o feriti.
Ad aggravare la situazione nell’area c’é poi la crisi turco-israeliana: tra i due paesi la tensione è ormai alle stelle. Nelle ultime ore Ankara ha inviato tre navi da guerra nel Mediterraneo orientale, tre fregate mobilitate nell'ambito di un'operazione detta “Libertà dei mari” che, secondo il quotidiano turco Sabah, hanno il compito di proteggere le imbarcazioni civili che portano aiuti alla Striscia di Gaza. La marina turca avrebbe l'ordine di intervenire qualora le navi israeliane entrino in azione al di fuori delle acque territoriali, avvicinandole fino a 100 metri di distanza per portare a termine tutte le operazioni necessarie a disabilitarne i sistemi d'arma.
Le premesse per lo scontro ci sono tutte e le posizioni del premier turco Recep Tayyip Erdogan sono ormai note. In un’intervista al quotidiano egiziano Shouruk, rilasciata poche ore prima di partire per il tour che lo porterà in Egitto, Tunisia e Libia, Erdogan ha precisato che sull'attacco alla Freedom flottilla l'atteggiamento turco nei confronti di Israele è stato sempre chiaro ed irrevocabile: «Scuse al popolo e al governo turco, indennizzo alle famiglie delle vittime, revoca del blocco illegale imposto a Gaza». Per il Premier turco la possibilità di un confronto militare con Israele è comunque da escludere, anche se la «la marina turca è pronta ad affrontare tutte le possibilità, anche le peggiori».
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di Mario Braconi
“Countdown to zero” è un documentario di Lucy Walker che, attraverso una serie di interviste a leader globali, dimostra come la preoccupazione per il riscaldamento globale e l’inquinamento finiscono per essere superflue in un contesto in cui l’umanità può distruggere il pianeta in modo assai più rapido ed efficace, con una o più bombe atomiche. Secondo il film, la probabilità di utilizzo di armamenti nucleari è aumentata esponenzialmente dalla fine della guerra fredda, causa proliferazione nucleare, terrorismo, incredibili lacune nella sicurezza eccetera. John De Fore di Reuters, recensendo il film a febbraio del 2010, ne loda le immagini raffinate e ne riassume così il messaggio di fondo: una bomba nucleare può esplodere in ogni momento per “incidente, errore di valutazione, o follia”.
Questo perché nel mondo si contano oggi ben 23.000 ordigni nucleari, perché é relativamente facile trafugarli e trasportarli e perché essi vengono troppo spesso stoccati in modo ridicolmente poco sicuro, specie in paesi come la Russia. Sembra che il filmato abbia attirato l’attenzione del Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, per la quale è stata organizzata una proiezione privata, mentre i critici del Wall Street Journal, del Guardian e dell’Observer lo hanno osannato.
Quando lo scorso 10 luglio Peter Burt, della Nuclear Information Service (NIS), una ONG che si propone di sviluppare la consapevolezza e stimolare il dibattito sul disarmo nucleare, ha organizzato una proiezione pubblica di “Countdown To Zero” a Reading, tutto si sarebbe aspettato fuorché trovare i poliziotti davanti alla sala. Secondo la ricostruzione di Burt, due agenti si sono sistemati davanti all’ingresso prendendo appunti sulle persone che si recavano all’interno per assistere alla proiezione. I poliziotti avrebbero annotato le targhe dei veicoli dei partecipanti all’evento, mentre un uomo misterioso avrebbe filmato la scena con una piccola telecamera fissata alla divisa.
Burt si è rivolto direttamente ai due poliziotti, chiedendo loro di giustificare la loro presenza, ma la sola risposta che ha ottenuto è stato un non brillantissimo: “Siamo venuti per controllare certe persone”. Alla richiesta di fornire qualche dettaglio in più, i due tutori della legge hanno tagliato corto, spiegando di non poter aggiungere altro. Così Burt ha scritto al capo delle forze di polizia locale della Valle del Tamigi, chiedendo spiegazioni sul bizzarro comportamento degli agenti specificando che l’organizzazione che egli rappresenta promuove informazione e formazione su certi temi e non organizza campagne finalizzate ad obiettivi specifici.
Con il Guardian Burt si è sfogato, sostenendo che “la sorveglianza di attività politiche non violente è una caratteristica tipica dei regimi totalitari, che non vorremmo mai vedere praticata in questo Paese”. Bisogna dare atto al Capo della polizia locale, Sarah Thornton, di saper riconoscere i propri errori e di aver reagito con stile.
Infatti, l’11 settembre il Guardian dava la notizia di una sua risposta ufficiale alla contestazione di Burt: “Il luogo in cui si è svolto l’evento da lei organizzato”, scrive la Thornton, “è solo uno dei tanti che sono stati pattugliati quel giorno, allo scopo di consentirci di stimare la probabilità di contestazioni violente nell’area; tuttavia, con il senno di poi, avrei preferito che i miei uomini non si fossero recati in quel luogo”.
Sulla questione della possibile registrazione video, Thornton ha lasciato intendere che ad effettuarle potrebbero essere stati degli uomini della polizia del Ministero della Difesa, precisamente del MDP, una forza di polizia che si occupa soprattutto di antiterrorismo e di scorte armate: “Non rispondo delle attività svolte da personale della MDP” ha aggiunto la Thorton.
La Polizia britannica fa dunque la sue scuse, cosa che è semplicemente impensabile in un Paese come l’Italia, dove succede (per dirne una) che le persone prese in custodia siano vittime di misteriosi incidenti mortali o di irrefrenabili impulsi autolesionisti, senza che dai rappresentanti delle forze dell’ordine responsabili della persone in restrizione arrivi non dico una dichiarazione di scuse, ma nemmeno uno straccio di spiegazione; son cose che capitano. Resta comunque il dubbio che ai pacifisti il governo desideri riservare la stessa sorte degli ambientalisti, spesso oggetto delle “attenzioni non gradite” dei vari ficcanaso di stato britannici.
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di Michele Paris
I crimini commessi dalle forze “democratiche” appoggiate dall’Occidente per rovesciare il regime di Gheddafi sono stati presentati martedì in tutta la loro evidenza in un rapporto di Amnesty International. Lo studio della ONG britannica si basa su tre mesi di indagini sul campo e mette in luce le atrocità commesse da entrambe le parti coinvolte nel conflitto in Libia. Il rapporto di 112 pagine, intitolato “La battaglia per la Libia. Uccisioni, sparizioni e torture”, non intende mettere sullo stesso piano le azioni dei fedeli di Gheddafi e dei cosiddetti ribelli, in quanto secondo Amnesty la lista dei crimini di cui si sono macchiati i primi sarebbe decisamente più lunga. Anche le forze dell’opposizione, tuttavia, si sono distinte per gravi azioni criminali che risultano essere veri e propri crimini contro l’umanità, anche se su scala minore.
“Il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) deve fronteggiare un compito difficile nel tenere a bada i combattenti ribelli responsabili di seri abusi dei diritti umani, inclusi possibili crimini di guerra, ma ha mostrato ben poca volontà di punire i responsabili” si legge nel rapporto. “I membri dell’opposizione con i quali Amnesty ha sollevato il problema hanno condannato questi abusi, anche se frequentemente ne hanno minimizzato la gravità. Qualcuno ritiene addirittura che queste siano reazioni comprensibili di fronte agli orrendi crimini commessi delle forze fedeli a Gheddafi”.
Secondo Amnesty International i ribelli hanno ucciso senza alcuna giustificazione legale più di dieci membri delle forze di sicurezza del regime tra aprile e i primi di luglio. Soprattutto, dopo la caduta di Tripoli ad agosto, gruppi agli ordini del CNT hanno assassinato impunemente, con armi da fuoco, impiccagioni e linciaggi, decine di soldati fatti prigionieri e immigrati africani di colore sospettati di essere mercenari al servizio di Gheddafi.
“Nel mese di febbraio hanno iniziato a diffondersi le voci che Gheddafi stava impiegando persone di colore come mercenari. Ciò non corrisponde al vero”, ha dichiarato lunedì alla Associated Press Nicolas Beger di Amnesty International. “Il CNT non ha fatto molto per mettere fine a queste voci, così che ora si stanno mettendo in atto vendette contro gli immigrati provenienti dall’Africa sub-sahariana”.
Secondo lo stesso Beger, questi abusi non si sarebbero fermati nemmeno dopo l’assunzione del controllo di Tripoli da parte del CNT. Gli stessi immigrati di colore, secondo il rapporto, sono esposti al rischio di attacchi violenti anche da parte dei civili libici, incitati dalla propaganda razzista e xenofoba dei ribelli e del regime del colonnello.
Nonostante la stampa occidentale in questi mesi si sia data da fare per descrivere scrupolosamente i crimini commessi da Gheddafi e per celebrare le azioni dei combattenti per la democrazia in Libia, qua e là era comunque filtrato qualche racconto relativo ai crimini degli insorti di Bengasi. La stessa Amnesty International da qualche tempo stava cercando di portare all’attenzione della comunità internazionale le persecuzioni scatenate contro gli africani sub-sahariani in Libia, sottoposti a gravi abusi solo per il colore della loro pelle.
Un rapporto pubblico di una prestigiosa organizzazione a difesa dei diritti umani porta però ora a conoscenza di tutto il mondo i crimini commessi dalle forze appoggiate dalla NATO, intervenuta ufficialmente proprio per fermare questi stessi crimini commessi contro i civili da parte del regime di Gheddafi.
Il CNT ha reagito con un certo fastidio alla denuncia di Amnesty. Il ministro della Giustizia del nuovo governo, Mohammed al-Alagi, ha sostenuto ad esempio che i ribelli, pur avendo commesso degli errori, non si sono macchiati di azioni definibili crimini di guerra.
Nel rapporto, infine, vengono elencati anche i crimini compiuti dalle forze fedeli a Gheddafi, tra cui l’uccisione di manifestanti indifesi, sparizioni di dissidenti e critici del regime, utilizzo di “cluster bombs”, lancio di missili contro aree residenziali ed esecuzioni arbitrarie di prigionieri senza alcun procedimento legale.
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di Mario Braconi
Una persona dell’organizzazione pacificista israeliana "Peace Now" è stata oggetto ieri di un grave atto intimidatorio: sui muri interni della sua abitazione sono stati trovati graffiti che inneggiano alla fine dellla ONG e minacce di morte specificamente indirizzate al suo dirigente. La firma di questo increscioso incidente è lo slogan “Migron for ever”, riferimento all’insediamento illegale israeliano di Migron, non lontanto da Ramallah.
Proprio "Peace Now" aveva a suo tempo richiesto la demolizione di tre delle strutture illegali di Migron alla Corte Suprema israeliana, che si è pronunciata a favore. Per inciso, ci sarebbe da domandarsi per quale ragione l’esercito israeliano debba aspettare che un’organizzazione pacifista segnali formalmente delle violazioni che con ogni probabilità gli sono note. Sia come sia, il 5 settembre centinaia di persone del Civil Administration Office, assistiti dall’esercito e da un nutrito numero di poliziotti, hanno demolito le tre costruzioni abusive, dopo gli scontri e gli arresti di rito (quattro feriti e sei fermi); l’ordine della Corte Suprema prevede inoltre l’obbligo di evacuazione entro marzo del 2012 per gli occupanti degli altri edifici occupati illegalmente ma non distrutti dall’azione del 5 settembre.
La notte stessa della demolizione si sono registrati un tentativo di incendio doloso nella moschea del villaggio di Kusra (vicino Nablus), mentre un misterioso artista del graffito si esercitava sulle moschee dei villaggi di Yatma e Bir Zeit (che sia lo stesso simpaticone che vorrebbe assassinare i pacifisti?). Non vale quasi la pena riportare i roghi di autoveicoli, appartenenti ad Arabi o all’esercito israeliano. Non è difficile ricollegare l’atto vandalico ai settler illegali che si ritengono danneggiati da "Peace Now". In ogni caso, il dirigente minacciato ha dimostrato freddezza recandosi al lavoro come in una giornata qualunque: in questo caso, si è trattato di continuare a documentare fotograficamente la cosiddetta attività di “price tagging” (letteralmente: apposizione di etichetta del prezzo ndr) sugli “obiettivi” arabi da parte di gruppi estremisti israeliani.
Come conferma questa mattina Haaretz, citando un report dei servizi israeliani, è in atto una escalation nelle attività dei militanti israeliani di estrema destra nella West Bank. Secondo lo Shin Bet, gli estremisti non si limiterebbero più ad azioni più o meno casuali contro gli arabi, come rappresaglia ad atti di terrorismo o alla demolizione di insediamenti illegali da parte del loro stesso esercito. Avrebbero messo in piedi una vera e propria base di dati con gli obiettivi da colpire, compresi ovviamente personaggi in vista “di sinistra” (leggi non estremisti anti-arabi), il cosiddetto “price tagging” di cui si occupa come può anche "Peace Now". Forse è il caso che un paese sempre più assediato come Israele combatta con più fermezza contro questi criminali, che, considerazioni giuridiche ed etiche a parte, costituiscono una minaccia enorme per la sua stessa sicurezza.