di Michele Paris

Per la prima volta nella storia della Polonia post-comunista, domenica il partito di governo ha ottenuto una seconda vittoria consecutiva nelle elezioni politiche. Grazie al voto di ieri, il primo ministro Donald Tusk è stato così riconfermato alla guida del paese, nonostante il netto recupero fatto segnare alla vigilia dell’appuntamento elettorale dal partito del suo più agguerrito rivale nella destra polacca. Il risultati pressoché definitivi diffusi stamattina vedono il partito di centro-destra Piattaforma Civica (PO) di Tusk in vantaggio con circa il 39 per cento dei consensi, contro il 30 per cento di Diritto e Giustizia (PiS) del conservatore nazionalista Jaroslaw Kaczynski.

Questo risultato si traduce per PO nella conquista di 206 seggi sui 460 della camera bassa del Parlamento polacco (Sejm). I 30 seggi ottenuti dal partner di coalizione, il Partito Popolare Polacco (PSL), permetteranno a Tusk di contare su una comoda maggioranza. I risultati della camera alta (Senato) danno invece a Piattaforma Civica 62 seggi su 100.

In un voto dove l’astensionismo è stato attorno al 50 per cento, la sorpresa maggiore è stata l’affermazione di un nuovo partito d’ispirazione libertaria, il Movimento Palikot. Questo partito prende il nome dal suo fondatore, l’imprenditore miliardario ed ex parlamentare di PO, Janusz Palikot, che aveva condotto la propria campagna elettorale chiedendo diritti per gli omosessuali, legalizzazione dell’aborto e delle droghe leggere e una netta separazione tra Stato e Chiesa.

Il Movimento Palikot ha superato lo sbarramento del cinque per cento necessario ad ottenere una qualche rappresentanza in Parlamento, sfiorando il 10 per cento e diventando addirittura la terza forza nel panorama politico polacco. Giovani ed elettori di sinistra hanno preferito in buona parte questa nuova formazione, determinando il crollo della screditata Alleanza della Sinistra Democratica (SLD) - successore del Partito Comunista polacco, al governo dal 2001 al 2005 - scesa dal 13 per cento del 2007 all’8,2 per cento.

La crisi del debito negli ultimi mesi aveva consentito alla retorica populista e anti-europeista di Jaroslaw Kaczynski di allargare i consensi nel paese per il proprio partito di destra. Il gemello dell’ex presidente Lech Kaczynski - deceduto in un incidente aereo in Russia nell’aprile 2010 - aveva soprattutto manifestato un sentimento fortemente anti-tedesco e anti-russo, dichiarando la propria opposizione alla rotta economica seguita da Tusk. Primo ministro tra il 2006 e il 2007, il leader di PiS aveva tuttavia seguito sostanzialmente la stessa politica economica di stampo liberista dell’attuale premier.

Il successo di Donald Tusk ha fatto la felicità dei burocrati di Bruxelles e dei mercati finanziari che chiedevano stabilità in un momento di crisi per il paese che manterrà la presidenza dell’UE fino alla fine dell’anno. Il 54enne primo ministro, ex membro di Solidarnosc, ha promesso di continuare con la cauta riduzione del debito pubblico polacco e con il suo programma di privatizzazioni, così come proseguiranno gli sforzi di Varsavia per una maggiore integrazione con l’Europa e per entrare nell’Eurozona.

La Polonia, infatti, non ha ancora adottato la moneta unica e, secondo alcuni analisti, proprio per questo motivo avrebbe evitato la recessione dopo la crisi finanziaria del 2008. Il relativo successo economico avrebbe così permesso a Tusk di evitare le sconfitte che, solo nel 2011, hanno subito invece i partiti di governo in altri paesi come Irlanda, Portogallo, Danimarca e Lettonia.

Aldilà delle statistiche ufficiali, in ogni caso, ampi strati della popolazione polacca hanno subito un netto deterioramento delle loro condizioni di vita negli ultimi anni. Il tasso di disoccupazione rimane ben al di sopra del 9 per cento (quasi al 25 per cento tra i giovani), mentre il numero degli abitanti che vivono in condizioni di povertà è in evidente aumento.

A ciò vanno aggiunti gli effetti della politica economica del governo di Piattaforma Civica che ha ridotto drasticamente l’assistenza sociale, ha liberalizzato il mercato del lavoro con la riforma nel 2009 e ha proceduto a licenziamenti di massa nel settore pubblico. Il rapido peggioramento del quadro economico in Polonia sarà perciò la sfida principale di Tusk fin dall’inizio del suo secondo mandato alla guida del paese.

di Michele Paris

In seguito all’addio forzato alla carica di primo ministro nel giugno del 2007, Tony Blair ha intrapreso una carriera diplomatica di alto profilo sulla scena internazionale. Soprattutto, però, gli incarichi accumulati dopo aver lasciato la politica inglese gli hanno permesso di accumulare una fortuna enorme, spesso grazie a operazioni dalla dubbia legittimità. A svelare alcuni dei retroscena che hanno prodotto utili astronomici per l’ex leader laburista in questi anni è stato un documentario apparso pochi giorni fa su un’emittente britannica.

Il 26 settembre scorso, all’interno del programma Dispatches, il canale pubblico Channel Four ha messo in onda un’indagine di 47 minuti, in gran parte frutto del lavoro di Peter Oborne, giornalista del Daily Mail e del Daily Telegraph. Il documentario, dal titolo “Il meraviglioso mondo di Tony Blair”,  rivela come, dal 2007 ad oggi l’ex inquilino di Downing Street abbia incamerato qualcosa come 9 milioni di sterline (più di 10 milioni e 400 mila euro) soltanto in compensi per i suoi discorsi tenuti intorno al pianeta. Un unico intervento in Cina, ad esempio, ha fruttato a Blair 240 mila sterline.

Meno di un anno dopo le dimissioni da primo ministro, Blair è stato inoltre assunto come consulente dalla banca d’investimenti di Wall Street, JP Morgan, che gli versa annualmente almeno due milioni di sterline. L’ex premier, tra l’altro, risulta essere consulente anche del gigante elvetico delle assicurazioni Zurich Financial Services, con un compenso di 1,5 milioni di sterline annue.

Per promuovere ancor di più i propri interessi, nel gennaio del 2009 Blair ha poi creato una società internazionale di consulenza - in gran parte avvolta nel mistero - la Tony Blair Associates (TBA), con la quale ha ottenuto importanti contratti soprattutto in Medio Oriente, valutati in circa 14 milioni di sterline per i quasi tre anni di attività.

Le operazioni della TBA e la “consulenza” per JP Morgan s’incrociano con un altro incarico che ricopre Blair, quello di inviato speciale del cosiddetto “Quartetto” - formato da ONU, Stati Uniti, Unione Europea e Russia - teoricamente incaricato di promuovere negoziati di pace tra israeliani e palestinesi. Quest’ufficio non prevede compensi ma le spese connesse allo svolgimento del suo ruolo sono notevoli e in parte finanziate dai contribuenti britannici.

Secondo il documentario di Oborne sarebbero numerose le iniziative sospette di Blair. Una di queste riguarda il Kuwait, dove quest’ultimo gode di un certo prestigio grazie alla decisione di partecipare all’invasione dell’Iraq nel 2003. Tra i frequenti viaggi di Blair in Kuwait, il giornalista britannico ne cita uno del 26 gennaio 2009, ufficialmente in veste di “inviato di pace” per il Quartetto. In sua compagnia, in quell’occasione, c’era anche il capo di gabinetto ai tempi di Downing Street, Jonathan Powell, il quale nulla ha a che vedere con l’incarico mediorientale del suo ex principale ma è un consulente di primo piano della TBA.

In Kuwait a inizio 2009, Blair avrebbe concordato un contratto di consulenza, secondo il quale la TBA avrebbe provveduto ad una “revisione” dell’andamento economico dell’emirato. Dal momento che l’affare era stato gestito direttamente dall’ufficio personale dell’emiro, non è chiaro l’importo complessivo dell’accordo. Il Daily Telegraph, tuttavia, citando un attivista democratico kuwaitiano, sostiene che il contratto varrebbe almeno 27 milioni di sterline. La TBA ha smentito questa cifra, anche se non ne ha fornita una ufficiale.

Un’altra destinazione favorita dall’inviato Tony Blair è Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi, dove incontra frequentemente il principe ereditario, Mohammed bin Zayed al-Nahyan. La TBA fornisce servizi di consulenza per il fondo sovrano dello sceicco (Mubadala) in cambio di un compenso, secondo alcune fonti, di circa 1 milione di sterline all’anno.

Il serio conflitto d’interesse che deriva dalle attività di Blair appare ancora più evidente dagli sviluppi di due affari andati in porto grazie alla sua influenza in Israele e in Palestina. Il primo riguarda la sua promozione dello sfruttamento di un giacimento di gas naturale al largo della costa di Gaza, un’operazione da 6 miliardi di sterline, i cui diritti sono detenuti da British Gas Group. Tony Blair starebbe spingendo con le autorità israeliane per far revocare una norma che ne impedisce lo sfruttamento, a tutto vantaggio della compagnia britannica che risulta essere uno dei clienti più importanti di JP Morgan.

L’altro contratto mediato dall’ex primo ministro laburista riguarda invece il mercato delle frequenze telefoniche. In questo caso, il suo intervento ha permesso alla compagnia Wataniya Telecom di poter operare un servizio di telefonia mobile in Cisgiordania. Wataniya appartiene al gigante delle telecomunicazioni del Qatar, QTEL, anch’esso compreso nel portafoglio clienti di JP Morgan, da cui ha ottenuto un prestito di 2 miliardi di dollari per acquisire proprio Wataniya Telecom. Secondo il CEO di quest’ultima compagnia, intervistato da Oborne, la rete mobile realizzata in Cisgiordania era “morta”, fino al momento in cui la mediazione di Blair con i più influenti ministri israeliani ne ha alla fine permesso l’utilizzo delle frequenze.

Più in generale, il programma Dispatches ha cercato di fare luce sulla natura e l’utilità del Quartetto ai fini della pace in Medio Oriente. Il giudizio espresso da alcuni diplomatici citati appare tutt’altro che positivo. La sua attività appare più che altro come una cortina fumogena che serve quasi esclusivamente a proteggere gli interessi americani e israeliani in Palestina.

Il parere dei palestinesi su Tony Blair come “inviato di pace” è apparso d’altra parte chiaro in un’intervista trasmessa l’altro giorno da una radio locale, citata dal Daily Telegraph. Un esponente di spicco dell’Autorità Palestinese, Mohammed Shtayyeh, ha infatti annunciato che a breve verrà chiesto al Quartetto di riconsiderare la nomina di Blair, in quanto quest’ultimo dimostra pregiudizi a favore di Israele e perciò la sua credibilità è ormai del tutto compromessa. “Il nostro giudizio complessivo sui suoi sforzi è che non sono stati di nessuna utilità” ha affermato Shtayyeh.

Questa dichiarazione segue di una settimana le anticipazioni dello stesso quotidiano conservatore britannico, il quale aveva scritto che membri del governo di Ramallah hanno privatamente espresso l’intenzione di tagliare ogni rapporto con Blair e di bollarlo come “persona non grata” negli uffici dell’Autorità Palestinese, poiché avrebbe lavorato attivamente con Israele per far naufragare la richiesta di riconoscimento di una nuova entità statale sottoposta da Abu Mazen all’ONU.

Nel suo ruolo di inviato del Quartetto, in ogni caso, Tony Blair trascorre in media una settimana al mese in Medio Oriente, dove ovviamente ha disposizione tutti i lussi del caso. Il suo ufficio a Gerusalemme, poi, è in parte finanziato dal governo di Londra, che si occupa anche di stipendiare tre membri del suo staff.

L’intreccio tra affari e diplomazia per Blair si estende infine anche al continente africano. Particolarmente intensi erano, ad esempio, i rapporti che aveva instaurato con Gheddafi, incontrato almeno sei volte sempre in qualità di inviato del Quartetto. Queste visite nel paese nordafricano erano avvenute poco prima del rilascio da una prigione in Scozia di Abdelbaset al-Megrahi, condannato per la strage di Lockerbie, e soprattutto in concomitanza con il tentativo di JP Morgan di facilitare un accordo commerciale tra il regime di Tripoli e l’oligarca russo Oleg Deripaska, guarda caso amico di Peter Mandelson, già ministro laburista e stretto alleato dell’attivissimo ex primo ministro britannico.

di Mario Braconi

Fino a metà settembre il Regno Unito ha potuto contare su una buona legge che rendeva perseguibile nel Paese chiunque (anche non inglese) per crimini di guerra commessi in qualsiasi parte del mondo, almeno finché l’imputato si trovi, anche temporaneamente, sul suo territorio. Secondo la legge britannica, qualsiasi vittima di gravi crimini di guerra o di tortura poteva adire le vie giudiziare inglesi, e chiedere, a fronte della presentazione di prove convincenti, che il presunto responsabile fosse arrestato e processato in Gran Bretagna.

Questo luminoso esempio di diritto internazionale, però, ha creato qualche imbarazzo a vari governi britannici. Nel 2005, quando l’aereo su cui viaggiava anche il generale israeliano Doron Almog è atterrato a Londra, dove si stava recando per un’iniziativa benefica, rimase asserragliato dentro l’aeromobile per sfuggire all’arresto da parte della Metropolitan Police, che non salì a bordo a prelevarlo per il timore che si scatenasse una sparatoria con gli agenti della sicurezza israeliana. Nei confronti di Alming, infatti, era stato infatti stato spiccato un provvedimento di arresto motivato dal suo presunto coinvolgimento nella distruzione di case palestinesi a Gaza (un crimine sanzionato dalla Convenzione di Ginevra).

Anche Tzipi Livni, che ricopriva la carica di Ministro degli Esteri israeliano durante la vergognosa operazione “Piombo Fuso” su Gaza (che causò la morte di oltre mille palestinesi e di tredici soldati israeliani), ha avuto qualche problema in Gran Bretagna: nel 2009 è stata infatti costretta a rinunciare ad una visita istituzionale a Londra, città nella quale correva il concreto rischio di subire un arresto per crimini di guerra quale conseguenza di una denuncia a suo carico presentata presso un giudice britannico, il quale, a quanto pare, ha ritenute le prove presentate sufficientemente convincenti per procedere. Dopo questi due precedenti, il governo britannico ha deciso di depotenziare questo strumento in mano alle vittime della violenza di stato, che rischia di trasformarsi in una bomba diplomatica.

Così, il 15 settembre di quest’anno la legge è stata modificata: a dare luogo a procedere sui presunti crimini di guerra o tortura (anche se perpetrati e subiti da cittadini non britannici) potrà essere solo il Director of Public Prosecution, una figura di altissimo livello istituzionale, nominata dall’Attorney General, il quale a sua volta è tra i consiglieri della Corona e del Governo.

E’ interessante notare che la votazione sulla modifica di legge è stata approvata con un numero pari di voti favorevoli e contrari (per l’esattezza 222): parità che, secondo le regole del Parlamento, in questo caso vale approvazione. E pensare che se il giorno della votazione il deputato liberaldemocratico Lord Palmer si fosse recato come previsto ad una cena organizzata dal Fondo Didattico dell’Olocausto, essa si sarebbe conclusa con 220 voti favorevoli e 221 contrari. Segno che sul tema dell’immunità ai criminali di guerra le posizioni dei deputati britannici sono tutto fuorché uniformi.

Al di là degli aspetti tecnici, l’obiettivo (conseguito) era evidentemente di spostare il centro decisionale ad un livello gerarchico molto più alto di quello di un giudice ordinario, e soprattutto più sensibile a pressioni politiche e diplomatiche. Il giorno dell’approvazione dell’emendamento, una portavoce di Amnesty International dichiarò: “é incredibile che il governo britannico si sia da fare per indebolire l’impegno del Paese in tema di giustizia internazionale”. La modifica introdotta “lancia un segnale chiaro: il Regno Unito è un posto in cui delitti come crimini di guerra e tortura sono di fatto tollerati”.

Ora che la nuova legge britannica sembra aver scongiurato ogni rischio di arresti indesiderati in terra d’Albione, Tzipi Livni ci riprova. Martedì scorso, all’annuncio di una sua nuova visita in Gran Bretagna è arrivata puntuale la richiesta di arresto a suo carico; ad estenderla, il rappresentante legale di un agente della polizia palestinese il cui fratello (anch’egli poliziotto) è stato ucciso dagli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza del 2008.

Secondo quanto riportato dal Guardian, il Crown Prosecution Office, nel dare notizia della denuncia ha inizialmente dichiarato che “non era stata raggiunta una decisione definitiva sulla sussistenza o meno di prove sufficienti ad ottenere l’arresto della signora Livni”. Giovedì, tuttavia, a togliere le castagne dal fuoco (si fa per dire) alle altre istituzioni britanniche coinvolte è giunta la dichiarazione del capo del Foreign Office, che ha sostenuto che Tzipi Livni si è recata in Gran Bretagna su invito del ministero per una “missione speciale”.

Sembra che l’alibi della presunta missione speciale sia la pietra tombale su ogni possibilità di veder arrestata la Livni. Palpabile la delusione delle associazioni filo-palestinesi per una decisione assai poco convincente (la Livni, per dirne una, oggi non rappresenta il governo, ma l’opposizione israeliana). Ma come ha spiegato Daniel Machover, dello studio Hickman and Rose (ovvero l’accusa), "la decisione del DPP è stata presa non sulla base dell’insufficienza di prove”. In effetti essa è stata guidata dalla scelta politica assai discutibile, secondo cui l’operato dello Stato israeliano non può essere discusso, solo approvato.

di Michele Paris

Con una lettera aperta indirizzata ai propri sostenitori, Sarah Palin ha annunciato mercoledì la sua decisione definitiva di non correre per la nomination repubblicana nel 2012. La rinuncia della ex governatrice dell’Alaska, che aveva in realtà ben poche chance di conquistare il diritto a sfidare Barack Obama tra poco più di un anno, mette con ogni probabilità la parola fine alla prima fase delle selezioni nel Partito Repubblicano a meno di tre mesi dall’avvio della stagione delle primarie.

L’annuncio ufficiale della Palin ha interrotto mesi d’incertezze e speculazioni sui media americani circa le sue intenzioni per il prossimo anno. Sulla sua decisione, secondo la versione pubblica, avrebbe influito soprattutto la necessità di proteggere la famiglia, che sarebbe stata sottoposta all’attento scrutinio della stampa durante tutta la lunghissima campagna elettorale per le presidenziali. Le sue energie e risorse, ha affermato Sarah Palin, saranno invece rivolte all’aiuto dei candidati repubblicani per vincere le elezioni, sia a livello statale che nazionale.

La carriera di Sarah Palin aveva ricevuto un impulso decisivo nell’estate del 2008, quando l’allora candidato alla presidenza per i repubblicani la proiettò prepotentemente sulla scena politica di Washington. Nonostante le perplessità all’interno del suo stesso partito, John McCain aveva infatti scelto a sorpresa la giovane governatrice dell’Alaska come “running mate”, verosimilmente per portare una ventata di freschezza nella sfida contro colui che si riteneva il candidato del cambiamento, Barack Obama. Da allora, in molti avevano previsto per lei un possibile futuro da candidata alla Casa Bianca.

La stessa Palin da più di un anno a questa parte aveva d’altra parte contribuito ad alimentare le indiscrezioni su una sua partecipazione alle primarie, dapprima tenendo discorsi che lasciavano aperto più di uno spiraglio e, più recentemente, organizzando un tour in autobus in grande stile - battezzato “One Nation” - attraverso alcuni degli stati, come Iowa e New Hampshire, che terranno per primi caucuses e primarie il prossimo mese di gennaio.

Sarah Palin rappresenta però in gran parte un fenomeno mediatico, anche se le sue carenze e impreparazione, sia dal punto di vista politico che culturale, sono state messe sufficientemente in evidenza dal 2008 ad oggi. L’ex candidata alla vice-presidenza è per alcuni una figura carismatica e possiede una certa influenza negli ambienti più reazioni del Partito Repubblicano, a cominciare dai Tea Party.

Questo ascendente potrebbe essere perciò sfruttato dalla Palin per convogliare una buona parte del voto repubblicano nelle primarie verso uno dei candidati in corsa. A conferma di ciò, subito dopo l’annuncio della sua rinuncia, questi ultimi hanno fatto a gara per elogiare le sue presunte qualità e conquistarne il sostegno (“endorsement”).

La decisione di Sarah Palin era in qualche modo prevista, dal momento che appare estremamente complicato riuscire a creare ad ottobre un’organizzazione in grado di affrontare le primarie che prenderanno il via ai primi giorni di gennaio. Soprattutto, poi, la sua popolarità tra gli elettori non era esattamente alle stelle. Anche tra i repubblicani, infatti, la maggioranza sembrava non essere particolarmente entusiasta di un suo ingresso nella corsa, come hanno dimostrato svariati recenti sondaggi.

Da non dimenticare, infine, anche le lucrose fonti di reddito cui avrebbe dovuto rinunciare in caso di candidatura. La Palin, ad esempio, è tuttora legata ad un contratto come opinionista con FoxNews e la partecipazione alle primarie avrebbe comportato la sua rescissione, come hanno fatto recentemente altri due repubblicani in corsa per la nomination, Newt Gingrich e Rick Santorum, anch’essi già a libro paga del network di Murdoch.

Pochi giorni prima del messaggio lanciato da Sarah Palin ai suoi sostenitori era giunta un'altra rinuncia a prendere parte alla competizione in casa repubblicana. A frustrare le aspettative di una parte del partito era stato il governatore del New Jersey, Chris Christie, personalità piuttosto popolare nell’establishment del partito e che era stato spinto a correre per la Casa Bianca da un certo numero di ricchi finanziatori del nord-est degli Stati Uniti.

Questi ultimi non sembrano infatti particolarmente elettrizzati dall’attuale campo di partecipanti alle primarie e intendevano perciò promuove un politico come Christie, capace in teoria di fare appello sia ai moderati che ai conservatori. Le ragioni che alla fine l’hanno convinto a declinare l’invito a correre per la presidenza sono in parte simili a quelle della Palin, in particolare i tempi ristretti in vista dell’appuntamento con le urne e lo scarso appeal suscitato a livello nazionale.

Con l’uscita di scena di Palin e Christie, i repubblicani dovranno così accontentarsi dei candidati attualmente in corsa, tra i quali sembrano favoriti l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, e il governatore del Texas, Rick Perry. Qualche residua speranza di giocare almeno un ruolo di spicco nel corso delle primarie sembrano averla per ora anche il deputato libertario del Texas, Ron Paul, e l’imprenditore di colore Herman Cain. Pressoché nulle, salvo sorprese, sono invece quelle dei rimanenti contendenti, tra cui la deputata del Minnesota Michele Bachmann, l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, l’ex governatore dello Utah John Huntsman e l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum.

I due “front-runner” continuano in ogni caso a sollevare perplessità nel Partito Repubblicano. Romney, pur risultando l’attuale favorito, non è ben visto dall’ala conservatrice del partito, in particolare per aver fatto approvare una riforma sanitaria in Massachusetts molto simile a quella di Obama e per le sue posizioni relativamente moderate su alcuni temi sociali.

D’altro canto, Rick Perry in queste settimane ha visto svanire notevolmente l’entusiasmo che aveva generato inizialmente dopo essersi reso protagonista di una serie di gaffe nel corso dei dibattiti con i colleghi repubblicani. Per il successore di George W. Bush alla poltrona di governatore del Texas, soprattutto, rimane il cosiddetto problema dell’eleggibilità, la capacità cioè di raccogliere una buona fetta del voto di moderati e indipendenti in un’ipotetica sfida contro Obama.

Con il delinearsi in maniera definitiva della corsa alla nomination nel Partito Repubblicano, anche i donatori più ambiti dovrebbero fare le loro scelte di campo a breve. Tra i candidati è in corso una vera e propria gara per accaparrarsi l’appoggio, sottoforma di sostanziosi assegni, dei finanziatori ancora alla finestra e che attendevano la decisione finale di Sarah Palin e Chris Christie.

Un primo punto a proprio favore in questo senso l’ha messo a segno qualche giorno fa proprio Mitt Romney, capace di ottenere il sostegno del multimiliardario co-fondatore di Home Depot, Ken Langone. Una mossa indicativa quella di quest’ultimo, che indica come il secondo tentativo di conquistare la Casa Bianca da parte dell’ex governatore e businessman repubblicano, dopo quello fallito nel 2008, poggi questa volta su fondamenta ben più salde.

di Michele Paris

Nella giornata di martedì, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come previsto Russia e Cina hanno posto il loro veto sulla risoluzione di condanna del governo siriano promossa da quattro paesi europei con il beneplacito di Washington. La bocciatura del testo è giunta dopo mesi di complicate trattative al Palazzo di Vetro ed è la diretta conseguenza della manipolazione da parte dell’Occidente della risoluzione approvata lo scorso mese di marzo per rovesciare il regime di Gheddafi.

Preparato da Gran Bretagna, Francia, Germania e Portogallo - questi ultimi due paesi membri provvisori del Consiglio di Sicurezza - il tentativo di fare pressioni su Damasco era stato notevolmente ammorbidito nei contenuti rispetto alla versione originale, così da cercare di evitare il veto di Mosca e Pechino. Soprattutto la Russia, tuttavia, ha subito annunciato l’intenzione di bloccare qualsiasi mozione contenente anche solo un vago riferimento alla possibilità di adottare sanzioni contro la Siria.

La risoluzione chiedeva lo stop immediato alle violenze nel paese mediorientale e l’apertura di inchieste per accertare le responsabilità nei fatti che, secondo alcune stime, hanno fatto registrare finora circa tre mila morti. Inoltre, veniva sollecitato l’avvio di un nuovo processo politico in un clima pacifico e con il coinvolgimento dell’opposizione. Il testo condannava poi le “gravi e sistematiche” violazioni dei diritti umani, mentre invitava il regime a garantire a tutti i siriani i diritti umani fondamentali e a liberare i prigionieri politici.

Per alleviare le perplessità russe e cinesi, infine, l’esplicita minaccia di imporre sanzioni era stata rimpiazzata con un linguaggio più sfumato. Il Consiglio di Sicurezza, cioè, dopo l’eventuale approvazione, avrebbe atteso trenta giorni prima di verificare l’adeguamento del regime di Assad alle richieste della risoluzione e, in caso di esito negativo, si sarebbe proceduto a “considerare le opzioni” a disposizione, tra cui l’adozione di misure non meglio specificate.

A favore della risoluzione hanno votato nove membri del Consiglio di Sicurezza (USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Portogallo, Bosnia, Colombia, Gabon e Nigeria), quattro si sono astenuti (Brasile, India, Sud Africa e Libano), Cina e Russia hanno appunto esercitato il diritto di veto. Per dare il proprio via libera al testo, Mosca aveva proposto di mettere sullo stesso piano le violenze provocate dalle forze di sicurezza del regime e dai manifestanti, ma i paesi occidentali si sono opposti fermamente. Prima della risoluzione appena bocciata, le Nazioni Unite avevano emesso soltanto due deboli dichiarazioni di condanna contro le violenze in Siria.

L’ambasciatore russo all’ONU, Vitaly Churkin, con più di una ragione ha fatto notare come l’Occidente finga di non vedere che dietro ad una parte delle proteste e delle violenze in Siria ci siano gruppi di estremisti islamici finanziati da altri paesi (Arabia Saudita in primis). Nel chiedere ad Assad di implementare una serie di riforme democratiche, l’inviato del Cremlino ha bollato quelle occidentali come “manovre per rovesciare il regime” baathista. “Alcuni governi dimostrano una fretta eccessiva nel giudicare l’illegittimità dei leader siriani”, ha aggiunto Churkin.

Il fallimento delle “manovre” di Washington, Londra e, soprattutto, Parigi, è stato causato in sostanza dai timori di Russia e Cina per il ripetersi in Medio Oriente di uno scenario simile a quello libico. I governi di Mosca e Pechino, infatti, accusano giustamente gli Stati Uniti e i loro alleati di avere usato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza per aggredire militarmente la Libia, nonostante il contenuto del testo si limitasse all’adozione di una no-fly zone per proteggere i civili. La risoluzione discussa martedì, se approvata, avrebbe potuto così rappresentare un primo pericoloso passo verso misure più incisive contro il governo siriano.

L’astensione di Russia e Cina sette mesi fa permise di fatto l’approvazione della mozione sulla Libia e ciò che è accaduto successivamente è costato parecchio in termini economici e strategici per entrambi i paesi, i quali vedono ora minacciati i propri legami con Damasco. Soprattutto da Mosca si paventa la rimozione dell’alleato Assad, uno scenario che infliggerebbe un colpo durissimo ai propri interessi in Medio Oriente, dove gli USA e l’Occidente sarebbero in grado di estendere ulteriormente la propria influenza.

L’ambasciatore siriano all’ONU, Bashar Jaafari, ha accolto positivamente il voto al Consiglio di Sicurezza, sottolineando come i governi occidentali volevano usare ancora una volta la questione umanitaria come pretesto per indebolire il proprio paese e allargare l’egemonia di Israele nella regione mediorientale. Molto dure sono state al contrario le reazioni dei paesi che avevano promosso la mozione. L’ambasciatore francese Gerard Araud ha inoltre rivelato che alcuni membri del Consiglio di Sicurezza tenteranno a breve di mettere assieme un nuovo testo con maggiori possibilità di essere approvato.

Particolarmente ipocrita è stato poi il commento dell’inviata dell’amministrazione Obama, Susan Rice, secondo la quale “nel corso di questa stagione di cambiamento, le popolazioni del Medio Oriente possono finalmente vedere quali paesi hanno scelto di ignorare le loro richieste democratiche per fornire appoggio a dittatori crudeli e disperati”. Nonostante Susan Rice si sia ovviamente ben guardata dal ricordarlo, tra i paesi che durante la primavera araba hanno scelto di schierarsi dalla parte della repressione ci sono proprio gli Stati Uniti, i quali, ad esempio, nulla hanno fatto per fermare il durissimo soffocamento delle proteste democratiche in Bahrain.

La stessa ambasciatrice americana ha anche accusato esplicitamente i paesi che si sono opposti alla risoluzione di condanna contro la Siria di voler continuare a vendere armi a Damasco. A conferma della doppiezza della politica di Washington, proprio alla vigilia del voto all’ONU sulla Siria, il Dipartimento della Difesa americano aveva dato il via libera alla fornitura di armamenti per 53 milioni di dollari al governo alleato del Bahrain, tra cui svariate decine di mezzi blindati simili a quelli impiegati per reprimere le proteste di piazza.

La risoluzione di condanna presentata martedì all’ONU fa parte di una strategia della comunità internazionale per aumentare le pressioni sul regime di Assad. In questo contesto vanno inserite anche le sanzioni unilaterali adottate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, con conseguenze molto pesanti per l’economia e la popolazione siriana, e il recentissimo annuncio fatto dalla Turchia di aver programmato imminenti esercitazioni delle proprie forze armate al confine con il vicino meridionale.


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