di Michele Paris

Il Ministero della Difesa yemenita venerdì mattina ha annunciato l’uccisione sul proprio territorio del predicatore estremista islamico Anwar al-Awlaki. Nato negli Stati Uniti, Awlaki era da tempo sulla lista nera di Washington con l’accusa di essere uno dei leader di Al-Qaeda in Yemen e di essere coinvolto in numerosi attentati terroristici in Occidente. Nato nel 1971 in Nuovo Messico, dove il padre stava completando un master universitario, Awlaki era finito nel mirino della sicurezza statunitense in seguito alle sue accese prediche on-line inneggianti alla jihad. Grazie al suo inglese fluente e alla cittadinanza americana, sembrava essere diventato uno strumento importante per la propaganda di Al-Qaeda, contribuendo a diffondere l’ideologia integralista, incitando attacchi terroristici e reclutando nuovi affiliati nei paesi occidentali.

La sua morte è stata subito confermata dalla Casa Bianca, anche se inizialmente le circostanze dell’operazione non apparivano del tutto chiare. Il network saudita Al Arabiya, citando fonti tribali, aveva per primo affermato che un gruppo di veicoli - su uno dei quali stava viaggiando Awlaki - era stato colpito da due missili sparati da un drone statunitense in una provincia dello Yemen settentrionale. Successivamente è arrivata anche la conferma di Washington che Awlaki è finito vittima del fuoco americano.

Oltre al bersaglio principale, nell’attacco sarebbero state uccise alcune guardie del corpo e, soprattutto, un secondo cittadino americano, il 25enne nativo dell’Arabia Saudita Samir Khan, direttore del magazine on-line di Al-Qaeda in lingua inglese, Inspire. Ad annunciarlo è stato un comunicato dell’agenzia di stampa ufficiale yemenita, SABA, confermato da un funzionario del governo americano alla Associated Press.

La CIA conduce da tempo operazioni teoricamente segrete con i droni in territorio yemenita. Obiettivo frequente di queste incursioni era proprio il predicatore di origine americana, il quale già in due precedenti occasioni era stato dato per morto: nel dicembre del 2009 e nel novembre dell’anno successivo. Lo scorso 5 maggio, infine, ad una manciata di giorni dall’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan, Awlaki era sfuggito all’ennesimo blitz americano che uccise invece altri due presunti affiliati ad Al-Qaeda.

Anche in questa occasione, poche ore dopo l’annuncio del governo yemenita, si sono diffuse alcune voci che hanno smentito l’uccisione di Awlaki. In particolare, l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha citato un’intervista telefonica del fratello, il quale avrebbe affermato che Awlaki non faceva parte del convoglio colpito venerdì. La smentita, in ogni caso, appare questa volta come una semplice operazione di propaganda.

Le autorità americane avevano messo in relazione Anwar al-Awlaki con svariate trame terroristiche nel recente passato. La responsabilità di quest’ultimo sarebbe stata più che altro di essere una fonte di ispirazione per gli attentatori, i quali avevano spesso soggiornato in Yemen per essere presumibilmente addestrati e indottrinati dagli uomini di Al-Qaeda.

Tra gli episodi collegati ad Awlaki c’è la sparatoria del novembre 2009 presso la base militare di Fort Hood, in Texas. In quell’occasione, il maggiore Nidal Malik Hasan, psichiatra dell’esercito americano, uccise 13 persone e, secondo le indagini, avrebbe scambiato e-mail con Awlaki poco prima della strage.

Awlaki avrebbe poi fornito un qualche appoggio sia al giovane nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab, che il giorno di Natale del 2009 tentò di far esplodere in volo un aereo della Northwestern Airlines partito da Amsterdam e diretto a Detroit, sia a Faisal Shahzad, protagonista di un fallito attentato con un’autobomba a Times Square nel maggio 2010.

L’amministrazione Obama lo scorso anno aveva incluso Anwar al-Awlaki in un elenco di presunti terroristi che avrebbero potuto essere colpiti dalla macchina da guerra americana in qualsiasi momento. Il presidente democratico era giunto in questo modo dove nemmeno l’amministrazione Bush aveva osato arrivare nella “guerra al terrore”. La semplice designazione di “terrorista globale” è infatti diventata sufficiente a segnare la sorte di un sospettato, senza che l’accusa sia supportata da prove e senza passare attraverso un qualsiasi meccanismo legale.

Il caso di Awlaki era poi ancora più clamoroso, dal momento che il presunto numero uno di Al-Qaeda in Yemen possedeva appunto un passaporto americano. La sua presenza sulla lista nera del governo di Washington era stata perciò oggetto di una denuncia, senza successo, da parte del padre di fronte ad un tribunale statunitense. L’esecuzione extra-giudiziaria di Awlaki in Yemen è stata così portata a termine nonostante nessuna accusa formale sia mai stata sollevata nei suoi confronti negli Stati Uniti né, tanto meno, sia mai stata emessa una sentenza di condanna a suo carico.

L’uccisione di Anwar al-Awlaki segna inoltre una inquietante escalation nella guerra globale al terrore degli Stati Uniti. L’allargamento del fronte allo Yemen era peraltro annunciato da tempo. Lo scorso mese di giugno, una fonte anonima dell’intelligence a stelle e strisce aveva rivelato alla stampa l’avvio della costruzione di una base CIA in una località imprecisata del Medio Oriente, proprio per operare in maniera più efficace le incursioni con i droni in Yemen e colpire la divisione di Al-Qaeda operante nella penisola Arabica (AQAP).

A luglio, poi, il neo-segretario alla Difesa ed ex direttore della CIA, Leon Panetta, aveva confermato che uno degli obiettivi primari della strategia anti-terrorismo degli USA era precisamente la rimozione, cioè l’assassinio deliberato, di Ayman al-Zawahri - il successore di Osama bin Laden al vertice di Al-Qaeda - e dello stesso Awlaki.

Il rinnovato impegno degli americani in Yemen è giunto in corrispondenza della rivolta popolare contro il regime autoritario del presidente Ali Abdullah Saleh, da sempre fedele alleato di Washington. Il caos che sta attraversando l’impoverito paese arabo viene di fatto sfruttato dagli Stati Uniti per intensificare la loro presenza in un’area strategicamente molto importante.

L’eventuale caduta del regime di Saleh, infatti, alimenterebbe i timori americani per una transizione fuori controllo in un paese che si affaccia sullo stretto di Bab-el-Mandeb, all’imbocco del Mar Rosso, dove transitano quotidianamente più di tre milioni di barili di greggio destinati al mercato internazionale.

Gli interessi USA devono essere così difesi ad ogni costo, anche per mezzo di operazioni militari dalla dubbia legalità, per fermare una minaccia terroristica la cui portata appare tutta da dimostrare.

di Michele Paris

La fiducia dei cittadini americani nel proprio sistema politico e nei loro rappresentanti al potere continua a far segnare nuovi record negativi. A dimostrarlo è un recentissimo sondaggio -commissionato da New York Times e CBS News - che mette in evidenza tutto il malcontento verso le istituzioni di Washington e le apprensioni ampiamente diffuse nel paese per il futuro della prima potenza economica del pianeta.

Uno dei dati più eclatanti emersi dall’indagine telefonica pubblicata martedì è l’89 per cento degli americani che dichiara di non nutrire alcuna fiducia nel governo. Più precisamente, per il 74 per cento degli intervistati gli Stati Uniti, sul fronte economico, sono indirizzati su un binario sbagliato. Il Congresso è l’istituzione che raccoglie il minor consenso, con appena il 9 per cento che dice di approvarne l’operato - un minimo storico - e ben l’84 per cento che lo disapprova esplicitamente. L’insoddisfazione verso il Congresso riguarda entrambi i partiti, dal momento che i repubblicani detengono la maggioranza alla Camera e i democratici prevalgono al Senato.

Numeri più favorevoli fa segnare invece il presidente Obama, anche se oggettivamente tutt’altro che incoraggianti. La percentuale degli americani che lo approva e di quelli che lo disapprova è identica (46 per cento). Il suo gradimento è leggermente migliorato rispetto al recente passato, secondo il New York Times grazie ai presunti successi da poco incassati in politica estera, come il rovesciamento e l’assassinio di Gheddafi o l’annunciato ritiro delle truppe USA dall’Iraq. Le proposte di Obama in ambito economico sono peraltro decisamente meno popolari.

Il sondaggio NYT/CBS affronta poi la questione della popolarità del movimento “Occupy Wall Street”. Secondo il 46 per cento degli intervistati, le ragioni che stanno alla base del movimento riflettono il sentire della maggioranza degli americani. In una rilevazione dello scorso febbraio, circa il 27 per cento pensava lo stesso relativamente ai Tea Party. Una differenza di dati importante che, oltre a confermare come quest’ultimo movimento sia più che altro un fenomeno ingigantito dai media e dietro al quale ci sono rappresentanti dei poteri forti, rivela come siano diffuse non solo le ansie per le prospettive dell’economia USA ma anche l’avversione verso l’intero sistema capitalistico, di cui “Occupy Wall Street” è portatore.

La disillusione di gran parte degli americani emerge anche dalle risposte date a un'altra serie di domande poste nel corso del sondaggio, relative alle disuguaglianze di reddito negli Stati Uniti. Il 66 per cento ritiene, infatti, che la ricchezza dovrebbe essere distribuita più equamente. A pensare che la ricchezza sia distribuita in maniera ineguale sono nove su dieci elettori democratici, due terzi degli indipendenti e anche un terzo di quelli repubblicani. Proprio quello Repubblicano è percepito come il partito dei privilegiati, con il 70 per cento degli intervistati che sostiene che le sue politiche favoriscono i ricchi.

Estremamente significativa è la citazione da parte del New York Times di una dichiarazione raccolta a margine dell’indagine telefonica da uno degli intervistati. L’87enne Jo Waters, pensionato di Pleasanton, in California, riassume in maniera lapidaria la realtà della società americana, dicendo al compilatore del sondaggio che “in questo paese tutto è per i ricchi”.

Riguardo le politiche economiche concrete, i due terzi dei cittadini statunitensi sono contrari ai tagli alle tasse per le corporation e vorrebbero piuttosto aumentare il carico fiscale sui milionari. Queste posizioni, condivise dalla maggioranza degli americani, sono diametralmente opposte al percorso che stanno seguendo i politici di Washington in questo periodo di crisi. In particolare, esse contrastano fortemente con i programmi presentati dai candidati alla Casa Bianca per il Partito Repubblicano, tutti o quasi impegnati a promettere un sistema fiscale regressivo ad aliquota fissa (flat-tax) che penalizza ulteriormente i redditi più bassi per offrire nuovi sgravi a quelli più alti.

A spiegare la sfiducia degli americani nel sistema politico di Washington ha contribuito anche uno studio dell’Ufficio per il Budget del Congresso (CBO) proprio sulla distribuzione della ricchezza nel paese, reso noto sempre nella giornata di martedì. La ricerca, richiesta dai senatori Max Baucus (democratico) e Charles Grassley (repubblicano), ribadisce i risultati già ottenuti da svariate organizzazioni private ed economisti vari ma risulta particolarmente autorevole dal momento che è stata condotta da un autorevole organismo indipendente e si basa sui dati dell’Agenzia delle Entrate (IRS) e dell’Ufficio del Censo.

Lo studio sottolinea chiaramente come i vertici della piramide sociale negli USA abbiano aumentato oltre misura le proprie entrate negli ultimi anni a spese delle classi più disagiate. Contro la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ricordano i ricercatori del CBO, ben poco hanno fatto le politiche dei governi succedutisi a Washington in tre decenni, i quali si sono adoperati piuttosto per neutralizzare “l’effetto livellatore del sistema fiscale federale”.

I dati presentati dalla ricerca indicano come nel 2007 l’uno per cento della popolazione ha incamerato il 17 per cento del reddito complessivo USA, mentre nel 1979 questa quota era attestata attorno all’8 per cento. Se si considera poi il 20 per cento dei contribuenti con maggiori entrate, la loro fetta di reddito complessivo supera per il 2007 la metà del totale (53 per cento), contro il 43 per cento del 1979. Sul fondo della scala sociale, al contrario, il 20 per cento degli americani più poveri si sono spartiti nel 2007 solo il 7 per cento del redito complessivo del paese, con un aumento di appena il due per cento in tre decenni.

In termini assoluti, lo stesso uno per cento di super-ricchi ha visto crescere le proprie entrate tra il 1979 e il 2007 addirittura del 275 per cento, mentre per il quinto della popolazione più benestante l’incremento è stato del 65 per cento. Il reddito dei meno abbienti, invece, ha fatto segnare nello stesso periodo di tempo un progresso del 18 per cento e quello della classe media - corrispondente ai tre quinti della popolazione - poco meno del 40 per cento.

Il recente sondaggio sull’umore degli americani e, soprattutto, il rapporto dell’Ufficio per il Budget del Congresso dovrebbero abbattersi come un macigno sul dibattito politico in corso negli USA sulle questioni del debito, della riforma fiscale e della crescita economica. In realtà, questo ritratto della situazione del paese non avrà nessun effetto concreto, al di là di qualche dichiarazione di circostanza rilasciata da alcuni esponenti politici.

Ciò che attende la maggioranza degli americani sono anzi nuovi devastanti tagli alla spesa pubblica e una probabile revisione del carico fiscale a favore delle grandi aziende e dei redditi più elevati in nome della crescita economica. Queste, con ogni probabilità, saranno anche le conclusioni della speciale commissione bipartisan del Congresso che entro la fine dell’anno sarà chiamata a presentare le proprie proposte per ridurre il deficit federale di 1.200 miliardi di dollari nel prossimo decennio, approfondendo ancora di più le già enormi differenze nella distribuzione delle ricchezze negli Stati Uniti.

La classe politica che dovrebbe in teoria rimediare alle disuguaglianze sociali, d’altra parte, è la stessa che ha contribuito deliberatamente a determinare questa situazione, rispondendo interamente agli interessi di una ristretta minoranza di privilegiati che continua a spartirsi la gran parte della ricchezza del paese.

di Eugenio Roscini Vitali

E' stato sabotato il gasdotto Arab Gas Pipeline che collega l’Egitto alla Giordania e Israele; l’attacco, il sesto dalla caduta del regime Mubarak, è stato portato all’alba di ieri da un commando entrato in azione a circa venticinque chilometro da al-Arish, città portuale sulla costa Mediterranea del Sinai settentrionale. Colpitala la stazione di misurazione di al-Maidan, chiuso l’impianto gestito dalla compagnia egiziana per il trasporto del gas GASPO, interrotta la fornitura verso Israele e la Giordania.

Secondo fonti della sicurezza egiziana non è stata ancora accertata l’origine dell’incendio, ma alcuni testimoni parlano di un’esplosione udita a diversi chilometri di distanza e di fiamme alte 15 metri. All’attacco, che ha causato il ferimento di un uomo che si trovava nei vicini uliveti, avrebbero partecipato sei uomini armati che, dopo essere giunti sul posto a bordo di un fuoristrada, avrebbero abbattuto la recinzione di filo spinato e piazzato una bomba sotto le tubature dell’impianto.

Nel tentativo di sradicare la rete jihadista che ormai controlla gran parte del Sinai e per combattere la nebulosa collaborazione che lega questi gruppi alle formazioni palestinesi della Striscia di Gaza, lo scorso agosto il  governo di transizione del Cairo aveva portato a termine con i capi di due delle tredici tribù beduine che abitano la penisola, i Sawarkas e i Tiyaha, un accordo che prevede una sorta di collaborazione militare per la messa in sicurezza dell’area che dalla costa Mediterranea fiancheggia la Philadelphi Route e dal posto di confine di Nitzana si estende fino al centro della penisola. Nello stesso periodo la polizia e l’esercito egiziano avevano dato il via ad una vasta operazione militare che aveva portato all’arresto di alcune persone sospettate di aver preso parte agli attacchi terroristici che nel solo mese di luglio hanno colpito il gasdotto per ben tre volte.

L’attacco alla stazione di al-Maidan ripropone la questione della sicurezza in una delle zone più strategiche del Sinai orientale. Gli eventi degli ultimi mesi hanno indotto Israele ad accelerato i lavori di completamento dell’impianto che a breve dovrebbe mettere in sicurezza i 240 chilometri di confine che dividono lo Stato ebraico dall’Egitto, ma secondo fonti di intelligence le reti metalliche e il sofisticatissimo sistema di sorveglianza visiva e di sensori capaci di captare qualsiasi movimento non sembra ancora in grado di fermare il traffico d’armi verso Gaza.

Mentre nel sud della Libia le forze del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) danno la caccia a Muammar Gheddafi e la Casa Bianca si impegna a collaborare con le nuove autorità per proteggere l’arsenale ereditato dal regime del colonnello, uno stock di  missili terra-aria SA-24 Grinch (nome in codice russo Igla-S 9K338) e di mine antinave MDM-3 sarebbe già sulla strada che porta ai tunnel che collegano la penisola egiziana a Rafah.

Del caso dei missili di fabbricazione russa si era già parlato all’inizio di settembre, quando da uno dei magazzini militari abbandonati dalle truppe di Gheddafi erano spariti 482 SA-24 Grinch. Ora però è stato anche ritrovato il mezzo con il quale sarebbe stato trasportato parte del carico trafugato a Tripoli, intercettato dalle forze di sicurezza egiziane nei pressi di Ismailia, cento chilometri a sud di Porto Said, sulla riva occidentale del Canale di Suez. Sul camion sarebbe stato abbandonato un numero imprecisato di casse vuote che originariamente avrebbero dovuto contenere i sistemi d’arma SA-24 (lanciatori 9P522 e missili 9M342) e le mine antinave russe MDM-3.

A tutt’oggi non è ancora stato stabilito quante armi siano cadute nelle mani dei trafficanti e delle cellule jihadiste infiltrate tra gli insorti; sicuro è che non tutto l’arsenale di Gheddafi è finito sotto il controllo del Cnt e che una buona parte di esso ha già preso altre strade, da quelle che accompagnano i lealisti fino alla Libia meridionale e al massiccio algerino del Tassili n'Ajjerl’, altopiano rifugio del terrorismo salafita, alle alture dei monti Air, nel Niger settentrionale, roccaforte dei ribelli Tuareg, al Sinai orientale, porta d’accesso verso l’estremismo palestinese. Ed è proprio verso quest’ultima tappa che sembra siano diretti gli SA-24 che viaggiavano sul velivolo rintracciato a Ismailia, un sofisticato sistema missilistico terra-aria a raggi infrarossi che potrebbe creare non pochi problemi all’aviazione israeliana.

Gli SA-24, evoluzione russa dell’americano FIM-92 Stinger, hanno un raggio d’azione di 5.2 chilometri e possono raggiungere una quota di 3.500 metri e una velocità massima di Mach 2.3; possono essere lanciati con un lanciatore spalleggiabile da un singolo uomo e grazie al sistema di guida a infrarossi sono utilizzabili anche di notte o con scarsissime condizioni di visibilità, sia contro aerei ed elicotteri da combattimento che contro droni e missili superficie-superficie.

Insieme agli SA-24 dalla Libia potrebbe arrivare a Gaza anche qualche vecchio SA-7 Strela-2 (9M32), missile utilizzato dalla fanteria della coalizione araba durante la Guerra dello Yom Kippur e che in termini diretti causò l’abbattimento di una mezza dozzina di aerei israeliani. E a fargli compagnia potrebbero aggiungersi gli SA-14 Strela-3 (9K34), assai temibili a quote medio basse e già utilizzati in Bosnia, dove riuscirono ad abbattere un BAE Sea Harrier inglese, in Angola, contro un Su-27 colpito mentre si trovava in fase di atterraggio e in Iraq, contro un Airbub 300 appena decollato dall’aeroporto internazionale Baghdad.

 

 

di Michele Paris

La condanna delle consuete dichiarazioni provocatorie del presidente iraniano Ahmadinejad sul ruolo del governo USA nei fatti dell’11 settembre non arriva soltanto da Washington ma, più recentemente, anche dalla stessa organizzazione terroristica accusata di aver orchestrato gli attentati alle Torri Gemelle di New York. Nell’edizione autunnale del magazine on-line di Al-Qaeda in lingua inglese, Inspire, Ahmadinejad viene criticato per le sue tesi sull’11 settembre, secondo le quali gli attentati di dieci anni fa sarebbero una cospirazione ordita dal governo di Washington per invadere l’Afghanistan e l’Iraq.

“Il governo iraniano ha sostenuto per bocca del suo presidente Ahmadinejad di non credere che Al Qaeda sia dietro all’11 settembre, ma che ci sia piuttosto il governo USA", si legge nell’articolo a firma Abu Suhail. “Quindi noi ci chiediamo: perché l’Iran sostiene una teoria così ridicola, contraria a ogni logica ed evidenza?”.

L’autore del pezzo in questione rivendica la paternità dell’attentato e definisce il presidente della Repubblica Islamica un rivale di Al-Qaeda sul fronte dell’anti-americanismo. “Per loro [gli iraniani], Al-Qaeda è un rivale nella sfida per conquistare i cuori e le menti dei musulmani oppressi in tutto il pianeta”, prosegue l’articolo. “Al-Qaeda ha avuto successo dove l’Iran ha fallito. Per questo per gli iraniani è necessario cercare di screditare l’11 settembre”.

Secondo l’editorialista della rivista Inspire, inoltre, l’anti-americanismo professato da Teheran rappresenterebbe solo un espediente politico. Dall’articolo emergono d’altronde le risaputa rivalità tra l’Iran sciita e l’organizzazione terroristica sunnita, divisi, quanto meno, dalle differenze di ordine religioso e dai rispettivi obiettivi strategici per estendere la loro influenza nel mondo islamico.

Mahmoud Ahmadinejad ha spesso sostenuto pubblicamente l’idea che dietro all’11 settembre ci fosse il governo di Washington. L’uscita più recente è stata la settimana scorsa, nel corso del suo intervento alla riunione annuale dell’Assemblea generale ONU. In quell’occasione, Ahmadinejad ha anche affermato che la stessa uccisione di Osama bin Laden fa parte della cospirazione, tesa a occultare i veri responsabili dell’attacco al World Trade Center e al Pentagono.

Come di consueto, il discorso di Ahmadinejad ha fatto in modo che la delegazione americana e quelle di altri paesi all’ONU abbandonassero la sala in segno di protesta. Ma nonostante i toni provocatori usati del presidente iraniano, il quale ha anche nuovamente toccato il tema dell’Olocausto, nella sostanza le sue dichiarazioni sembrano rispondere in realtà più a esigenze di politica interna che ad una vera e propria convinzione personale.

Messo alle strette sul fronte domestico dall’ala conservatrice dell’establishment clericale iraniano - che lo accusa, tra l’altro, proprio di tenere una posizione troppo accomodante nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente - Ahmadinejad ha verosimilmente sentito ancora una volta la necessità di mandare un segnale di inflessibilità ai propri rivali interni, rispolverando le teorie della cospirazione sorte attorno all’11 settembre.

Oltre all’articolo che attacca il governo di Teheran, il numero appena uscito del magazine Inspire presenta altri contenuti che intendono “commemorare” il decennale dell’11 settembre, tra cui una galleria fotografica dedicata a questo e ai successivi attentati terroristici portati a termine in tutto il mondo da A-Qaeda. L’orrore è online.

di Mario Braconi

A quanto sembra, indignarsi in Israele può servire a qualcosa. E’ di ieri la notizia della pubblicazione del rapporto commissionato dal governo Netanyahu a Manuel Trajtemberg, professore dell’Università di Tel Aviv, sull’onda emotiva provocata dal movimento dei cosiddetti “indignados” di Israele. In sole sette settimane, la commissione Trajtemberg ha messo assieme una serie di proposte che, nelle parole del professore, hanno l’ambizione di “creare le fondamenta di una società più equa”, come richiesto da un movimento di protesta popolare che egli definisce “genuino”.

A scorrere le cronache dei giornali israeliani, si direbbe che di carne al fuoco ve ne sia fin troppa: infatti, anche se il conto finale delle misure contenute nel pacchetto dovrebbe aggirarsi attorno all’equivalente di 6 miliardi di euro di maggior spesa, la prima buona notizia è che non vi saranno sforamenti al budget. Se fosse confermato quanto sosteneva Haaretz ieri, il programma non dovrebbe provocare nemmeno un aumento nel deficit del bilancio pubblico. Ed in effetti la copertura delle misure dovrebbe provenire da un lato da un aumento delle tasse sui redditi alti e sulle imprese e dall’altro da un taglio alle spese militari.

Le risorse così liberate, secondo il Trajtemberg, potranno essere utilizzate per sostenere istruzione, welfare ed occupazione. Nel concreto, il rapporto caldeggia la realizzazione di 200.000 nuove unità abitative, un aumento delle locazioni ed un sistema di sussidio per consentire anche alle fasce più deboli di prendere una casa in affitto. Lo stato dovrebbe garantire la scuola gratuita per i bambini a partire dai 3 anni di età (oggi si parte dai cinque), l’orario scolastico lungo ed un tetto per i prezzi degli asili nido privati: tutto questo dovrebbe rendere più facile l’accesso delle giovani coppie al mondo del lavoro.

Il rapporto, inoltre, raccomanda una sorta di coefficiente familiare per i genitori, che dovrebbe ridurre la pressione fiscale sulle famiglie, ed un sistema di negative-tax, una sorta di sussidio basato su una dichiarazione di reddito insufficiente a provvedere alle proprie necessità. La commissione, infine, richiede al governo di ridurre i dazi sui prodotti importati, una gamma molto ampia che va dai prodotti alimentari lavorati all’elettronica di consumo: da questa misura, Trajtemberg si aspetta di veder aumentare la concorrenza e conseguentemente una riduzione del costo della vita.

Nonostante si tratti di un piano tempestivo e almeno apparentemente progressista, non c’è nessuno in Israele a concedergli per lo meno il beneficio d’inventario. Scontata la protesta dell’esercito, che ha subito levato alti lai, sostenendo che i tagli alla spesa militare avrebbero come effetto immediato una diminuzione della sicurezza per i cittadini di Israele. Immediatamente rintuzzati dal ministro delle finanze che ha invitato gli ufficiali a “cominciare a non andarsene in giro con macchine di lusso [pagate dal contribuente ndr]”.

Molto contrari alle misure delle commissione Trajtemberg saranno certamente gli industriali israeliani, i sindacati e gli agricoltori. Scontenti anche gli studenti-rappresentanti della protesta sociale. “Hanno usato il gergo della nostra protesta, cosa che può ingannare la pubblica opinione, perché in realtà non hanno proposto delle misure che portano tanto lontano” ha dichiarato Daphni Leef in una conferenza stampa.

Le fa eco Regev Contes, altro leader della protesta: “Non sono particolarmente stupito, dato che sin dall’inizio i numeri di cui parla Trajtemberg non riescono nemmeno ad avvicinarsi minimamente a quello che occorre per le necessità pubbliche”. Almeno Itzik Shmueli, capo del sindacato degli studenti, concede a Trajtemberg il fatto di possedere una visione “grandiosa”; che però, secondo Shmueli, contrasta drasticamente con quelli che definisce delle raccomandazioni pratiche inconsistenti.

Al di là delle polemiche, e pur riconoscendo che, come sempre, si potrebbe fare di più e meglio, è sempre possibile che la protesta di piazza finisca per portare qualche risultato concreto per gli israeliani: tutto dipende dal vigore con cui Netanyahu saprà difendere le conclusioni del rapporto ed incardinarle in un percorso parlamentare che si preannuncia già molto complicato.


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