di Vincenzo Maddaloni

Gli alleati europei farebbero bene a ricordarle che la libertà non si esporta sulle punte delle baionette, perché purtroppo pare che l’America se lo sia dimenticato fin da tempi di George W. Bush. Infatti, il rischio di un conflitto armato tra una coalizione a guida Stati Uniti - Israele e l’Iran è - da due mesi a questa parte - per gli analisti militari israeliani, «pericolosamente vicino». L’anno nuovo si è inaugurato con un massiccio dispiegamento di truppe in Medio Oriente. Novemila soldati statunitensi hanno raggiunto Israele per partecipare a quella che viene raccontata come la più grande esercitazione bellica congiunta di difesa aerea della storia israeliana.

Le manovre, indicate con “Austere Challenge 12”, sono previste entro le prossime settimane. Il loro scopo, come informa Michael Chussudovsky, economista e analista di spicco di “Global Research”, «è quello di testare i molteplici sistemi di difesa aerea israeliani e statunitensi, in particolare il sistema Arrow (concepito per intercettare missili balistici a corto e breve raggio), che Israele nello specifico ha sviluppato con il concorso degli Stati Uniti per intercettare i missili iraniani».

Naturalmente, alle grandi manovre non poteva mancare la Marina Reale della Gran Bretagna, presente con il suo vascello da guerra di concezione più avanzata, il Type 45 destroyer HMS Daring, «progettato in modo da non potere essere individuato dai radar». Così la compagine anglosassone è al completo.

Una guerra con l’Iran è data per certa pure nei servizi giornalistici dagli Stati Uniti. Anzi, Mark Perry su “Foreign Policy” http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/01/13/false_flag?page=0,2 dello scorso 13 gennaio ha scritto che lo Stato ebraico è già da tempo in guerra aperta con la repubblica degli Ayatollah, e che ai più alti livelli politico-militari gli Usa sono da sempre perfettamente al corrente di quanto sta accadendo, «senza volere o senza potersi opporre». Tuttavia la diplomazia americana da mesi fa - con tutti i mezzi - opera di convinzione tra gli alleati europei sulla necessità di un intervento armato contro l’Iran.

Ne sono un esempio i contatti che ci sono stati tra Napolitano e Barack Obama durante la messa a punto del governo Monti, e dai quali sarebbero emersi i nomi dei ministri di Esteri e Difesa: l`ambasciatore negli Stati Uniti, Giulio Terzi, e il presidente del Comitato militare della Nato, l`ammiraglio Giampaolo Di Paola. Uomini che garantiscono alla Casa Bianca l`assoluta fedeltà dell`Italia. Così non c’è da stupirsi se sull`applicazione di nuove sanzioni a Teheran, Terzi abbia dichiarato che «l`Italia sostiene con piena convinzione il piano di sanzioni economiche annunciato dall`Amministrazione americana».

Sebbene dai dati pubblicati dal Consiglio Europeo emerga che l'Italia è il partner commerciale più importante dell’Iran, con gli scambi che ammontano - dati del primo semestre 2011 - a tre miliardi e 485 mila euro, ossia più di un quarto dei ricavi provenienti dalle transazioni iraniane con l'Unione Europea, pari a 12 miliardi. La Germania è ben distante, pur essendo con un miliardo e 868 mila di movimenti il secondo principale interlocutore finanziario dell'Iran in Europa.

Sicché, l'effetto deprimente delle sanzioni contro l'Iran si fa sentire soprattutto sull'economia italiana, tanto che persino il quotidiano confindustriale Il Sole24 ore ha segnalato che siccome i pagamenti iraniani alle aziende italiane non possono pervenire a causa del blocco delle banche occidentali, molte imprese esportatrici italiane stanno soccombendo. http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-12-18/freno-banche-iran-081543.shtml?uuid=AYwmxnsC

Beninteso, quello che Nato e America vogliono da noi come dagli altri alleati europei, è una partecipazione incondizionata alle sanzioni, il resto per loro non conta. Perché di fronte agli atti di terrorismo, alle rivolte delle piazze, o agli atteggiamenti di sfida come quelli del presidente iraniano Mahmud Ahmadinej?d, l'America - ricorda in ogni occasione il presidente Obama - non può aspettare, deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminarne le tare e costringerlo a democratizzarsi.

Soltanto gli Stati Uniti possono farsi carico di tale compito, ricorrendo alla forza, se necessario. L'invocazione astratta di “affermare la democrazia“ diventa così il pretesto per scatenare l’intervento militare, che ricorda po' quello che succedeva, in tempi non lontani, con il “socialismo reale“ dell'Unione Sovietica. Insomma, se si pensa a quel che è accaduto in Iraq o in Libia, si fa presto a capire quali possano essere i risultati della prossima “guerra di liberazione”.

Comunque sia, avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana continua a proiettarsi verso l'esterno con un’azione aggressiva, unilaterale, arrogante che mal si concilia con i discorsi altruistici sulla democrazia. È questo che nell’Amministrazione guida gli interventi in Medio Oriente e nel Golfo Persico. Siccome i bombardamenti servono a gestire il business, a consolidare la sinergia tra le bombe e le banche nell’America di Obama, come avveniva in quella di Bush, è “l’Amministrazione” che agisce in sintonia perfetta con la NATO e col "Business & Economics Program" del Consiglio Atlantico, che essendone l'organo dirigente è il protagonista eccellente della "governance" dell'economia mondiale.

Dopotutto, e non a caso, in Italia c’è un governo di banchieri, imposto dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca centrale Europea. Mario Monti non è soltanto un esponente della Commissione Trilaterale e del Bildelberg, nonché consulente della banca americana di Goldmann-Sachs, ma egli è (lo rivela il blog del  Comidad http://www.comidad.org/dblog/) addirittura tra i membri dell'Advisor Group del "Business & Economics Program", come si legge sul sito Web del Consiglio Atlantico http://www.microsofttranslator.com/bv.aspx?ref=IE8Activity&from=&to=it&a=http%3a%2f%2fwww.acus.org%2fpeople%2fbeag.

Insomma egli è un personaggio del grande capitale, delle lobby, e questo spiega perché Merkel e Sarkozy gli riservino tanta considerazione. A Monti non dispiacerebbe (per sua stessa ammissione) contribuire alla costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale, come si legge nell’intervista (2009, ma ancora valida) pubblicata sempre sul sito web del Consiglio Atlantico. http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.acus.org/new_atlanticist/5-questions-mario-monti&ei=2xoTT-yZIfT34QSxt6TjAw&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=3&ved=0CDwQ7gEwAg&prev=/search%3Fq%3Datlantic%2Bcouncil%2Bmario%2Bmonti%26hl%3Dit%26rlz%3D1R2ACAW_it%26prmd%3Dimvnso

Nasce da questo insieme di cose - infinito e disparato - la difficoltà di modificare il governo indissolubilmente nazionalista che suggella la desecolarizzazione crescente della politica dell’America, che è disposta a scatenare guerre pur di mantenere la leadership nel mondo. Infatti, è la facilità con la quale gli uomini di Obama giustificano la guerra preventiva in Medio Oriente come una sorta d’imperativo etico e religioso, che li rende del tutto identici ai “neocons“ dell’éra Bush.

Poiché quest’ossessivo richiamo alla superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica - o meglio della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana - ridiventa il pretesto per riesumare e diffondere le vecchie immagini gli antichi capi d’accusa secondo i quali: l’Islam è una religione violenta, che si è imposta con l’uso delle armi; una religione dissoluta dal punto di vista morale; una religione piena di false affermazioni e di consapevoli capovolgimenti della verità. Tesi - nell’éra di Twitter e del web - difficili da sostenere ma, come scriveva Giacinto de' Sivo (1814-1867), «Il volgo s'annoia a pensare, e volentieri s'acconcia alle idee altrui; così pochi scaltri fanno l'opinione che si dice pubblica, e partorisce ruine».

Si tenga a mente che il problema della conoscenza reciproca non si pone soltanto in chiave storica, ma innanzitutto in chiave contemporanea. L’Occidente del grande capitale ha dedicato fondi ed energie a studiare gli usi e i costumi dell’Altro, ma nessuno ha mai veramente consentito all’Altro di studiare usi e costumi dell’Occidente, se non nelle scuole tenute dagli occidentali, e consentendo soltanto ai più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi, e poi si vede cosa succede.

Studiano in Occidente e quando tornano a casa sostengono i movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare. Succede perché le insoddisfazioni sociali, la partecipazione comunitaria, che nel secolo scorso erano espresse dalle ideologie marxista o nazionalista, si sono incanalate sui percorsi religiosi assumendone i rituali e i linguaggi.

Il bisogno di sicurezze, di valori “autentici”, in un’epoca così confusa e incerta ha ritrovato nella religione un punto di riferimento. E’ una tendenza che le lobby economiche incoraggiano, sostengono, e soprattutto controllano. Perché la religione appunto è diventata il cemento ideologico che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, assunti a ideologia che configura la lotta politica dentro e fuori gli Stati Uniti, com’è accaduto con la primavera araba tramata e gestita da Washington. Non è possibile che tutto questo possa accadere senza il beneplacito dei lobbisti dai quali dipendono le sorti dell’economia mondiale.

Infatti in questo scenario, i grandi media giocano una parte sostanziale alimentando una certa immagine collettiva del mondo musulmano, diffondendo la convinzione che, con il termine “musulmano” si possa definire per intero la cultura di un Paese. Non si specifica che l’Islam è invece soltanto una delle diverse componenti che costituiscono l’universo culturale di una nazione.

Tutti i musulmani hanno la barba lunga, tutti aiutano i terroristi, tutte le donne portano il velo. Essere musulmani vuol dire essere tutto questo secondo l’identikit che tuttora viene diffuso dai grandi mezzi di comunicazione di massa. Ricorderete le immagini delle televisioni di tutto il mondo dopo la cacciata del regime dei talebani a Kabul. E i commenti che accompagnavano quelle immagini. «Ora gli afghani si potranno tagliare la barba e le donne togliere il burqa».

E’ trascorso un decennio, ma nessuno finora ha spiegato perché gli afghani la barba non se la sono tagliata e perché le donne non si sono tolte il burqa. E’ un esempio tra i tanti che conferma come, in fatto di conoscenza reciproca, pochissimi passi siano stati compiuti.

Ne sono la riprova le immagini di Youtube di qualche giorno fa che mostrano i quattro marine americani mentre urinano, sghignazzando, sui cadaveri di tre talebani nell'Afghanistan meridionale. Stando così le cose meglio si capisce perché gli USA non sono più in grado di sostenere il “Washington Consensus” facendo affidamento sui soli strumenti politici ed economici, come accadeva quando il mondo era diviso in due blocchi.

Oggi per «sostenere la preminenza globale degli Stati Uniti nella difesa del XXI secolo» , si deve «mantenere la superiorità militare globale». L’ha annunciato al mondo (5 gennaio 2012) il presidente Obama con un documento di otto pagine nel quale definisce conclusa l’epoca delle guerre di lunga durata, annuncia il potenziamento delle flotte di droni (i velivoli che non hanno bisogno di pilota), rassicura gli americani sulla superiorità tecnologica degli Stati Uniti grazie alla sicurezza informatica di cui essi godono.

Tuttavia, benché lo abbia più volte ribadito annunciando la fine delle “guerre lunghe”, la distanza di Obama dalla politica dell’éra Bush-Cheney, dalla visione del Medio Oriente e del mondo musulmano, non si discosta da quella del suo predecessore. Poiché continua ad essere visto - s’è detto - come un mondo incapace di evolversi,  imprigionato nelle regole imposte da una religione che ostacola il processo di democratizzazione (concepita dagli americani) come l'unico rimedio possibile per realizzare la emancipazione delle società islamiche.

Pertanto diventa significativo l’intervento del generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore delle forze armate, quando ammette il suo disagio se alcuni paesi «possono vederci come una nazione decadente, o anche come militarmente in rovina, perché nulla è più lontano dalla verità». (Robert Burns, AP, 5 gennaio).

Evidentemente qualche dubbio il generale ce l’ha, assieme alla convinzione che anche l’Amministrazione Obama abbia fallito in Medio Oriente e nel Golfo Persico, e che di conseguenza il sostegno alla politica di aggressione americana venga rimesso in discussione.

Del resto le lobby che controllano l’economia globale ignorano le sottigliezze degli analisti, si limitano a constatare l’efficacia delle azioni senza porsi angosciosi quesiti sui conflitti religiosi e la loro influenza sulle politiche internazionali.

Oggi, l’unico dato certo è che l'intera operazione americana in Iraq, dal marzo del 2003 al dicembre 2011, ha reso tutta la regione molto più instabile di quanto lo fosse alla vigilia del conflitto. E’ questa la sola verità su cui non c’è ombra di dubbio che inquieta le lobby. Dipende molto da essa se un’altra guerra l’America la potrà fare, oppure no.

 

di Michele Paris

Come annunciato da qualche settimana, l’Unione Europea nella giornata di lunedì ha approvato un embargo totale sulle importazioni di petrolio dall’Iran che entrerà pienamente in vigore tra qualche mese. Le misure adottate nel corso di un summit dei 27 paesi membri a Bruxelles fanno seguito alle sanzioni già approvate dall’amministrazione Obama il 31 dicembre scorso e, oltre a rappresentare un chiaro atto di guerra economica contro Teheran, rischiano di aggravare ulteriormente le tensioni che nel Golfo Persico hanno già raggiunto un pericoloso livello di guardia.

Come se non bastasse, l’iniziativa UE potrebbe anche mettere a repentaglio la sicurezza energetica di alcuni paesi europei - favorendo gli interessi degli Stati Uniti, che non importano greggio dall’Iran - e far lievitare ancor di più il prezzo dei carburanti.

Il provvedimento dell’Unione Europea proibisce con effetto immediato la stipula di qualsiasi nuovo contratto petrolifero con la Repubblica Islamica, mentre quelli già in essere dovranno terminare entro il primo luglio. Il primo maggio, invece, si terrà un nuovo vertice per verificare l’impatto delle sanzioni, soprattutto su quei paesi, come Italia, Spagna e Grecia, maggiormente dipendenti dal greggio iraniano.

Oltre al divieto di importare petrolio e altri prodotti petrolchimici da Teheran, il pacchetto appena approvato include anche il congelamento sia delle esportazioni di equipaggiamenti tecnologici che degli investimenti nel settore energetico iraniano.

I governi UE hanno preso di mira anche il settore finanziario, bloccando i beni della Banca Centrale iraniana in Europa. Tuttavia, rimarranno alcune eccezioni che consentiranno alcuni scambi commerciali ritenuti legittimi.

Durante il 2011, l’Unione Europea nel suo complesso ha acquistato quasi un quinto delle esportazioni di petrolio dell’Iran. Secondo i dati del governo americano, nel 2010 è stata l’Italia il primo importatore di greggio iraniano, con il 10% del totale esportato da Teheran. Per far fronte alla scomparsa del petrolio proveniente dall’Iran e diretto all’Europa, sembrano essere in corso trattative per reperire nuove forniture, in particolare con i governi di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait, ma anche Iraq, Libia e Ghana.

Nonostante tra i paesi più penalizzati dall’embargo ci sia proprio l’Italia, il ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha espresso soddisfazione per le nuove sanzioni, assicurando che il governo sta cercando di differenziare le forniture di petrolio, rivolgendosi ad altri paesi come la Libia. Riecheggiando la consueta retorica americana e statunitense, l’ex ambasciatore italiano a Washington ha inoltre ribadito che nei confronti dell’Iran “l’uso della forza è un’opzione che rimane sul tavolo”, anche se “le sanzioni stanno funzionando”.

Aldilà delle rassicurazioni del ministro, le conseguenze per l’Italia potrebbero essere tutt’altro che trascurabili. Un articolo di Roberto Bongiorni sul Sole24Ore afferma, ad esempio, che “ci sono impianti di raffinazione in Italia capaci di processare quasi solo il tipo di greggio proveniente dall’Iran”. “L’impatto ci sarà”, spiega poi Pietro De Simone, direttore dell’Unione petrolifera italiana, “sui prezzi del greggio, su quelli dei prodotti raffinati e sulle raffinerie già in difficoltà”.

Per quanto riguarda invece la diversificazione delle forniture, avverte Dario Scaffardi, direttore generale della compagnia di raffinazione Saras, “non è un’operazione che si fa su due piedi” e soprattutto potrebbe causare un aumento consistente dei costi.

Dal momento che le esportazioni di petrolio rappresentano la principale fonte di entrate per il governo iraniano, l’impatto delle nuove sanzioni su Teheran potrebbe avere un qualche peso. Solo negli ultimi giorni la moneta locale (Rial) ha fatto registrare una discesa del 14% nei confronti del dollaro USA.

Secondo il Dipartimento del Tesoro americano, dal settembre scorso il Rial ha perso addirittura il 70% del proprio valore, causando una vertiginosa impennata del livello d’inflazione nel paese.

L’export del greggio iraniano, in ogni caso, è diretto in gran parte verso l’Asia, dove le reazioni alle misure imposte da Stati Uniti e UE sono state tutt’al più improntate alla cautela. Nel 2010, la Cina ha ricevuto il 20% delle esportazioni iraniane di petrolio, il Giappone il 17%, l’India il 16% e la Corea del Sud il 9%. Mentre Giappone e Corea del Sud, alleati di Washington, hanno mostrato molti dubbi di fronte alle richieste americane di ridurre le forniture di greggio dall’Iran, Cina e India hanno respinto fermamente le sanzioni contro Teheran.

Nel promuovere l’implementazione dell’embargo, i leader europei hanno ancora una volta mostrato tutta l’ipocrisia che contraddistingue la politica occidentale verso la Repubblica Islamica e il suo programma nucleare. Ad esprimere le motivazioni ufficiali della mossa UE è stato, tra gli altri, il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, il quale ha affermato che “per evitare qualsiasi soluzione militare, che avrebbe conseguenze irreparabili, abbiamo deciso di procedere con ulteriori sanzioni” nei confronti dell’Iran, al quale si chiede di “accettare il dialogo che proponiamo”.

In realtà, la disponibilità a far ripartire i negoziati sul nucleare è stata più volte manifestata da Teheran in questi anni ma ha sempre incontrato il netto rifiuto degli USA e dell’Europa, i quali hanno sempre posto vincoli inaccettabili al governo iraniano. Solo per riaprire le discussioni, l’Iran dovrebbe in sostanza sottomettersi completamente ai diktat occidentali, sospendendo incondizionatamente il proprio programma di arricchimento dell’uranio, per il quale non è stata finora presentata alcuna prova credibile che sia indirizzato alla costruzione di un ordigno nucleare.

Alle dichiarazioni di Juppé ha fatto seguito una nota congiunta del primo ministro britannico, David Cameron, del cancelliere tedesco, Angela Merkel, e del presidente francese, Nicolas Sarkozy, i quali hanno salutato “un pacchetto di sanzioni senza precedenti contro l’Iran”, colpevole di aver trascurato i propri obblighi internazionali e di aver “esportato la violenza nella regione”. Dichiarazioni simili nascondono a malapena il cinismo di questi governi, i quali, quanto meno, appoggiano le operazioni più o meno segrete condotte in Iran dai servizi segreti americani e israeliani e che hanno portato, tra l’altro, all’assassinio mirato di svariati scienziati iraniani negli ultimi anni.

Queste azioni, così come le sanzioni economiche, fanno parte di una strategia ben precisa per indebolire il regime di Teheran e, possibilmente, provocare una reazione che possa giustificare un intervento armato da parte di Stati Uniti o Israele. Proprio da Washington, negli ultimi giorni sono giunte altre provocazioni verso l’Iran.

Il Pentagono ha infatti rafforzato la presenza di portaerei americane nelle vicinanze del Golfo Persico e domenica scorsa la USS Abraham Lincoln, scortata da navi da guerra francesi e britanniche, ha attraversato lo Stretto di Hormuz, una manovra che gli iraniani avevano intimato di non eseguire solo pochi giorni prima.

Sempre lunedì, inoltre, l’amministrazione Obama ha imposto sanzioni sulla Banca Tejarat, il terzo istituto finanziario iraniano e il ventitreesimo a finire sulla lista nera del Dipartimento del Tesoro. Per Washington, la misura chiude uno dei pochi canali rimasti all’Iran di accedere al sistema finanziario internazionale.

In precedenza, delegazioni diplomatiche americane erano state inviate in varie capitali, soprattutto asiatiche, per cercare collaborazione in funzione anti-iraniana. Un articolo di lunedì scorso del Wall Street Journal, infine, ha rivelato come gli USA stiano facendo pressioni anche su compagnie private e governi africani per convincerli a sospendere partnership commerciali e investimenti in Iran. L’iniziativa sembra avere avuto per ora qualche successo con compagnie del Sudafrica e dell’Angola.

I toni di sfida comprensibilmente riservati dal governo iraniano per le misure punitive di Washington sono stati ribaditi anche lunedì per quelle dell’UE. La reazione ufficiale è arrivata dal portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Ramin Mehmanparast, per il quale le sanzioni approvate a Bruxelles sono “ingiuste e destinate a fallire”.

Queste ultime sono state accolte negativamente anche da Cina e Russia, ferme nelle loro intenzioni di continuare a fare affari con Teheran. Lunedì il ministero degli Esteri di Mosca ha perciò espresso “dispiacere e allarme” per le sanzioni europee, definendole “un tentativo di strangolare un intero settore dell’economia iraniana”. Per la Russia, “è chiaro che questo genere di pressioni e questi diktat rappresentano un errore”, poiché in nessun modo convinceranno “l’Iran a fare concessioni o a cambiare la propria politica”.

di Michele Paris

Al termine del summit andato in scena domenica al Cairo per fare il punto sulla situazione della propria missione in Siria, la Lega Araba ha approvato una nuova improbabile proposta per cercare di risolvere la crisi in corso nel paese mediorientale. La soluzione promossa da un’organizzazione panaraba profondamente divisa al proprio interno include le dimissioni del presidente siriano, Bashar al-Assad, il trasferimento dei poteri ad un suo vice e l’avvio di negoziati per giungere ad una transizione pacifica. Le scadenze indicate dalla Lega Araba prevedono la formazione di un governo di unità nazionale entro sessanta giorni ed elezioni entro cinque mesi per scegliere l’assemblea incaricata di scrivere una nuova costituzione.

In un clima sempre più teso e con un paese sull’orlo della guerra civile, la proposta della Lega Araba non ha praticamente nessuna possibilità di essere accettata a Damasco, anche se è stata ovviamente salutata positivamente dai rappresentanti del cosiddetto Consiglio Nazionale Siriano presenti nella capitale egiziana. Il CNS ha comunque confermato che non intende aprire trattative con Assad finché il presidente non lascerà il potere. Il governo siriano, da parte sua, ha già respinto la proposta. Un esponente del regime, citato dall’agenzia di stampa ufficiale SANA, ha bollato il piano stilato al Cairo come una chiara violazione della sovranità della Siria.

Dietro alla nuova road map della Lega Araba ci sono soprattutto le monarchie del Golfo alleate degli Stati Uniti e, in particolare, l’attivissimo regime del Qatar. È stato infatti il ministro degli Esteri del piccolo emirato, Sheikh Hamad bin Jassim al-Thani, a spiegare alla stampa internazionale il contenuto della proposta. “Abbiamo chiesto al regime siriano di farsi da parte e cedere il potere”, ha dichiarato alla Reuters al-Thani, il quale ha poi fatto appello al pretesto di difendere i diritti democratici delle masse arabe - come già era avvenuto in Libia per rovesciare Gheddafi - affermando che la Lega Araba sta “con il popolo siriano e sostiene le sue aspirazioni”.

La proposta in questione è stata paragonata dai media di mezzo mondo a quella adottata in Yemen e che sembra essere in fase di implementazione in queste settimane. Quest’ultimo accordo tra il regime e l’opposizione ufficiale prevede l’abbandono del potere da parte del presidente, Ali Abdullah Saleh, la sua sostituzione con il vice-presidente e nuove elezioni entro la fine di febbraio. Al presidente Saleh, in viaggio verso gli Stati Uniti proprio in queste ore per ricevere cure mediche presso un ospedale newyorchese, è stata inoltre garantita la totale immunità da eventuali incriminazioni per aver represso nel sangue le proteste in corso nel suo paese.

Le due proposte, sebbene siano state promosse dalle stesse monarchie assolute del Golfo che garantiscono gli interessi americani in Medio Oriente, hanno in realtà diverse finalità strategiche. Mentre in Yemen l’obiettivo è quello di sacrificare Saleh per mantenere in vita un regime invariato nella sostanza e che continui a garantire la partnership con Washington, in Siria si tratterebbe di rimuovere un presidente sgradito all’Occidente - per il quale, com’è ovvio, non si parla di alcuna immunità - così da spianare la strada verso il potere ad un’opposizione legata a doppio filo con l’Occidente e ai regimi sunniti della regione, possibilmente cercando un accomodamento con quei membri del regime di Damasco pronti a scaricare Assad. Ciò che accomuna le due proposte, nonostante la retorica, è invece il totale disinteresse per le aspirazioni dei popoli yemenita e siriano nel cui nome si sostiene di agire.

La risoluzione partorita domenica al Cairo, oltre a rappresentare un altro modo per puntare il dito contro il regime siriano per non aver accettato una proposta che rappresenterebbe un suicidio, è in ogni caso un compromesso, dal momento che i paesi del Golfo chiedevano misure più incisive contro Assad.

L’Arabia Saudita ha infatti annunciato nella giornata di domenica il ritiro dei propri osservatori che fanno parte della missione lanciata dalla Lega in Siria il 26 dicembre scorso. Lo stesso ministro degli Esteri del Qatar, a sua volta, in un’intervista diffusa qualche giorno fa aveva prospettato per la prima volta l’ipotesi di impiegare soldati dei paesi arabi in Siria.

La sorte della missione era stata affrontata in precedenza dal summit della Lega Araba, in apertura del quale il capo degli osservatori, il generale sudanese Mohammed Ahmed Mustafa al-Dabi, aveva descritto qualche miglioramento della situazione in Siria e chiesto un rafforzamento del suo mandato.

Anche la stessa Lega, nonostante le richieste di alcuni paesi di richiamare gli osservatori, ha alla fine ammesso qualche piccolo passo avanti, decidendo di prolungare la missione per un altro mese perché Damasco non ha ancora implementato tutte le misure a cui aveva dato l’OK nel mese di dicembre (ritiro delle forze armate dalle città assediate, liberazione dei prigionieri politici, avvio di un dialogo con l’opposizione).

Il rapporto di al-Dabi e la decisione della Lega sul prolungamento della missione sono stati al contrario criticati dal Consiglio Nazionale Siriano, il quale già sabato aveva chiesto di rimettere la soluzione della crisi nelle mani del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questo tentativo è appoggiato anche dai paesi del Golfo, dagli USA e dai loro alleati in Occidente, poiché rappresenterebbe il primo passo verso una soluzione simile a quella libica, dove l’aggressione militare della NATO era stata resa possibile grazie alla manipolazione di una risoluzione dello stesso Consiglio di Sicurezza nel marzo 2011.

Negli ultimi giorni, intanto, alcuni segnali provenienti dalla Siria sembrano indicare un’espansione delle operazioni condotte dall’opposizione, finanziata e armata da quegli stessi paesi vicini che chiedono ad Assad di fermare le violenze. Almeno secondo i resoconti delle varie organizzazioni vicine all’opposizione, ad esempio, la città di Zabadani sarebbe finita sotto il controllo dei ribelli e risulterebbe temporaneamente pacificata in seguito ad un cessate il fuoco siglato con le forze del regime. A Douma, poi, dopo aspri scontri armati, domenica scorsa i soldati che hanno defezionato avrebbero conquistato per alcune ore il controllo di alcuni quartieri della città situata a pochi chilometri da Damasco

Le pressioni esterne sul governo siriano hanno fatto segnare infine un altro passo avanti nella giornata di lunedì, quando l’Unione Europea ha annunciato nuove sanzioni che andranno a colpire altri 22 membri del governo Assad. In questo scenario, le tensioni prodotte dalla crisi siriana rischiano di innescare un conflitto che potrebbe coinvolgere le potenze minacciate dallo sconvolgimento degli equilibri mediorientali causato dall’eventuale caduta di Assad, a cominciare dalla Russia.

Che il Cremlino sia determinato a resistere sanzioni ONU e interventi militari contro Damasco appare chiaro anche dall’appoggio che continua a garantire all’alleato siriano. A confermarlo è stata, tra l’altro, una recente rivelazione apparsa sul quotidiano russo Kommersant, secondo il quale Mosca avrebbe appena stipulato un contratto da 550 milioni di dollari con il regime di Assad per la fornitura alla Siria di 16 aerei da guerra Yakovlev Yak-130.

di Alessandro Iacuelli

Il titolo dell'intervista al giornale tedesco Bild era certamente una provocazione: “Orban, Lei é una cattiva persona?” Fatto sta che la risposta del premier ungherese è stata: “L'Ungheria è e resta democratica. Noi siamo un paese di combattenti per la libertà. Io rivendico questa tradizione. Combatteremo aspramente chi non ci riconosce di volere la democrazia e lo stato di diritto''.

Se queste sono le parole pubblicate in Germania, non sono affatto somiglianti a quelle che raccoglie in patria, dove il giornale liberarl Nepszabadsag, riferendosi al dibattito infuocato al Parlamento europeo sulla politica del governo ungherese, scrive: “Dopo aver spaccato la società ungherese, istigando l’odio, il premier conservatore Viktor Orban è riuscito ieri a spaccare anche l’Europa”.

L’Europarlamento infatti continuerà a monitorare l’Ungheria, e non sarebbe esclusa nemmeno una procedura per l’infrazione dell’art.7 del Trattato dell’Ue per mancato rispetto dei valori fondamentali, con tutte le relative sanzioni non solo economiche ma anche politiche annesse. Dal conto suo Orban continua la sua recita di fronte al suo popolo, interpretando il ruolo del “difensore” dell’Ungheria dai suoi nemici esterni, e minimizza la portata delle critiche che sono piovute contro i suoi cambiamenti costituzionali.

Di procedure d'infrazione contro Budapest, a Bruxelles ce ne sono già tre, tutte per le leggi varate di Orban. Una riguarda l’indipendenza della Banca centrale, una seconda quella dell’età pensionabile dei giudici e la terza è quella sull’indipendenza dell’Autorità per la privacy. La portavoce dell’esecutivo UE, Pia Ahrenkilde, ha ribadito che sussisterebbero dei problemi costituzionali nella legislazione che la Commissione sta esaminando e che andrebbero ben aldilà delle norme transitorie, contraddicendo quindi quanto dichiarato dal premier Orban, che aveva cercato di minimizzare la portata della vicenda.

Nei prossimi giorni, già a partire da lunedì, sono previsti alcuni incontri tra il commissario agli Affari economici e monetari Olli Rehn e il capo negoziatore ungherese per la richiesta di assistenza finanziaria, Tamas Fellegi. Rehn aveva già in passato sottolineato come la modifica della legislazione ungherese sulla Banca centrale nazionale, che ne mette in dubbio l’indipendenza, sarebbe una “precondizione necessaria” per avviare discussioni sull’apertura di una linea di credito con il Fmi. Dulcis in fundo, l’Ue comincerà nei prossimi giorni anche la procedura per deficit eccessivo contro Budapest, che secondo Bruxelles non avrebbe fatto sin qui assolutamente nulla per ridurre il disavanzo pubblico.

All’interno del disegno autoritario di Orban c'è l’inclusione nella Carta Costituzionale di disposizioni sui temi etici (come l’aborto) e la riduzione della libertà di stampa. Il che causa il timore che le misure adottate dal governo populista e conservatore dell'Ungheria possano in qualche modo essere imitate altrove, in Europa.

Del resto Orban per alcuni movimenti neofascisti, anche italiani, è già un eroe senza macchia, rappresentando colui che ha sfidato i potentati dell’Ue per proteggere il suo popolo. Peccato che nemmeno il popolo magiaro sembra appoggiare Orban in modo incondizionato, come dimostrato dall’oceanica manifestazione indetta contro di lui dalle forze democratiche del paese nei giorni scorsi. E anche i sondaggi non lo premiano: stando agli istituti di ricerca, se si votasse ora Orban non arriverebbe al 25% dei voti.

In risposta ai timori, alle lamentele ed alle procedure d’infrazione di Bruxelles, in queste ultime ore è apparsa la possibilità che l’Ungheria si pieghi ai voleri dell’Ue. Infatti, Viktor Orban si è detto certo di poter raggiungere un accordo sulle controversie con l’Ue e sui procedimenti d’infrazione avviati dall’Unione nell’incontro che avrà martedì prossimo a Bruxelles con il presidente della commissione José Manuel Barroso.

Il primo ministro magiaro ha dichiarato, in un’intervista alla radio pubblica magiara MR1-Kossuth, di sperare di raggiungere un “accordo politico” con Barroso che spiani la strada a nuovi finanziamenti comunitari. Il governo ungherese da parte sua intende abbandonare il progetto di prevista fusione tra banca centrale e “Pszaf”, autorità di vigilanza dei mercati finanziari, duramente criticato dall’esecutivo comunitario, che ha annunciato martedì scorso un’azione legale contro Budapest.

Viktor Orban sembra aver fatto il passo più lungo della gamba ed ora pare voler procedere a fare di gran carriera un passo indietro nello scontro legale con l'Unione europea, affermando che il suo governo è pronto a cambiare le leggi che non piacciono all'Ue, anche se non è convinto delle obiezioni. D'altronde, l'Ungheria sta cercando di ottenere il sostegno finanziario di Europa e Fondo monetario internazionale, che hanno sollevato forti dubbi sulle nuove leggi, viste come una limitazione all'indipendenza della banca centrale. E quando si ha bisogno smodato di soldi, è bene non irritare chi dovrebbe prestarli.

Viktor Orban e il suo partito, il Fidesz, hanno in mano il Parlamento grazie alla schiacciante vittoria elettorale dell’aprile 2010, e poco alla volta hanno esteso il loro controllo sulle istituzioni democratiche, approvando leggi il cui scopo ultimo è farli restare al potere per i decenni a venire. Creando anche un pericolosissimo “precedente: la trasformazione di un paese membro dell’Unione europea in un regime sempre più autoritario.

di Michele Paris

Al termine di una settimana che ha sconvolto gli equilibri nella corsa alla nomination repubblicana, l’ex speaker della Camera dei Rappresentanti, Newt Gingrich, ha conquistato una netta vittoria nelle terze primarie dell’anno, riaprendo inaspettatamente una competizione che sembrava ormai chiusa dopo il voto del New Hampshire.

In Carolina del Sud, Gingrich ha staccato il favoritissimo Mitt Romney e la sorpresa dei caucus dell’Iowa, Rick Santorum, capitalizzando i consensi degli evangelici e dei conservatori, più che mai decisivi per l’assegnazione dei delegati in palio nel primo appuntamento elettorale nel sud degli Stati Uniti.

La campagna di Gingrich per la Casa Bianca è stata dunque resuscitata sabato almeno per la seconda volta a partire dallo scorso anno. Dato per finito in partenza, l’ex leader repubblicano di maggioranza negli anni Novanta era stato protagonista di un imprevisto recupero nei sondaggi, per poi finire vittima del fuoco incrociato dei rivali che fin dalla vigilia delle primarie lo avevano bersagliato con un’ondata di messaggi televisivi negativi.

A fermare l’ascesa di Gingrich in Carolina del Sud non sono riusciti, nell’ultima settimana, nemmeno un’intervista rilasciata alla ABC della sua seconda moglie, Marianne, la quale ha raccontato delle infedeltà del marito durante il loro matrimonio, né l’appoggio ufficiale dato a Rick Santorum dai leader evangelici americani nel corso di un meeting in Texas. Secondo i dati ufficiali, Newt Gingrich ha così ottenuto il 40,4% dei suffragi espressi, contro il 27,8% di Mitt Romney, il 17% di Santorum e il 13% del deputato libertario del Texas, Ron Paul.

Nella settimana precedente il voto in Carolina del Sud, il campo degli sfidanti in casa repubblicana si era ridotto a quattro. L’ex governatore dello Utah e già ambasciatore di Obama in Cina, John Huntsman, e il governatore del Texas, Rick Perry, avevano infatti abbandonato la corsa a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, contribuendo a veicolare una parte del voto moderato e conservatore sui candidati rimasti in gara.

Il risultato di sabato della Carolina del Sud potrebbe in realtà rappresentare solo un ostacolo temporaneo nel percorso verso la nomination di Romney, il quale rimane di gran lunga il candidato meglio finanziato e con l’organizzazione più solida in vista di una possibile sfida prolungata. Oltre al fatto che dal 1980 il vincitore delle primarie repubblicane in questo Stato ha sempre finito per conquistare la nomination, la vittoria di Gingrich può aver determinato una dinamica temuta dal team di Romney, cioè la convergenza del voto conservatore su un unico candidato, mettendo fine alle divisioni nell’ala destra del partito di cui aveva appunto beneficiato il miliardario mormone.

Anche se i sondaggi subito dopo le primarie del New Hampshire lo davano con un chiaro margine sui rivali in Carolina del Sud, Romney è andato incontro a una serie di contrattempi che hanno finito per essergli fatali in uno Stato nel quale l’elettorato repubblicano risultava già di per sé cauto nei confronti del suo messaggio relativamente moderato. A contribuire al suo declino sono stati poi altri fattori, a cominciare dall’agguerrita prestazione di Gingrich nei due dibattiti televisivi che hanno preceduto il voto.

Un paio di giorni prima, inoltre, il Partito Repubblicano dell’Iowa aveva rivelato che il riconteggio delle schede dei caucus del 3 gennaio aveva dato un risultato diverso, privando Romney della vittoria - inizialmente annunciata con un margine di appena otto voti - e consegnandola a Rick Santorum.

La retorica populista adottata dai rivali ha poi contribuito a dipingere Romney come un candidato lontano dai bisogni delle classi più disagiate. Pressato soprattutto da Gingrich a rivelare la propria dichiarazione dei redditi, Romney si è limitato a valutare attorno al 15% il carico fiscale gravante sulle sue entrate milionarie, mentre in un’altra occasione ha definito “non molto” il compenso ricevuto per i suoi discorsi pubblici nel corso del 2010 e pari a 374 mila dollari.

Con la sfida repubblicana almeno parzialmente riaperta, i candidati sposteranno ora la loro attenzione verso il prossimo appuntamento, previsto per il 31 gennaio in Florida, il primo grande Stato americano a tenere le primarie repubblicane. Qui, dove il mercato pubblicitario televisivo è estremamente costoso e dove lunedì andrà in scena un nuovo dibattito, si stanno già riversando svariati milioni di dollari, soprattutto delle Super PAC affiliate in maniera non ufficiale ai candidati, come quella di Romney che ha speso 4 milioni ancora prima dell’inizio ufficiale della campagna elettorale nello Stato. E anche qui, Gingrich sembra essersi portato avanti, grazie alla manifestazione tenuta alcuni giorni orsono a Miami dove la lobby cubanoamericana gestita dalla FNCA ha già promesso il suo sostegno in cambio delle promesse di "mano dura contro Cuba" offerte dall'ex speacker del Congresso. Un'ulteriore segno di una candidatura all'insegna del bellicismo reazionario che conferma l'indirizzo elettorale dei fan repubblicani.

Anche se sconfitti nettamente, Rick Santorum e Ron Paul hanno annunciato infine di voler rimanere in corsa. Se per il 76enne Paul il risultato negativo in Carolina del Sud era ampiamente previsto (il suo staff è già concentrato nelle primarie e caucus negli USA occidentali che seguiranno la Florida) Santorum sperava in una prestazione migliore dopo le notizie positive dei giorni precedenti. Lo spostamento dei voti conservatori verso Gingrich non preannuncia perciò nulla di buono per l’ex senatore della Pennsylvania, il quale oltretutto non può contare sulle finanze e sull’organizzazione dei suoi rivali.


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