di Mario Braconi

Il 23 settembre, proprio mentre i rappresentanti palestinesi presentavano la domanda presso l’organizzazione internazionale, il Quartetto (Nazioni Unite, USA, Russia ed Unione Europea) proponeva “un incontro preparatorio tra le parti da organizzare entro un mese”. Dunque la mossa di Abbas ha l’indiscutibile merito di rimettere in moto un processo fermo da oltre un anno: a settembre del 2010, infatti i colloqui erano naufragati a causa del rifiuto di Netanyahu di prolungare la moratoria di 10 mesi sulla costruzione di nuove colonie ebraiche. Intanto, spiega il portavoce del Dipartimento di Stato Mark Toner, il 26 ottobre gli inviati del Quartetto incontreranno (separatamente) rappresentanti Israeliani e Palestinesi “per organizzare i preparativi e sviluppare un’agenda per procedere nei negoziati”.

L’iniziativa del Quartetto è l’alternativa al percorso ONU; tuttavia, se Abbas non avesse forzato la mano andando a New York e sfidando Washington e Tel Aviv, con ogni probabilità la situazione sarebbe ancora in stallo. Il fatto che il 26 ottobre israeliani e palestinesi non s’incontrino direttamente, comunque, non è di buon auspicio: come spiega Daniel Levy, analista della New America Foundation, i membri del Quartetto hanno continuato a dialogare con rappresentanti dell’uno e dell’altro contendente, anche durante i tredici mesi di stop.

Nulla di nuovo, dunque, da questo punto di vista. “Inoltre - afferma Levy -  la liberazione del sergente israeliano Gilat Shalit a fronte della liberazione di oltre 1.000 prigionieri palestinesi, costituisce un’importante ipoteca sul successo dei negoziati a venire. La capitolazione di Israele alle richieste di Hamas viene infatti letta da Al-Fatah come la designazione dell’interlocutore palestinese con cui trattare. Fatto che non può non irritare e ridurre ulteriormente gli spazi di manovra di Abbas”.

Intanto all’ONU si lavora per il riconoscimento della Palestina (West Bank e Striscia di Gaza) come Stato membro: la decisione finale dovrebbe arrivare l’11 novembre, quando a pronunciarsi sarà il Consiglio di Sicurezza. La data è più lontana di quanto si sperasse inizialmente, per consentire all’eventuale nuovo processo di pace sponsorizzato dal Quartetto di prendere forma (se possibile). La procedura prevede un primo passaggio presso un apposito Comitato (il Membership Admission Committee, o MAC) del Consiglio di Sicurezza, costituito da quindici nazioni. Se il Consiglio di Sicurezza dovesse dare luce verde, la proposta passerebbe al vaglio dell’Assemblea Generale, dove potrà essere approvata se otterrà la maggioranza di due terzi dei votanti (129 voti); per un pieno accreditamento presso le Nazioni Unite, la candidatura della nazione al riconoscimento deve essere approvata da entrambi gli organismi.

Il MAC deve verificare se la Palestina abbia i requisiti necessari a divenire uno Stato membro: allo stato è terminata la nebulosa fase di discussione sulle problematiche relative ad uno Stato palestinese in sé. Le prossime attività in capo al Comitato presieduto dalla nigeriana Joy Ogwu saranno la verifica che il futuro Stato palestinese sia pacifico e che sia in grado di ottemperare agli obblighi di uno Stato Membro. Per inciso, ci sarebbe da domandarsi quante delle Nazioni aderenti possano vantare simili requisiti e se non sia il caso che le Nazioni Unite effettuino delle verifiche regolari per accertare che i requisiti siano ancora presenti in tutti i membri del club…

Le regole di funzionamento del MAC, comunque, sono più semplici di quelle dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza: per ottenere l’approvazione, basta la maggioranza assoluta (8 voti favorevoli) e non esiste il veto di Paesi “più uguali degli altri”. Come ricorda Reuters, anche in caso di fallimento all’Assemblea Generale, per i Palestinesi sarebbe già un buon risultato uscire dal MAC con una raccomandazione favorevole al Consiglio di Sicurezza.

Prima dell’11 novembre il MAC farà le sue raccomandazioni al Consiglio di Sicurezza: a quel punto, per vincere la loro battaglia i palestinesi dovranno aver ottenuto il sostegno di nove dei quindici stati membri oltre che, ovviamente, aver scongiurato il veto (praticamente impossibile). E’ evidente che la battaglia per raggiungere i nove voti ha più che altro un valore politico e simbolico, dato che gli Stati Uniti hanno fatto sapere che certamente opporranno il veto. Secondo i diplomatici USA, le Nazioni Unite non sono infatti il contesto ideale per perseguire l’obiettivo dello Stato palestinese.

In ogni caso, secondo fonti diplomatiche citate ieri da Reuters, la causa dello Stato palestinese avrebbe conquistato otto stati del Consiglio di Sicurezza, ovvero Russia, Cina, India, Sud Africa, Brasile, Libano, oltre a Nigeria e Gabon, contati fino a ieri tra gli “indecisi”. Resterebbe da convincere i rappresentanti della Bosnia. Le speranze sulla Colombia sono infatti sfumate lo scorso undici ottobre, quando, nel corso di una visita ufficiale in Colombia, il presidente Juan Manuel Santos ha detto che il suo paese riconoscerà lo stato palestinese solo se esso nascerà a valle di un negoziato con Israele (quindi non per il momento). Indipendentemente da quale sarà l’esito del processo, la candidatura al riconoscimento della Palestina come nazione presso le Nazioni Unite ha contribuito a smuovere le acque e a stimolare un embrione di processo di pace; un’eventuale vittoria, anche parziale, alle Nazioni Unite, non sarebbe sufficiente senza l’avvio di veri negoziati.

di Michele Paris

Mentre la repressione e le violenze proseguono senza sosta in Siria, nella giornata di mercoledì è andata in scena ad Aleppo una grande manifestazione popolare in sostegno del presidente Bashar al-Assad. La dimostrazione nella seconda più importante città siriana ha messo in luce l’ampio appoggio che il regime continua a godere in una parte del paese e contribuisce a spiegare lo stallo della crisi dopo oltre sette mesi dall’inizio della rivolta.

Assieme alla capitale, Damasco, la città di Aleppo rappresenta il fulcro del sostegno al governo di Assad. Entrambe le città, infatti, sono state in gran parte escluse dai disordini che hanno lacerato il paese in questi mesi. Il numero dei partecipanti alla manifestazione dell’altro giorno è difficilmente quantificabile. Secondo i media occidentali le persone scese nelle strade sarebbero alcune decine di migliaia, mentre per gli organi di stampa locali oltre un milione.

Il corteo di mercoledì è andato in scena solo pochi giorni dopo un’altra manifestazione oceanica pro-Assad a Damasco. Oltre ai cori e ai simboli di solidarietà verso il presidente, i siriani di Aleppo hanno sventolato le bandiere di Cina e Russia, i due paesi che hanno posto il veto sulla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che intendeva condannare le violenze del regime e aprire la strada a possibili future sanzioni.

Nel frattempo, anche gli ultimi giorni hanno fatto registrare nuovi scontri e altri morti in Siria. Secondo i resoconti di alcune associazioni umanitarie, mercoledì sarebbero state almeno 26 le vittime, di cui 16 nella città di Homs, dove la resistenza contro il regime è particolarmente intensa. Altre morti sarebbero avvenute nei sobborghi di Damasco e nella città di Qusayr, al confine con il Libano, dove ci sono stati scontri tra le forze di sicurezza e i militari che hanno disertato l’esercito siriano.

Da qualche giorno, poi, il neonato Consiglio Nazionale Siriano - formato da membri di vari orientamenti che si battono contro il regime di Assad - ha avviato un’offensiva su scala internazionale per ottenere un qualche riconoscimento dalle potenze occidentali. Alcuni esponenti del Consiglio vorrebbero iniziative più concrete da parte della comunità internazionale per risolvere il conflitto in corso in Siria, tra cui un intervento della NATO, com’è avvenuto in Libia.

A questo proposito, un membro del Consiglio, Najib Ghadbian, nel corso di una recente conferenza stampa proprio a Tripoli, ha affermato che l’aiuto dell’Occidente “potrebbe includere la creazione di un’area cuscinetto o una no-fly zone”. Dichiarazioni simili la dicono lunga sulla legittimità di parte dell’opposizione siriana organizzata politicamente e degli interessi che essa rappresenta.

Molti dissidenti sono figure screditate che vivono da tempo in Occidente - lo steso Ghadbian insegna all’Università dell’Arkansas - e le cui attività sono finanziate dai governi che da decenni cercano di isolare il governo di Damasco. Al contrario di gran parte del Consiglio Nazionale Siriano, in ogni caso, la maggioranza dei manifestanti pacifici nelle città della Siria è fermamente contrario a qualsiasi intervento di forze straniere.

Un’evoluzione simile a quella libica in Siria porterebbe d’altronde al potere, con ogni probabilità, un regime filo-occidentale, mentre una delle ragioni che rendono Assad sopportabile agli occhi della popolazione è appunto l’indipendenza della propria politica estera da quella degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione.

La recente manifestazione ad Aleppo, come quella di Damasco di settimana scorsa e le altre che pure hanno avuto luogo in questi mesi, se anche sono state organizzate con il contributo del governo, dimostrano che Assad può contare su una base d’appoggio tuttora consistente. Anzi, non è da scartare l’ipotesi che proprio le pressioni, le minacce e la propaganda occidentali abbiano convinto molti siriani - soprattutto tra coloro che più hanno beneficiato delle politiche del regime baathista - a mobilitarsi per sostenere il presidente. Per questo, escludendo interventi militari diretti dall’estero, é difficile prevedere una caduta del regime in tempi brevi.

Nel medio e lungo periodo, tuttavia, saranno cruciali per verificare la resistenza di Assad gli effetti della crisi economica che ha colpito la Siria in seguito all’esplosione delle proteste e, soprattutto, all’applicazione unilaterale delle sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione Europea.

Il fattore forse più importante per il futuro del regime rimane tuttavia la svolta violenta che la protesta ha avuto negli ultimi mesi. Nonostante le proteste e le richieste democratiche abbiano mantenuto in larga misura un carattere pacifico, frange di oppositori si stanno facendo sempre più violente, minacciando di gettare il paese in una sanguinosa guerra civile.

Gruppi di militari che hanno defezionato e di integralisti islamici, appoggiati da paesi come l’Arabia Saudita, stanno infatti combattendo con le armi le forze del regime. L’arrivo nel paese di carichi di armi da fuoco in maniera clandestina dalla Turchia e dal Libano è stata d’altra parte documentata ampiamente. L’obiettivo di questi gruppi di oppositori sembra essere proprio quello di creare il caos nel paese, facendo leva sulle rivalità settarie che contraddistinguono la Siria e sulle quali il regime secolare baathista ha operato fin ad ora come un collante. Sarà dunque in gran parte l’evoluzione di tutte queste forze contrastanti che operano dentro e fuori la Siria a determinare il destino del travagliato regime di Bashar al-Assad.

di Fabrizio Casari

E’ finita a Sirte, nella una buca di una condotta, l’avventura di Moammar El Ghadafi, beduino e leader della Libia dal 1969. E’ finita in un’anonima ambulanza, avevano detto in un primo momento quelli del CNT, i supposti liberatori della Libia; ma non appena hanno compreso che nessuno avrebbe creduto alla storiella dell’ambulanza, ritenendo molto più verosimile che l’ex leader della Rivoluzione libica fosse stato giustiziato, hanno deciso di raccontare la verità. "Il colonnello Muammar Gheddafi é stato ucciso, la sua era é finita". Così ha annunciato Abdel Hakim Belhaj, capo militare del Cnt a Tripoli, alla tv araba al-Jazeera. Il capo militare, noto per essere della corrente islamica, ha aggiunto: "Gheddafi era stato catturato dai nostri uomini e il suo cadavere é nelle nostre mani".

Quindi nessun processo per lui, come avevano annunciato quando la sua cattura sembrava imminente. Per paura che la Nato potesse chiederne la consegna e per evitare che potesse, da vivo ancorché prigioniero, rappresentare ancora un catalizzatore per la popolazione libica che non si riconosce nei nuovi feudatari, i nuovi padroni della Libia hanno deciso di eliminarlo senza troppe cerimonie. Una vendetta tribale, un’affermazione di autorità e, insieme, una spavalda rivendicazione della nuova impostazione coranica della giustizia che regnerà nel nuovo protettorato occidentale a guida islamica.

Scompare così, circondato dai suoi ultimi fedelissimi e nascosto nella sua roccaforte, l’uomo che aveva annunciato dall’inizio della guerra la sua intenzione di morire resistendo, ma di non arrendersi o espatriare. E così è finita la vicenda del leader politico che il 1° Settembre del 1969, militare con il grado di tenente, diresse il colpo di stato con il quale un gruppo di ufficiali deposero il vecchio re Idriss, avanzo della monarchia dominante verso l’interno e dominata dall’esterno. Deposto Idriss, venne deposto anche il dominio delle compagnie petrolifere che della monarchia e del paese erano proprietarie.

Iniziò quindi l’epoca delle nazionalizzazioni, delle espulsioni di inglesi e italiani cui seguì l’adesione entusiastica al panarabismo nasseriano da parte del tenente che, ben presto, si promosse, modestamente, “Guida della Rivoluzione”. E siccome non c’è guida senza manuale che lo testimoni, nel 1976 decise di ammantare ideologicamente il suo regime, pubblicando il “Libro verde della Rivoluzione”, nel quale si fondevano con una discreta miscela di confusione elementi di nazionalismo e panarabismo, eletti ad avversari del marxismo e del capitalismo. Nel 1977 Gheddafi decise di cambiare il nome alla Libia, che da quel momento si chiamò Jamahirya (lo Stato delle masse ndr) Araba Libica Popolare e Socialista”.

Il successo di un regime durato 42 anni si è fondato probabilmente nella capacità che Gheddafi ebbe di costruire un comune denominatore nel mosaico delle tribù e di clan che da sempre hanno determinato gli equilibri interni alla Libia, anche internamente alle due etnie (Arabi e Berberi). Le tribù dei Warfalla (i più numerosi), gli Zintan, i Qadhadfa (alla quale apparteneva Gheddafi) e gli al-Magarha, gli az-Zawiya, i Banu Salim, i Meshrata e gli al-Awagir hanno infatti usufruito di un ruolo tutt’altro che secondario nell’amministrazione del governo sul piano territoriale. L’abilità principale del Rais libico è stata proprio quella di ridurre alla fisiologica compatibilità i contrasti interni attraverso una politica fatta di inclusione (di alcuni) e di elargizioni più diffuse.

Pur tenendo con mano durissima le redini del potere politico, infatti, ebbe l’arguzia di dispensare sufficiente potere economico e riconoscimenti formali e sostanziali alle diverse tribù, concretizzatosi anche tramite un relativo mantenimento di alcune prerogative nella gestione degli affari interni a livello locale. Le risorse straordinarie derivate dalla vendita del petrolio hanno permesso, a suggello, una struttura di welfare-state generalizzata che ha reso i libici la popolazione con il maggior reddito pro-capite del nord Africa.

Quale che sia il giudizio sul regime di Gheddafi, non si può non riconoscere che ha trasformato la Libia da oscura entità territoriale nordafricana in paese con un suo ruolo specifico nell’ambito internazionale. Di volta in volta indossando i panni dell’anticolonialista, del profeta dell’unità africana (scelta dopo aver constatato che quella araba rimaneva una chimera) ha avuto però molto più seguito all’interno del Paese che nella regione, dove i regimi arabi e nordafricani non hanno mai voluto degnarlo di attenzione, negandogli con qualche torto e con molte ragioni una leadership che il Rais aveva tentato di ottenere con parole e dollari.

Troppe le ingerenze della vecchia Europa coloniale e degli Stati Uniti (e della stessa Unione Sovietica, all’epoca) sui regimi nordafricani e mediorientali e sugli stessi regni del Golfo perché il leader beduino potesse assumere un ruolo unificatore. Nei confronti dei regimi vicini, del resto, l’antipatia era ricambiata: non si contano i gesti di disprezzo, quando non di aperta sfida, che l’ex Colonnello ha dispensato in lungo e largo durante gli ultimi trent’anni. E se negli Usa veniva chiamato “il pazzo di Tripoli”, nelle altre capitali arabe veniva considerato più o meno un visionario inaffidabile e inattendibile. Della sua passione per stupire e provocare diede dimostrazione plastica nelle visite in Italia, omaggiato e riverito da chi, oggi, senza pudore, definisce la sua morte “una bella notizia per il popolo libico”.

Proprio gli Usa, che dal 1979 (quando in una manifestazione venne incendiata l’ambasciata Usa a Tripoli) al 2006 (quando Gheddafi annunciò la fine del programma nucleare libico) inserirono la Libia nella lista dei “Paesi che sostengono il terrorismo”, cioè i paesi che non ricevono ordini dagli Usa, furono decisivi nella messa alle corde del regno del Colonnello. E quando l’Onu (dal 1992 al 2005) gli decretò contro un embargo aereo e militare, oltre a sanzioni economiche, Gheddafi tentò di tessere una tela di relazioni internazionali a 360 gradi con partiti, movimenti e gruppi che all’interno dei rispettivi paesi mediorientali promuovevano l’opposizione più dura. L’illusione del Rais era quella di divenire il leader di ogni rivolta, ma la verità è che era sopportato solo in virtù del denaro che elargiva ai rivoltosi, i primi a considerarlo inaffidabile tanto quanto i regimi contro i quali combattevano.

Finita l’epoca bipolare, finì anche il ruolo (anche qui, non particolarmente influente) che il Rais si era disegnato nel composit eterogeneo che si ritrovava nei Paesi Non Allineati, strutturazione d’altra parte superata da un mondo ormai privo della contrapposizione tra Est e Ovest. Proprio in quell’ambito, in effetti, avrebbero potuto trovare maggiore eco le teorie di Gheddafi: indisponibile a divenire cinghia di trasmissione del modello sovietico, ma fortemente contrassegnato da posizioni anti-imperialiste e nazionaliste, il blocco, che vedeva il maresciallo Tito e Indira Ghandi come leader più influenti, aveva potenzialmente un’apertura concettuale alle suggestioni gheddafiane. Ma, anche in quel contesto, il personaggio di Gheddafi divenne il primo killer delle tesi e del ruolo di Gheddafi stesso.

La sua repentina riconversione all’obbedienza verso l’Occidente non gli è però bastata a salvargli né il dominio sulla Libia né la sua stessa vita. Furbo, certo; equilibrista, forse. Ma non abbastanza scaltro da comprendere come finanziare alcuni governi europei in cambio della sua rivalutazione non sarebbe comunque stato sufficiente a paragone di quanto le ricchezze energetiche del suo Paese promettono. Il sipario calato a Sirte é stato così solo l’ultimo atto di un beduino che volle farsi re, senza capire che il trono su cui sedeva era infinitamente più interessante del sovrano stesso.

di Mario Braconi

La scorsa domenica, tra le proteste dei manifestanti anti-Assad, si è tenuto al Cairo il meeting della Lega Araba convocato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG, ovvero Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, più Giordania e Marocco che con il Golfo hanno poco a vedere, ma sono comunque regni arabi). Argomento ufficiale dell’incontro, il deteriorarsi della situazione siriana e la conseguente possibile espulsione del Paese dal “club”, che alla fine è stata respinta.

L’attivismo interessato dell’Arabia Saudita sul caso Siria è evidente sin da quanto, il 7 agosto scorso, fu la prima nazione araba a condannare apertamente l’uccisione di civili nel corso delle violenze di piazza in Siria. “O il governo siriano sceglierà la saggezza di sua spontanea volontà, oppure finirà per scivolare e perdersi nel caos”, dichiarò in quell’occasione il re Adbullah, esortando il governo siriano a seguire la strada delle riforme, “non quelle promesse, ma quelle reali, che possano essere percepite dai nostri fratelli cittadini siriani nella loro vita quotidiana.”

Difficilmente l’Arabia Saudita può essere considerata il baluardo dei diritti umani nel mondo arabo: non solo per ovvie considerazioni sulla sua situazione politica interna, ma anche a valle delle sue iniziative politiche legate alle rivolte arabe. Il Regno ha offerto ospitalità a Ben Ali, cacciato dalla Tunisia dal suo popolo inferocito; espresso imbarazzo per il processo all’ex dittatore egiziano Hosni Mubarak, definendolo “uno spettacolo umiliante per tutti” e, sotto l’ombrello dello “Scudo della Penisola” (il braccio militare del CCG), ha inviato truppe saudite in un altro Paese, il Bahrein, per sostenere la repressione contro le sollevazioni popolari.

In sintesi, l’agenda politica del Regno può essere così riassunta: da un lato, contrastare la cosiddetta primavera araba, mantenendo quanto più a lungo possibile lo status quo ed accreditandosi come potenza di riferimento nella Regione. Dall’altra, regolare i conti con il regime siriano di Al-Assad, di cui è naturale nemico, per motivi di religione e di strategia. Agli occhi dei sauditi, il problema di Al-Assad non è quello di calpestare diritti umani e democrazia, quanto quello di appartenere alla setta alawita, una minoranza non vista di buon occhio dai sunniti (che, incidentalmente, rappresentano circa i tre quarti della popolazione siriana). Se aggiungiamo che sono noti gli eccellenti rapporti tra la Siria e l’Iran (sciita) e che il regime siriano è forse l’unico nell’area non dominato dai religiosi, è chiaro come, per Ryad, la rivolta siriana contro la dittatura rappresenti un’eccellente opportunità per togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

Secondo voci insistenti, tra l’altro, il Regno starebbe sostenendo la resistenza anti-Assad, oltre che con un sostegno politico ufficiale presso la Lega Araba, anche in modo più opaco e fattivo. In questo senso, sono interessanti le parole di Muhammad Rahhal, capo del Consiglio Rivoluzionario Siriano dei Comitati di Coordinamento (opposizione), che a fine agosto dichiarava al giornale siriano stampato in Gran Bretagna Asharq Alawsat: “Abbiamo adottato una risoluzione per armare la rivoluzione, che prenderà una direzione aggressiva molto presto”. Al giornalista che gli chiedeva come la resistenza pensasse di procurarsi le armi necessarie, Rahhal ha risposto in modo ambiguo: “Fintanto che avremo qui gli Stati Uniti, ci saranno sempre armi”; e l’unico Paese dell’area che ospita basi USA è proprio l’Arabia Saudita.

Tormando alla riunione della Lega Araba, a dispetto del discorso pieno di ovvietà tenuto domenica dal ministro degli Esteri del Qatar, Jasim Bin Jabir Al-Thani, è stata approvata una road map che dovrebbe condurre ad un cessate il fuoco in Siria entro due settimane, scandita da incontri tra rappresentanti dell’opposizione e del regime, da tenersi al Cairo.

La proposta di negoziati è stata immediatamente respinta tanto dal governo siriano (perché ciò costituirebbe una limitazione alle prerogative di uno stato sovrano), che dai suoi oppositori: questi ultimi hanno fatto sapere da tempo di non voler scendere a patti con Al-Assad: esemplare, in tal senso, il commento affidato da Suhair Atassi, una delle figure di spicco dell’opposizione, al suo account su Twitter: “lo abbiamo detto nel giorno in cui è caduto il primo martire: nessun dialogo con gli assassini”.

In ogni caso, domenica non è passata la proposta di sospendere la Siria dalla Lega Araba, che richiederebbe il voto favorevole di due terzi del parlamento della Lega Araba: diversi paesi del “club”, tra cui Sudan, Algeria, Libano e Yemen sono infatti contrari. Del resto, nemmeno presso le Nazioni Unite (NU) è stato possibile stigmatizzare la violenza di stato siriana (si parla di ben 3.000 morti dall’inizio delle sollevazioni popolari, tra cui ben 187 bambini): la condanna ufficiale da parte del Consiglio di Sicurezza è stata infatti impedita dal veto di Russia e Cina e dall’astensione di Brasile, India e Sud Africa.

L’inviato russo presso le NU Vitaly Churkin, assieme all’ambasciatore cinese, Li Boadong, hanno spiegato di non voler offrire alcun pretesto ad eventuali future azioni determinate ad un regime change in Siria. Secondo Churkin la “filosofia del confronto dei paesi occidentali costituisce un ostacolo al possibile accordo tra governo ed opposizione”. Aldilà dell’interesse USA per la caduta di Al-Assad, osteggiato dalle altre potenze, al momento non vi sono le condizioni per alcun accordo tra le due fazioni, mentre appare chiaro che la Russia stia difendendo soprattutto la sua storica alleanza con Damasco, che tra l’altro vede prosperare il suo lucroso business di esportazione di armi. Dopo l’embargo sulla Libia, infatti, la Siria costituisce un eccellente mercato di sbocco.

Intanto, in Siria si continua a morire. Il sito dei Local Coordination Committees (LCC), che rappresenta l’opposizione, parlava l’altro ieri di 23 morti tra le fila degli oppositori del regime nella città di Homs, mentre Al-Jazeera riporta le notizie acquisite dal gruppo britannico Syrian Observatory for Human Rights (SOHR), secondo cui 11 soldati sarebbero stati uccisi dagli oppositori, di cui quattro mediante un dispositivo esplosivo a comando remoto.

Il Comitato, inoltre, riporta la notizia secondo cui uomini del governo siriano starebbero rastrellando studi medici, ospedali e cliniche private sospettati di curare gli oppositori feriti nel corso delle dimostrazioni, coerente con una testimonianza diretta raccolta da chi scrive circa due settimane fa. In particolare, si parla di raid presso gli ospedali Al Fatih e Al Rajaa, nei pressi di Damasco, e dell’arresto di circa 250 tra medici e farmacisti dall’inizio della rivolta.

Nessun dialogo, quindi, tra governo e opposizione, ma il regime di Assad sembra comprendere l’urgenza di uscire dall’isolamento in cui si trova. A proposito di riforme, secondo l’agenzia Nena News, oggi Al-Assad avrebbe nominato un comitato incaricato di redigere una nuova Costituzione; forse un piccolo passo verso la riduzione del peso politico del partito Baath, ma è comunque difficile che un blando atto distensivo, nel corrente contesto esplosivo, possa avere qualche effetto concreto.

 

 

di Michele Paris

Mentre le proteste contro lo strapotere della finanza si allargano spontaneamente in tutti gli Stati Uniti e altrove, i manifestanti scesi per le strade di New York nelle ultime settimane stanno iniziando a formulare le prime richieste concrete alla politica americana. Tra di esse c’è quella di prolungare una modesta imposta aggiuntiva sui redditi dei residenti più ricchi dello stato di New York. Una richiesta però fermamente respinta dal governatore democratico, Andrew Cuomo.

Nel corso di una recente conferenza stampa, Cuomo ha ribadito che non intende ascoltare gli appelli provenienti dal movimento “Occupy Wall Street”. “Il fatto che tutti vogliano questa tassa non significa molto”, ha sostenuto il governatore. “Io rappresento i cittadini. La loro opinione è importante ma non ho intenzione di cambiare le mie decisioni a seconda di come tira il vento”, ha aggiunto riferendosi alla sua promessa elettorale di non aumentare le tasse.

Cuomo ha spiegato che questa tassa danneggerebbe la competitività dello stato di New York, a tutto vantaggio di quelli vicini, e spingerebbe i residenti più facoltosi a trasferirsi altrove. Il governatore ha affermato di essere in ogni caso favorevole a un’imposta di questo genere, se applicata dal governo federale, così da colpire tutti i cittadini americani con i redditi più alti. Visti gli equilibri di potere al Congresso, tuttavia, una misura simile non ha nessuna possibilità di essere approvata nell’immediato futuro.

Per giustificare la sua posizione irremovibile di fronte ad un provvedimento che è estremamente popolare nel suo stato, Cuomo ha poi citato il padre Mario - governatore di New York dal 1983 al 1994 - e la sua ferma opposizione alla pena di morte, per la quale era invece a favore la maggioranza dello stato, come se la difesa delle classi privilegiate e la battaglia contro la pena capitale fossero in qualche modo equiparabili.

La sovrattassa in questione è attualmente applicata nello stato di New York ai single con redditi superiori ai 200.000 dollari annui e alle coppie sposate con entrate oltre i 300.000 dollari. Se non ci saranno interventi da parte del governatore o del Parlamento statale, la tassa cesserà di esistere il 31 dicembre prossimo. Alcuni parlamentari democratici hanno in realtà cercato di introdurre un’estensione della tassa, questa volta riguardante i redditi superiori al milione di dollari, ma lo stesso Cuomo, in collaborazione con i repubblicani, è riuscito ad evitarne l’approvazione.

Secondo la proposta democratica, la nuova “millionaire’s tax” potrebbe generare 4 miliardi di dollari di entrate per le casse statali, di cui 2,8 miliardi già dal prossimo anno fiscale. Un importo significativo quest’ultimo, soprattutto alla luce di un deficit di bilancio pari a 2,4 miliardi che lo stato di New York si troverà a dover fronteggiare. Escludendo il mantenimento dell’imposizione fiscale aggiuntiva sui più ricchi, il buco verrà inevitabilmente colmato con nuovi tagli alla spesa sociale che andranno ad aggiungersi a quelli già operati da Cuomo negli ultimi mesi.

I miliardi di dollari su cui lo stato di New York non potrà più contare dal primo gennaio prossimo per finanziare l’assistenza sanitaria, il sistema scolastico e altri servizi pubblici essenziali, finiranno così sul conto di quel 2 per cento di residenti al vertice della piramide sociale. Tutto questo, come ha mostrato un recente sondaggio del Siena College, nonostante il 72 per cento degli elettori registrati nello stato sia favorevole all’estensione della tassa sui milionari.

A chiedere l’imposizione della sovrattassa non sono solo i manifestanti che hanno invaso Wall Street o, nello scorso fine settimana, la capitale dello stato di New York, Albany, ma anche svariati delegati democratici all’assemblea statale e numerose organizzazioni sindacali. Proprio i sindacati che oggi chiedono ai redditi più elevati un modesto sacrificio, sono stati in prima fila lo scorso anno per fare eleggere il governatore Andrew Cuomo con un programma di austerity e, ancora, sono risultati determinanti per far digerire i massicci tagli al settore pubblico implementati negli ultimi mesi.

L’atteggiamento dei sindacati e di molti esponenti del Partito Democratico che oggi sfilano accanto ai manifestanti nelle strade, e chiedono al governatore Cuomo di far pagare una piccola parte della crisi ai ricchi, suona come un chiaro avvertimento per gli studenti, i lavoratori e i disoccupati del movimento “Occupy Wall Street”. Il loro appoggio ai manifestanti non è altro infatti che un tentativo di limitare le rivendicazioni di piazza a qualche richiesta “ragionevole”, così da fornire una valvola di sfogo sicura alle crescenti tensioni sociali che attraversano il paese.

Il tutto, possibilmente, canalizzando la protesta verso l’imminente inizio della campagna elettorale democratica per il voto del 2012, a cominciare da quella per la rielezione del “male minore” Obama, ed evitando qualsiasi evoluzione verso un prospettiva autenticamente alternativa al sistema dominante, ultraliberista e bipartitico.


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