- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le proteste che stanno attraversando la Siria da parecchi mesi, oltre a minacciare il regime di Bashar al-Assad, rischiano di infiammare la violenza settaria in un paese strategicamente cruciale per gli equilibri mediorientali. Con il ricercatore iraniano Maysam Behravesh abbiamo parlato della natura della rivolta, delle prospettive di sopravvivenza del regime di Damasco e delle implicazioni della crisi siriana per la stabilità dell’intera regione. Di stanza a Teheran, Behravesh scrive per la rivista di geopolitica e-International Relations (www.e-ir.info) e svolge attività di ricerca sulle relazioni tra l’Iran e l’Occidente e sulla politica mediorientale in genere.
Le proteste in Siria vengono descritte dai media occidentali come una rivoluzione democratica spontanea, mentre il regime di Assad insiste nel definirla una cospirazione orchestrata dall’estero nella quale gli estremisti islamici sunniti giocano un ruolo fondamentale. Qual è la sua opinione al riguardo?
La situazione in Siria è avvolta da un alone di ambiguità e complessità; in particolare ciò è dovuto al divieto imposto dal regime di Assad ai media stranieri di entrare nel paese. Ci sono resoconti conflittuali sulla rivolta che si susseguono pressoché quotidianamente: alcuni descrivono una rivoluzione popolare che intende dar vita ad un regime democratico, mentre altri mettono in guardia da una cospirazione straniera in atto contro il governo Ba’athista. A mio parere entrambe le tesi possono spiegare la natura dei disordini in Siria.
La posizione ufficiale di Damasco, secondo la quale la causa delle violenze è l’azione di gruppi sunniti Salafiti, terroristi e gang armate, è da respingere, anche se non appare del tutto falsa. Questo atteggiamento del governo è per lo più un modo di proiettare sulle potenze straniere il malcontento verso il regime e la sua reazione violenta alle proteste di piazza. Per quanto mi riguarda, non credo alla tesi che le migliaia di morti avvenute finora siano da attribuire unicamente a estremisti armati che prendono di mira i civili e le forze di sicurezza. Se così fosse, e l’azione del governo secondo la versione ufficiale, è rivolta soltanto a proteggere la popolazione dai terroristi, non si capisce perché ai giornalisti sia impedito di entrare nel paese per raccontare ciò che accade. Dopotutto, il regime non avrebbe nulla da temere se avesse la coscienza pulita.
Tutto ciò non significa, tuttavia, che estremisti sunniti sostenuti da potenze straniere non abbiano alcun ruolo nella rivolta o che quella in corso in Siria sia puramente una insurrezione democratica contro la tirannia. In effetti, la maggior parte dei regimi autoritari del Medio Oriente, in particolare Arabia Saudita e Giordania, hanno tutto l’interesse a veder crollare il regime di Assad e a rimpiazzarlo con un regime sunnita meglio disposto nei loro confronti. Come principale incubatore dell’estremismo islamico, infatti, Riyadh ospita ideologi Salafiti e Wahabiti i quali, con il sostegno del governo centrale, alimentano i sentimenti settari tra l’impoverita maggioranza sunnita delle città siriane, dove in larga misura stanno avendo luogo i disordini.
È sufficiente dare uno sguardo al network Al-Arabiya, finanziato dal governo saudita, per rendersi conto di come il re Abdullah e il suo entourage interpretino e desiderino rappresentare la crisi in Siria. I sauditi, d’altra parte, non hanno fatto mistero di aver inviato i propri soldati in Bahrain, e con ogni probabilità anche in Yemen per reprimere le rivolte democratiche, a riprova di come Riyadh cerchi di giocare un ruolo attivo per mantenere lo status quo laddove i suoi interessi sono minacciati dalle richieste di cambiamento.
La domanda più importante circa la crisi siriana è però la seguente: perché le principali città del paese come Aleppo e Damasco sono rimaste relativamente pacifiche? Perché non sono state teatro di massicce rivolte simili a quelle documentate in centri urbani più piccoli, come ad esempio Dar’a? Per rispondere a questo interrogativo, è necessario tenere presente che tra la popolazione siriana ci sono sia sostenitori che oppositori di Bashar al-Assad. Dare per scontato che i siriani siano pressoché totalmente ostili al regime, come stanno facendo in gran parte i media occidentali, porta ad una rappresentazione univoca della situazione nel paese.
A suo parere, è possibile che Assad riesca a rimanere al potere e, al di là della sorte del presidente e del suo regime, quale sarà il sistema politico siriano di qui a qualche mese?
È molto difficile prevedere le prospettive future del regime Ba’athista in Siria. Se Bashar al-Assad sopravvivrà alla rivolta o se sarà invece la rivolta a sopravvivere ad Assad dipenderà, a mio parere, da quanto il suo governo riuscirà a resistere, ad adattarsi e ad assorbire il cambiamento e la condivisione del potere. Una cosa è certa, in ogni caso: più il regime impiega metodi violenti contro i civili, più si espone all’instabilità e al caos. In un’atmosfera così esplosiva dal punto di vista emotivo e religioso, nella quale le rivalse trovano terreno fertile e le proteste tendono a radicalizzarsi, l’uso della violenza si imprime in maniera indelebile nelle menti dei manifestanti, spingendoli verso posizioni sempre più estreme. Questa dinamica è apparsa evidente in Libia e, sia pure a un livello inferiore, in Yemen. La violenza sistematica come risposta al dissenso pacifico può spingere il regime verso un punto di non ritorno.
In qualsiasi caso, Assad deve muoversi molto rapidamente nell’implementazione di riforme strutturali nel paese, così da consentire maggiore partecipazione politica, concedere libertà civili, aprire la strada al progresso economico, all’eguaglianza sociale, ecc. Tuttavia, tutto questo a mio parere non è ancora sufficiente. Assad dovrà soprattutto condividere il potere con la legittima opposizione nel paese, anche se non con i Salafiti sostenuti dall’Arabia Saudita, i quali considerano il sistema democratico come una blasfemia e che andrebbero al contrario contenuti.
Personalmente non sono ottimista riguardo la crisi in Siria e ritengo che questa crisi non potrà essere risolta a breve. Anche se la situazione tornerà alla normalità e l’ordine verrà ristabilito con la forza, la Siria non sarà più quella che era prima dell’inizio della rivolta, dal momento che il fuoco continuerà a covare sotto le ceneri. Il popolo non sarà più disposto a rinunciare al cambiamento, per questo il regime dovrà evolversi per evitare di essere rovesciato.
Dal momento che la Siria occupa una posizione strategica, come cambierebbe lo scenario del Medio Oriente se il regime di Assad dovesse crollare nel prossimo futuro?
La fine del regime di Assad provocherebbe dei cambiamenti molto importanti negli equilibri geopolitici mediorientali. Tutto quello che accade in Siria influisce infatti significativamente sulle altre potenze della regione. Tanto per cominciare, la posta in gioco è molto alta per l’Iran, poiché la Siria è il suo principale partner arabo e rappresenta inoltre il tramite con i movimenti di resistenza di Hezbollah in Libano e di Hamas in Palestina; ma anche per la Turchia, il vicino settentrionale preoccupato per le aspirazioni separatiste della minoranza curda in Siria nel caso si dovesse andare verso una guerra civile nella quale a dominare sarebbe l’instabilità; per l’Arabia Saudita, desiderosa di promuovere un regime sunnita a Damasco al posto di quello Alauita [un ramo dello Sciismo] di Assad, così da contenere la propria nemesi iraniana ed estendere la propria influenza nella regione; per Israele, che non aborrirebbe un Assad ulteriormente indebolito, più cauto e facilmente controllabile, come peraltro si è spesso già dimostrato nei confronti di Tel Aviv.
Anche per l’Iraq, infine, le implicazioni sarebbero notevoli, soprattutto in un momento in cui il governo è già in apprensione per il ritiro, sia pure non totale, delle forze armate americane dal proprio territorio. Con ogni probabilità, la caduta di Assad alimenterebbe i timori di un possibile contagio dell’instabilità e dei rigurgiti estremisti provenienti dal vicino occidentale.
Una Siria sconvolta dall’insicurezza e dall’anarchia si trasformerebbe probabilmente in un serbatoio di attività terroristiche con serie conseguenze per tutta la regione e non solo. In un tale scenario, la Siria potrebbe inoltre diventare un terreno di scontro tra le varie potenze regionali e internazionali - in parte come in Libano - che cercherebbero di far avanzare i rispettivi interessi nazionali in un paese così strategicamente significativo. In termini geopolitici, c’è dunque una grossa posta in palio e ciò contribuisce forse anche a spiegare perché i paesi emergenti BRICS [Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa] si oppongono alla politica interventista di Stati Uniti e Unione Europea per risolvere la crisi, prediligendo invece negoziazioni pacifiche che possano contribuire a mantenere lo status quo.
La Siria è il principale, per non dire l’unico, alleato dell’Iran nel mondo arabo. Alla luce di questa situazione, quali sono più precisamente le implicazioni della rivolta siriana per la Repubblica Islamica? Inoltre, come valuta le recenti dichiarazioni del presidente Ahmadinejad nelle quali ha chiesto ad Assad di porre fine alla repressione violenta e di avviare colloqui con l’opposizione?
Di fatto, la Siria è il solo partner strategico arabo dell’Iran nella regione. Ciò significa che la possibile perdita di Assad comporterebbe conseguenze enormi per la posizione della Repubblica Islamica sia a livello regionale che internazionale. Innanzitutto, l’Iran risulterebbe ancora più isolato in un ambiente relativamente ostile, dove paesi come Arabia Saudita, Israele, Giordania, Emirati Arabi - tutti alleati, in un modo o nell’altro, degli USA - giocano un ruolo di primo piano. Per Teheran, ciò significherebbe un maggiore isolamento strategico, minori spazi di manovra e maggiori pressioni per scendere a compromessi sulle questioni che toccano le proprie ambizioni nazionali.
In secondo luogo, il possibile collasso del regime di Assad priverebbe l’Iran di un sicuro e affidabile canale di comunicazione con Hezbollah in Libano e con Hamas a Gaza. Uno scenario simile comprometterebbe l’influenza e il controllo di Teheran su queste organizzazioni e, di conseguenza, il loro appoggio ai piani dell’Iran per riguadagnare una posizione di potere in Medio Oriente. Una simile evoluzione potrebbe anche spingere Hezbollah e Hamas a rivedere le loro strategie, fino ad assumere posizioni più indipendenti intorno alle questioni regionali di maggiore rilievo.
Le recenti dichiarazioni fatte dai leader politici iraniani e da alcuni membri del Parlamento (Majlis), i quali hanno più o meno apertamente criticato il regime Ba’athista chiedendo moderazione, dimostra la crescente preoccupazione di Teheran per la situazione in Siria e la progressiva presa di coscienza del prezzo da pagare, dal punto di visto morale, per l’appoggio ad Assad. Uno dei punti centrali su cui ha puntato la diplomazia iraniana nella regione, incoraggiata dall’esplosione delle rivolte popolari in Medio Oriente e in Africa Settentrionale (MENA), è stato precisamente lo sforzo di presentarsi come un soggetto rivoluzionario che sta dalla parte delle popolazioni oppresse.
L’appoggio incondizionato offerto dall’Iran a Damasco di fronte alla crescente brutalità con cui vengono affrontati i manifestanti e i civili, tuttavia, compromette questa strategia e complica il già difficile tentativo di conquistare “i cuori e le menti” delle popolazioni della regione. Il diverso atteggiamento di alcuni esponenti di spicco dell’establishment iraniano nei confronti del regime di Assad rivela anche le crescenti riserve e i dubbi che stanno affiorando circa le sue possibilità di sopravvivenza. In definitiva, ritengo che, viste le circostanze, nei rapporti con Damasco, franchezza e imparzialità sarebbero più utili agli interessi di Teheran.
Quali sarebbero infine le conseguenze della fine dell’era Assad per le altre potenze mediorientali, come Turchia, Israele e Arabia Saudita?
Come ho accennato in precedenza, la Turchia teme profondamente la destabilizzazione di una Siria che ospita un’ambiziosa minoranza curda alla ricerca di maggiore autonomia, così come suscita preoccupazioni ad Ankara la possibile degenerazione di un conflitto per le “sfere d’influenza” giocato a Damasco tra le potenze regionali e internazionali. Naturalmente la Turchia desidera piuttosto dei vicini stabili e sicuri ma, come potenza emergente con ambizioni di leadership nel mondo musulmano, non può rimanere in silenzio di fronte alle crescenti violenze messe in atto dal regime siriano contro i civili; questo è il motivo per cui Ankara ha protestato con forza per il modo in cui il governo di Assad sta fronteggiando la crisi interna.
Per quanto riguarda Israele, al contrario di quanto sostengono molti teorici della cospirazione in Medio Oriente, secondo i quali il caos in Siria sarebbe stato provocato dai sionisti per scardinare il movimento di resistenza nella regione, a mio parere Tel Aviv nutre delle forti riserve circa il rovesciamento del regime di Assad - il quale ha spesso dimostrato di essere sì un oppositore di Israele ma moderato, cauto e prudente - e la sua sostituzione con un nuovo governo.
La prudenza israeliana è dovuta alla grande incertezza che tuttora prevale sui contorni dell’eventuale futuro regime che potrebbe prendere il posto di quello guidato da Assad. Di certo Tel Aviv gradirebbe per la Siria un regime simile a quello saudita, cioè più tollerante e ben disposto verso la politica israeliana nella regione.
Tuttavia, quali saranno le conseguenze per Israele se in Siria dovesse emergere invece un governo come quello che ha preso il potere nell’Egitto post-Mubarak ? Oltretutto, a mio parere, quest’ultimo scenario appare il più probabile per la Siria nel caso l’attuale regime Ba’athista dovesse crollare.
È importante notare che la nascita a Damasco di un governo democratico, indipendente, anti-israeliano e filo-palestinese renderebbe Israele più vulnerabile che mai. Un simile nuovo governo in Siria potrebbe ad esempio non tollerare più l’occupazione israeliana delle Alture del Golan in maniera tutto sommato benevola come ha fatto finora Assad.
L’opposizione dell’Arabia Saudita ad Assad, infine, e i tentativi di alimentare i conflitti tra l’opposizione e il regime, come ho già detto, é largamente dettata dal desiderio di Riyadh di contenere il più potente rivale della regione, l’Iran, e di isolarlo, costringendolo in una posizione di debolezza.
Parallelamente, l’Arabia Saudita aspira a indebolire l’influenza sciita nella regione, esercitata in vari modi dalla Repubblica Islamica, dall’Iraq e, se vogliamo, dalla Siria e da Hezbollah. Quali vantaggi geopolitici potrebbe trarre Riyadh dalla caduta di Assad?
Un ruolo più influente nella regione, maggiore controllo del dissenso entro i propri confini, maggiore confidenza nel trattare con l’Occidente e una posizione di vantaggio nel mondo musulmano.
L’Arabia Saudita sarebbe in grado di prendere iniziative strategiche all’estero con maggiore intraprendenza, dal momento che le sarebbe garantita una certa stabilità e sicurezza all’interno. In definitiva, si tratta di una questione sia d’identità nazionale che di equilibri di potere nella regione.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Alessandro Iacuelli
Si avvicina la data della nuova invasione di gas russo in Europa settentrionale. Infatti il prossimo 8 novembre entrerà in funzione la prima pipeline facente parte di Nordstream, il gasdotto che collegherà direttamente la Russia alla Germania passando sotto il Mar Baltico. L’ha annunciato l'amministratore delegato di Gazprom, Alexey Miller, in un incontro con il premier Vladimir Putin nella sua residenza di Novo-Ogariovo, alle porte di Mosca. Già lo scorso 6 settembre, Putin aveva avviato la fase di test finale di Nordstream, iniettando il primo gas tecnico a Viborg, nella regione di S.Pietroburgo, alla presenza dell'ex cancelliere tedesco, ed ora presidente del consorzio Nordstream, Gerhard Schroeder.
Il gasdotto, lungo 1224 km, avrà a regime una capacità di 55 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La nuova infrastruttura consentirà alle forniture di metano russo destinato all'Europa di bypassare in parte gli attuali Paesi di transito, tra cui Bielorussia e Ucraina, con cui i rapporti sono spesso conflittuali in materia energetica, come dimostrano le varie "emergenze gas" degli scorsi anni.
Oltre alla messa in funzione di Nordstream, entro dicembre 2015 il progetto dell'altro grande gasdotto, Southstream, sarà completato e saranno effettuate le prime forniture di gas commerciale ai consumatori: lo ha confermato lo stesso Miller a Vladimir Putin. Per quanto riguarda Southstream, che interessa maggiormente l'Italia, lo scorso 16 settembre, a Soci, sul Mar Nero, è stato firmato l'accordo per la realizzazione del progetto: Gazprom ha mantenuto il 50%, Eni è scesa al 20% consentendo l'ingresso della francese Edf e della tedesca Wintershall, facente parte del gruppo Basf, ciascuna con il 15%.
Questa rapida accelerazione da parte di Gazprom, e non solo visto che si tratta di un'azienda facente capo non a gruppi privati ma direttamente al Governo russo, nei lavori delle grandi pipeline che forniscono l'Europa, è dovuto a due importanti fattori. Non solo commerciali, ma forse soprattutto politici. Tanto per cominciare, Gazprom ha assunto in Europa una posizione non solo predominante, sul mercato del gas, ma che per certi versi può già essere considerata monopolista. Questo ha indotto la Commissione Europea ad aprire un'indagine sulle attività in Europa del colosso nazionale del gas Gazprom. Indagine sfociata, la scorsa settimana, in alcune perquisizioni.
Le ispezioni europee negli uffici delle società del settore gas naturale in Europa, nel quadro di un'indagine che prende di mira soprattutto Gazprom, si sono svolte assolutamente a sorpresa. Il gruppo aveva rivelato di aver subito perquisizioni martedì scorso "in vari paesi europei", in particolare in Germania e in Repubblica Ceca. Secondo una fonte europea il gruppo russo è nel mirino di Bruxelles per sospetti accordi di spartizione dei mercati e di restrizioni territoriali, pratiche contrarie alle norme UE sulla concorrenza. Da parte europea, la Commissione si è limitata ad affermare in una nota che l'indagine è "su possibili pratiche anticoncorrenziali nella fornitura di gas naturale in Europa centrale e orientale".
Le perquisizioni, effettuate dalla direzione generale per la Concorrenza della Commissione europea negli uffici di alcune sue controllate in Europa sono state definite da Miller "una spiacevole sorpresa". Parlando con il premier Vladimir Putin, Miller ha assicurato che la società "è sempre stata e continua ad essere aperta al dialogo" e che "rispetterà pienamente i propri impegni contrattuali verso i partner europei in conformità ai contratti esistenti". L'AD del colosso del gas ha auspicato nello stesso tempo "il rispetto degli interessi legittimi di Gazprom", riservandosi di "tutelare i propri diritti nel campo giudirico".
Sull’argomento, Putin ha preferito ironizzare: "Spero che in Europa per i contratti con Gazprom non abbiano arrestato nessuno e non abbiano messo nessuno in prigione". In realtà il governo russo segue con molta attenzione l'indagine dell'UE sulle attività in Europa di Gazprom. Dopo l'ironia un po' in spirito berlusconiano, Putin ha aggiunto: "Il governo seguirà con molta attenzione tutto ciò che accade intorno a Gazprom. Vi chiedo di riferirmene tempestivamente. Dovete collaborare con le autorità dei paesi dove siete presenti, e dovete essere aperti, aiutare le autorità ispettive e fornire loro informazioni complete e imparziali".
In risposta ai controlli della UE, Gazprom tenta di difendere le quote di mercato in Europa centrale con grandi gasdotti che rendano vantaggioso il trasporto del metano dalla Russia. Ma c’è un secondo fronte ad impensierire il Cremlino ed è legato alla regione del Mediterraneo. La Turchia ha infatti deciso di non rinnovare il contratto sulla fornitura di gas russo di 6 miliardi di metri cubi di gas all'anno dopo che Gazprom, la principale compagnia di estrazione russa, ha rifiutato di applicare uno sconto del 20% richiesto da Ankara.
Lo ha reso noto Botas, la società pubblica turca di trasporto del gas, aggiungendo che da questo mese i prezzi del gas aumentano quasi del 15% a causa della moneta debole e degli aumenti dei prezzi sui mercati. Il gas per consumo domestico aumenterà fra il 12,3 e il 14,3%, quello per consumo industriale fra il 13,7 e il 14,3%. Il contratto disdetto era stato firmato nel 1986 e sarebbe scaduto a dicembre.
La Turchia ha invece detto no al rinnovo di altri 5 anni. Con la cancellazione la Turchia perde forniture per il 15% circa dei suoi consumi. Il ministro dell'Energia turco, Taner Yildiz, ha sottolineato che la decisione non avrà conseguenze sui rapporti fra i due Paesi. Ankara ha importato 18 miliardi di metri cubi dalla Russia lo scorso anno, il 60% dei consumi, per la maggior parte provenienti proprio dal South Stream. Non è ancora chiaro chi andrà a rimpiazzare Gazprom, anche se l'algerina Sonatrach appare al momento avvantaggiata sul mercato.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il Segretario alla Difesa statunitense, Leon Panetta, un paio di giorni fa ha lanciato un avvertimento al governo israeliano, mettendolo in guardia dal progressivo isolamento a cui è esposto nella regione mediorientale. Le dichiarazione del numero uno del Pentagono sono state rilasciate domenica ai giornalisti che lo accompagnavano a bordo di un aereo militare americano, diretto verso la prima destinazione di un tour che lo porterà a Tel Aviv, Il Cairo e Bruxelles. “È sufficientemente chiaro che in un momento così drammatico per il Medio Oriente, nel quale sono avvenuti parecchi cambiamenti, per Israele non è opportuno cadere in un progressivo isolamento, anche se ciò è quello che sta accadendo”, ha sostenuto Panetta.
L’ex direttore della CIA ha fatto riferimento alle relazioni sempre più complicate di Israele con gli ex alleati di ferro Turchia ed Egitto, così come agli effetti delle rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo dall’inizio dell’anno. Oltre a questi fattori, l’isolamento israeliano è dovuto in buona parte anche al continuo stallo nei negoziati di pace con i palestinesi e al tentativo di questi ultimi di vedersi riconosciuta dall’ONU una propria entità statale. Un’iniziativa bocciata non solo da Tel Aviv ma anche dal governo americano, a fronte dell’ampio sostegno raccolto invece tra le popolazioni arabe.
I rapporti con la Turchia si sono incrinati notevolmente dopo l’assalto del maggio 2010 delle forze di sicurezza israeliane ad un convoglio navale di attivisti turchi diretto a Gaza, conclusosi con nove vittime. Le tensioni sono poi aumentate recentemente in seguito alle conclusioni dell’indagine condotta dall’ONU sui fatti e che, pur giustificando il blocco israeliano di Gaza, ha condannato duramente il blitz.
Per quanto riguarda l’Egitto, il governo militare succeduto a Hosni Mubarak si sta mostrando più ostile nei confronti di Israele, assecondando almeno parzialmente i sentimenti della maggior parte della popolazione. Egitto e Israele sono tuttora legati da un trattato firmato nel 1979 tra il presidente Sadat e il premier Begin, in seguito agli accordi di Camp David dell’anno precedente. Un trattato fondamentale per la sicurezza israeliana e che il futuro governo civile egiziano potrebbe però rimettere in discussione.
A complicare la situazione tra Egitto e Israele è stato poi il recente assalto all’ambasciata di Tel Aviv al Cairo, dove manifestanti anti-israeliani sono stati fermati solo dopo aver fatto irruzione nell’edificio e minacciato il personale diplomatico. L’intervento delle forze di sicurezza egiziane era avvenuto su richiesta dello stesso Panetta, sollecitato dal ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak.
Dalle parole del capo del Pentagono, in ogni caso, traspare solo una velata critica nei confronti dell’alleato e delle politiche portate avanti dal suo governo. Per Panetta, infatti, sono in gran parte gli eventi della regione ad aver determinato un crescente isolamento di Israele, le cui gravi responsabilità sono ovviamente taciute. I suoi timori, inoltre, sono dettati dalla possibilità che il vento della primavera araba si propaghi anche nei territori palestinesi, alimentando ulteriore instabilità nella regione.
“Ci sono molti motivi di attrito in questo momento di grandi cambiamenti”, ha sostenuto il Segretario. “La cosa più importante per Israele e per i suoi vicini sarebbe provare a coltivare relazioni amichevoli, in modo che tra di loro, quanto meno, potrebbe esserci un dialogo invece di portare in piazza qualsiasi questione”.
Il messaggio lanciato da Panetta sembra rivelare inoltre una certa impazienza per l’atteggiamento di Tel Aviv sulla questione palestinese. L’amministrazione Obama, d’altra parte, ha dovuto investire parecchio del proprio capitale politico con l’annuncio del veto per bloccare la richiesta fatta al Consiglio di Sicurezza ONU da parte dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento del nuovo stato.
In questo senso una risposta da parte del governo Netanyahu è giunta proprio domenica, con l’accettazione della proposta dei mediatori internazionali di far ripartire immediatamente i negoziati di pace, dopo che le autorità palestinesi avevano a loro volta espresso parere favorevole. La ripresa dei colloqui appare comunque ancora ben lontana, dal momento che non si vedono all’orizzonte ipotesi percorribili per risolvere questioni cruciali come la cessazione delle costruzioni nei territori occupati e il riconoscimento di Israele come “stato ebraico”.
Il richiamo di Panetta a Israele, infine, può essere indicativo dei malumori che circolano anche ai massimi livelli dell’amministrazione Obama nei confronti di un alleato le cui politiche appaiono sempre più dannose per l’immagine e gli interessi statunitensi. Con la campagna per la rielezione alle porte, tuttavia, come dimostra il suo intervento all’Assemblea Generale dell’ONU, il presidente democratico sembra essere tutt’altro che disposto a provocare la reazione delle potenti lobbies israeliane negli USA facendo ulteriori pressioni sul governo Netanyahu.
La prima sosta del tour di Panetta prevede proprio Israele e un faccia a faccia con il premier, prima di incontrare Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ufficialmente per spingere le due parti a riprendere i negoziati di pace. Il Segretario alla Difesa americano farà poi tappa al Cairo, dove sarà ospite del capo della giunta militare al potere, Mohammed Hussein Tantawi, e successivamente a Bruxelles, presso il quartier generale della NATO.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuele Vandac
Sanguisughe che campano con il denaro dei contribuenti e distruggono l’economia: così definirebbero le banche d’affari molte delle settecento persone arrestate ieri a New York nel corso delle manifestazioni contro l’“ingordigia di Wall Street”. Segno che, mentre gli USA si apprestano ad affondare nella seconda crisi sistemica in quattro anni, la rabbia popolare tenta di prendere forma e di organizzarsi. Sfortunatamente, almeno all’inizio della mobilitazione “Occupiamo Wall Street”, i numeri non sono stati molto incoraggianti: il week end del 17 settembre, che ha dato la stura all’occupazione pacifica di Wall Street, non si sono viste a New York più di cinquemila persone, contro le 20.000 sulle quali si contava.
Non erano più di un migliaio secondo Bloomberg, ma questa è una fonte che tutto è fuorché indipendente, dato il suo doppio conflitto di interesse, essendo una delle principali agenzie di stampa finanziarie al mondo ed in più controllata dall’attuale Sindaco di New York (a proposito della finanza americana).
Il fine settimana successivo i manifestanti sono aumentati e si è registrato il primo incidente: un alto funzionario della Polizia, Antony Bologna, viene immortalato da una videocamera amatoriale mentre si diverte a spruzzare spray al peperoncino sulla faccia di alcuni manifestanti stretti su un marciapiedi da un cordone di poliziotti (in massima parte si trattava di “pericolosissime” ragazze in canottiera). Bologna è attualmente inquisito dagli Affari Interni, mentre il trattamento inutilmente violento della polizia non fa che aiutare il movimento e rafforzare la consapevolezza.
Sabato 1 ottobre, in prossimità del ponte di Brooklyn, migliaia di manifestanti si sono staccati dal gruppo con l’intenzione di occupare con la forza (a piedi) le corsie normalmente utilizzate dagli autoveicoli. La polizia sostiene di aver intimato ai manifestanti di desistere, incontrando la resistenza attiva degli oppositori delle banche, che avrebbero proseguito la loro marcia. I manifestanti, invece, sostengono che la polizia li abbia caricati con l’obiettivo di chiuderli in una sacca dove li attendevano migliaia di agenti. In ogni caso, sul ponte di Brooklyn vengono arrestate oltre 700 persone, tra cui una reporter del New York Times, la maggior parte delle quali rilasciate dopo qualche ora previa denuncia per interruzione di pubblico servizio.
Grazie all’escalation, la protesta ha finalmente ottenuto l’attenzione dei media: spiega infatti il sociologo Richard Meyer, esperto di movimenti sociali americani, che gli atti eclatanti come quelli che hanno animato la giornata di sabato rispondono alla domanda dei membri del movimento più esperti di tecniche mediatiche: “Come fare notizia senza passare dalla parte del torto?”. L’atteggiamento della polizia, così ben esemplificato dalla condotta di Antony Bologna e dagli arresti di massa, da questo punto di vista è stata una benedizione. Come spiega Shannon Deegan, informatica ventottenne in trasferta dalla mitica Seattle, il movimento ha compreso che, aldilà della frustrazione causata dall’(inevitabile) repressione, “gli arresti ci hanno dato visibilità: la gente ci sta guardando, comprende le nostre ragioni”.
In effetti duole constatare come l’occupazione più o meno simbolica di Wall Street non abbia scaldato particolarmente i cuori delle star (attori, musicisti, artisti), anche di quelle più liberal. A parte l’inevitabile Michael Moore e Susan Sarandon, che si sono fermati a farsi fare qualche foto ricordo con i ragazzi dello Zuccotti Park, non sono molti gli artisti che hanno prestato il loro corpo e la loro arte alla causa.
Sembra che le superstar si tengano nascoste in trincea proprio perché temono la reazione dell’establishment ad una possibile loro presa di posizione netta contro gli eccessi della “corporate & finance America”. Il che, per inciso, non fa che dimostrare quanto giusto e soprattutto necessario sia oggi falciare l’erba malvagia della speculazione finanziaria, che pretende di dettare legge su tutti gli aspetti della vita della gente, compresi quelli che attengono alla sfera culturale.
Tuttavia alcuni studiosi e sociologi rimangono scettici sul futuro di questo embrione di movimento: non v’è dubbio che, se si rafforzasse e assumesse una forma strutturata, potrebbe aiutare Obama alle elezioni dell’anno venturo. Anche se c’è chi come Terry Madonna, sondaggista e insegnante di scienze politiche al Franklin & Marshall College in Lancaster (Pennsylvania), ritiene che il cuore del dibattito politico continuerà ad essere l’economia: solo se la disoccupazione comincerà a calare, e salirà ad esempio la propensione al consumo, il tema della riforma del sistema finanziario americano potrà guadagnare importanza: prima di allora rischia di essere confinato sullo sfondo.
Se quanto sostiene il prof. Madonna fosse confermato, si avrebbe solo una prova in più di quanto siano abili gli spin doctor della finanza a far credere che le vere cause del (secondo) disastro dell’economia siano lontano dagli uffici degli sconsiderati e arroganti manager-parassiti di Wall Street.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Pessina
BERLINO. Parlamentari che, di lavoro, fanno solo politica: detta così potrebbe sembrare fantascienza, o piuttosto un’antiquata e logora utopia, eppure qualcuno comincia a crederci davvero, anche tra chi ha voce in capitolo. Secondo a quanto scrivono alcuni autorevoli quotidiani tedeschi, i socialdemocratici (SPD), una delle maggiori forze politiche in Germania, stanno valutando la possibilità di impedire qualsiasi attività professionale secondaria ai membri del Parlamento, in modo tale da garantire più qualità alla democrazia.
L’idea è del gruppo di lavoro “AG Demokratie”, composto da 16 membri SPD del Parlamento, ed è inserita in un contesto più ampio di proposte per raggiungere una reale trasparenza nella res politica. A pubblicare lo scritto formale di “AG Demokratie” è stato il quotidiano Die Welt qualche giorno fa: la mozione sarà presentata ufficialmente al congresso dei socialdemocratici 2011, per essere rivista e approvata, ed entrare così a far parte del programma politico SPD.
Il comitato di lavoro chiede innanzitutto la sospensione totale delle entrate secondarie dei parlamentari, così come delle attività remunerate e non, che possano intaccarne l’integrità politica. Nel centro del mirino, in particolare, la partecipazione dei politici a organi direttivi di comunicazione: impedire tali connessioni farebbe “crescere la libertà di critica” all’interno del Paese ed “eliminerebbe alla radice il problema dell’influenza impropria sui media”.
Altro pericolo per l’indipendenza delle decisioni politiche sono i finanziamenti ai partiti da parte di imprese, enti e associazioni varie: “AG Demokratie” chiede che tali sostegni vengano proibiti, o comunque regolati e monitorati pubblicamente. Va da sé che un partito sponsorizzato rischia di assoggettare gli interessi del cittadino alle possibilità economiche del gruppo economico che lo sostiene. A essere messe in discussione sono le pari opportunità dei vari gruppi di interesse, le cosiddette lobby: chi ha più soldi fa valere il proprio ascendente sulla politica grazie ai finanziamenti della stessa.
Ed è a questo proposito che i socialdemocratici vedono la necessità di stilare un “registro delle lobby”: per valutare meglio le mosse dei politici, i cittadini dovrebbero sapere chi finanzia chi. Un registro pubblico dei finanziamenti ai partiti e ai singoli politici renderebbe possibile a ogni singolo tedesco una comprensione più ampia della politica.
Per il momento rimangono comunque tutte proposte, in pratica solo chiacchiere, poiché i primi sviluppi concreti si vedranno eventualmente solo a dicembre, durante il congresso di partito SPD che dovrà rivedere e approvare formalmente lo scritto. Una riforma dell’ambito dei finanziamenti a politici e partiti tedeschi era già stata discussa a livello parlamentare ad aprile, ma non aveva portato nessun cambiamento effettivo: lo scritto di “AG Demokratie” va quindi a riaprire un dibattito che rischiava di essersi spento nei meandri della capricciosa estate berlinese.
Obbligo di trasparenza per le lobby, attività secondarie di politici e finanziamenti ai partiti sono temi che si trascurano facilmente, soprattutto quando chi governa conta fra i partiti maggiormente accusati di lobbysmo. Da ammirare i socialdemocratici, perché sanno sfruttare il loro ruolo all’opposizione: riaprire in maniera intelligente un dialogo politico caduto nel vuoto è forse il modo migliore per fare politica.
Tant’è vero che già numerosi gruppi politici stanno già organizzando le prime manifestazioni in questa direzione. “Perché l’esperienza insegna che non bastano le belle parole dei partiti“, spiegano dal sito lobbycontrol.de. “C’è sempre bisogno della presenza e della pressione pubblica, anche solo per fare qualche piccolo passo in avanti.”