di Vincenzo Maddaloni

Perché stupirsi se il Fronte Unito dei principalisti, vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, ha guadagnato oltre il 75 per cento dei seggi nelle elezioni del 2 marzo per il nuovo Majlis (Parlamento iraniano)? Perché stupirsi se l'afflusso degli iraniani al voto è stato del 64,2 per cento con punte dell’ 88 per cento  nella provincia centrale di Kohkilouyeh-Boyer Ahmad? La vittoria schiacciante del clero era annunciata in un Paese piegato dalle sanzioni economiche che gli sono state inflitte per bloccargli il programma nucleare, il quale secondo Stati Uniti, Europa e Israele è destinato a scopi bellici.

Sicché oggi l’Iran produce 600mila barili di petrolio in meno rispetto a qualche anno fa a causa della mancanza di raffinerie nel Paese, e pertanto deve importare gran parte del diesel e della benzina dall’estero, a prezzi molto alti.

Inoltre, da mesi i cittadini iraniani convivono con un’inflazione in crescita costante. Nel tentativo di fermarla il governo iraniano ha dovuto limitare i suoi sussidi statali sui beni di prima necessità, ma non è riuscito nemmeno a bloccare la caduta della valuta nazionale iraniana, il rial, che ha toccato in questi giorni  il minimo storico perdendo il 30 per cento del suo valore.

Risultato? La congiunta ha rafforzato negli iraniani quell’attaccamento alla trinità culturale “iranità, islamità e modernità” nella quale essi coniugando novità e tradizione, affrontano ogni genere di confronto con quella determinazione nazional-religiosa che li ha resi peculiari agli occhi del mondo. All’origine, c’è la difesa estrema dell’indipendenza nazionale che era stata - anno 1979 - una delle ragioni della convergenza tra la sinistra e i movimenti religiosi nella lotta contro il potere capitalista degli Usa e contro lo Stato monarchico da essi sostenuto.

Vinse la rivoluzione, ma col passare degli anni i preti si sono impossessati del potere, annientando ogni forza di opposizione, anche le più moderate, com’è accaduto appunto nel 2009 al movimento riformista. Tant’è che trentatre anni dopo l’arrivo dell’ayatollah Khomeini a Teheran, i “Princìpi politici, filosofici, sociali e religiosi dell’ayatollah Khomeini”, il  libretto che condensa i “comandamenti” del buon musulmano, rimane tuttora il “catechismo”  di ogni “buon”  persiano.

In esso c’è un capitolo nel quale - al pari di sant’Agostino - Khomeini sostiene la tesi secondo la quale tutti i governi sono artificiali; ma a differenza del filosofo cristiano, l’ayatollah non indica soltanto la Città di Dio come la soluzione ideale di riferimento. Egli ritiene indispensabile che ci sia sulla terra un governo islamico, composto dal collettivo dei giuristi, i fuqaha, (i giureconsulti musulmani), uomini di grande virtù ai quali spetta il diritto di governare e di accompagnare i credenti fino alla soglia della Città di Dio.

E’ un richiamo forte alla tradizione degli sciiti, i quali (diversamente dai sunniti che delegano la cura delle anime fin dal VII secolo ai califfi) l‘affidano soltanto agli uomini della Chiesa, agli Imam. Ne sono essi gli unici custodi riconosciuti fin dal 1502, quando nella Persia governata dai Safavidi, lo sciismo divenne la religione di Stato.

Cosicché all’imam Khomeini non rimase che trasformare lo sciismo da corrente per molti versi popolar-mistica dell’Islam in ideologia politica e terzomondista che sfida l’imperialismo personificato dalle potenze straniere, dall’alta borghesia e dalla grande finanza internazionali. E’ la sua una rilettura dell’Islam dei primordi della vita del Profeta, del quale ne esalta l’umiltà. Ma si spinge oltre, mescolando varie teorie, (non ultima quella marxista) disegnando una nuova ideologia ricca di spunti di riflessione sulle problematiche politiche, economiche e sociali, temi che attirano l’interesse degli iraniani. Khomeini si arma di un tale pragmatismo da non esitare a rimpastare la shari’a http://it.wikipedia.org/wiki/Shari'a pur di raggiungere i propri obiettivi. «Quando mai - si chiederà Rafsanjani, presidente dal 1989 al 1997 - nella storia dell’Islam si è visto un Parlamento, un Presidente, un Primo Ministro e un Governo? In realtà l’ottanta per cento di quello che facciamo non ha precedenti nella storia dell’Islam».

Tuttavia, la formula rimane vincente, lo comprova il commento di Khamenei, quando all’apertura dei seggi ha sottolineato che le elezioni hanno sempre svolto un ruolo determinante per la Repubblica islamica, «dando un messaggio ad amici e nemici». E ha poi aggiunto, con un chiaro riferimento agli Usa, che le «potenze arroganti spandono propaganda e minacce contro l'Iran per negare i propri fallimenti, oltre a imporre sanzioni e sollevare la questione dei diritti umani».

Se si tiene a mente questo scenario si capisce perché sia andato a votare, venerdì 2 marzo, anche l'ex presidente l’ayatollah Mohammad Khatami, che ha fama di moderato e di difensore dei principi democratici. Egli nei mesi scorsi aveva posto una serie di condizioni per la partecipazione del suo fronte alle elezioni, tra cui la liberazione di Mehdi Karrubi e Mir Hossein Mussavi, due dei leader dell'opposizione, la libertà per i partiti indipendenti e riformisti e per la stampa e la supervisione delle elezioni da un organismo indipendente. «Quali di queste condizioni si sono realizzate?

Perché Khatami ha voltato le spalle alla gente e ai tantissimi prigionieri politici» si è chiesto l’altro ieri, qualcuno sul web. A rispondere è stato l'ex portavoce dell'ex presidente, Abdollah Irmezanadih, il quale ha assicurato sulle buone intenzioni di Khatami dicendosi convinto che, sebbene avesse accettato di rischiare di perdere la faccia, egli l'aveva fatto nell'interesse della gente, e che un giorno ne avrebbe spiegato il motivo.  Sicuramente sarà un “motivo” intessuto di riferimenti nazional-religiosi, argomenti di facile presa e condivisi dalle masse, come da cinquecento anni accade.

Un’altra premessa è d’obbligo a questo punto. La nazione islamica, l’umma, http://it.wikipedia.org/wiki/Umma e la società civile hanno ciascuna le proprie caratteristiche specifiche. Alcune di queste sono comuni ad entrambe, mentre altre non lo sono. Infatti, i membri della società civile vengono chiamati "cittadini", quelli della società islamica sono chiamati "credenti". Se il “cittadino” è caratterizzato dai “diritti”, il “credente” è caratterizzato dai “doveri”. Secondo il parere dei sociologi della politica, la società laica si colloca tra lo Stato e l'individuo. Lo stesso accade anche nella società islamica, dove l’umma si colloca tra il governo e il credente.

Nella società islamica, come nella società laica, esistono diritti e valori: la società civile deve rispettare le leggi; istituzionalizzare la partecipazione politica, realizzare la proprietà privata, assicurare la stabilità politica, riconoscere i diritti e i doveri tra individuo e Stato (governo), ecc. Ma mentre nella società laica il bene terreno è dominante, nella società islamica il mondo viene visto da una angolazione la cui dominanza è l'Aldilà. Pertanto se il mondo e l'Aldilà sono sullo stesso piano, il mondo è un campo che va coltivato per realizzare l’Aldilà, poiché «non si possono raccogliere frutti da un campo se non viene coltivato».

E dunque, il profondo rapporto che il clero sciita ha con le masse, che ogni volta sorprende e disorienta gli osservatori occidentali, nasce dalla secolare capacità del clero di incanalare gli entusiasmi popolari in manifestazioni di fede. Ogni spunto, atto, offerto dalla vita quotidiana, terrena, dalla “casa di prova”, viene “traslato” continuamente nella vita eterna, la “casa eterna”.

In questo modo, collegando il tempo limitato e contingente al tempo illimitato ed eterno con cerimonie, processioni e cortei con canti, elegie, battitori del petto, il pianto, le cerimonie di lutto, il pellegrinaggio ai luoghi sacri e ai mausolei dei santi, tutti ben articolati e sapientemente distribuiti nell’arco del tempo, i preti portano le masse alla resa totale ad Allah, l’Onnipotente.

Riti e prediche mirano a plasmare la mentalità dell’individuo sui modelli ecclesiali e a rimodellarla secondo schemi culturali e fideistici dei quali soltanto il clero ne possiede il magistero. Il risultato è che non soltanto le classi meno abbienti che nella solidarietà incentivata dalle moschee, nella filantropia, trovano il minimo di sostentamento e nella preghiera la serenità, vanno a votare gli esponenti  del clero, ma anche la piccola  e grande borghesia dei bazar si affida ai mullah nella speranza della salvezza eterna.

Sicché i meno abbienti e la piccola e grande borghesia invece di dedicarsi insieme alla lotta per una maggiore giustizia terrena, da sempre rincorrono la benedizione celeste elargita dai mullah e ayatollah, rinunciando al quotidiano in cambio dell’eterno, correndo ubbidienti ai seggi perché sono i preti che gli ordinano di farlo.

Beninteso, la fede nelle generazioni nate dopo la Rivoluzione del 1979 assume un senso e una rappresentazione diversi da quelli dei loro genitori e soprattutto diversi dalla destra conservatrice e fondamentalista. E’ la loro una fede, interiorizzata, individuale, nella quale non c’è spazio per la violenza.

L’immagine che i giovani (o meglio la maggioranza di essi) hanno di Dio non è quella del Dio che punisce, ma quella del Dio misericordioso che crea il mondo e benedice “i cinque”, i “pang tan”, cioè la Sacra Famiglia: Maometto, sua figlia Fatima, suo cugino e genero Ali, e i due figli di Fatima e Ali, Hasan e Hussein. Almeno questo è quanto si coglie scorrendo i numerosi blog che non sono soltanto luoghi di fermento religioso, ma anche spazio di critica, di espressione personale e discussione con i laici più radicali.

Naturalmente la nuova generazione ha avuto un’educazione lontana dalle influenze della società occidentale soltanto nelle apparenze. In realtà la sincronia di un Islam politicizzato e onnipresente nella vita quotidiana e l’inevitabile impatto con le culture straniere, enfatizzato dai vari media, ha stimolato nella società civile una rilettura della dottrina religiosa sciita che ancora non si è compiuta.

Per completare il quadro va pure ricordato che l’Iran ha il miglior sistema d’istruzione dell’intero mondo musulmano, con una popolazione culturalmente più avanzata e aggiornata. Tuttavia, trentatre milioni sui quarantotto milioni degli aventi diritto che sono andati a votare, non sono pochi. Che la vittoria del clero sia da considerarsi schiacciante non è un’esagerazione. Essa continuerà ancora a condizionare di molto le pressioni americane e tutto quello che accadrà in Mesopotamia nei prossimi tempi.

di Michele Paris

Le elezioni per il rinnovo del Parlamento iraniano (Majlis) di venerdì scorso hanno fatto segnare una larga affermazione dei candidati conservatori della fazione “principalista” vicini al leader supremo della Repubblica Islamica, ayatollah Seyyed Ali Khamenei. A uscire sconfitto è stato così il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, in un voto guardato dall’Occidente soprattutto per verificare il livello di affluenza alle urne e che si è sostanzialmente risolto in una sfida tra le due correnti conservatrici che fanno riferimento alle principali cariche dello stato.

Nelle none elezioni parlamentari dalla rivoluzione del 1979 erano in corsa 3.269 candidati per 290 seggi. A contenderseli dopo mesi di duri scontri di potere tra le due fazioni conservatrici non c’era però praticamente nessun rappresentante dei cosiddetti riformisti. Il Movimento Verde che aveva animato le proteste di piazza dopo le contestate elezioni presidenziali del giugno 2009, e i cui due leader ed ex candidati, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, sono da mesi agli arresti domiciliari, aveva infatti deciso di boicottare il voto.

Secondo l’iraniana Press TV, circa il 75% dei candidati principalisti avrebbe conquistato un seggio in Parlamento. Per il ministro degli Interno, Mostafa Mohammad Najjar, citato dall’agenzia di stampa Fars, il 64,2% degli oltre 48 milioni degli aventi diritto si è recato alle urne venerdì. Nei giorni precedenti, i leader della Repubblica Islamica avevano cercato di convincere il maggior numero di iraniani a votare, così da dare legittimità alle elezioni agli occhi della comunità internazionale. Lo stesso Khamenei la scorsa settimana aveva affermato in un discorso pubblico che un’elevata affluenza avrebbe mandato un chiaro segnale della stabilità dell’Iran a tutto il mondo.

Per i media occidentali, il numero di votanti avrebbe dovuto risultare particolarmente modesto nella capitale, Teheran, dove erano in palio ben 30 seggi. Secondo quanto riportato da Press TV, invece, qui l’affluenza è stata attorno al 48%, mentre anche il corrispondente del Washington Post da Teheran, Thomas Erdbrink, ha confermato che la presenza di elettori in alcuni seggi da lui visitati è apparsa superiore alle aspettative.

Secondo i dati ufficiali e i resoconti della stampa locale, numerosi critici e oppositori di Ahmadinejad sono stati rieletti in Parlamento, a cominciare dallo speaker uscente, Ali Larjani, il suo predecessore nonché consuocero di Khamenei, Gholam Ali Haddad Adel, e l’ex ministro Ahmad Tavakkoli, tutti eletti in rappresentanza di Teheran. Candidati pro-Khamenei hanno ottenuto successi anche nelle città sacre di Mashhad e Qom, così come a Isfahan e Tabriz, considerate roccaforti di Ahmadinejad, il quale ha dovuto incassare anche la sconfitta della sorella minore, Parvin.

In Iran non esistono in realtà partiti ufficiali dotati di programmi o strutture organizzative. I singoli candidati possono presentarsi alle elezioni all’interno di alcune liste collettive. Oltre la metà dei candidati in tutto il paese nel voto di venerdì erano compresi nelle liste di due gruppi, il Fronte Principalista Unito e il Fronte per la Stabilità.

La vittoria e il controllo del Majlis da parte dei conservatori della linea dura permetterà loro con ogni probabilità di assicurare il successo nelle presidenziali del 2013 ad un candidato a loro fedele e, allo stesso modo, di infliggere un colpo letale alle residue velleità di Ahmadinejad di conferire maggiori poteri al presidente della Repubblica Islamica - in particolare in materia di politica estera e di intelligence - a scapito della guida suprema.

Secondo la stampa occidentale, inoltre, la sconfitta di Ahmadinejad potrebbe segnare un certo irrigidimento delle posizioni iraniane sulla questione del nucleare, dal momento che il presidente, a differenza di Khamenei, è considerato meglio disposto verso un accordo con gli Stati Uniti e i loro alleati.

Nonostante l’invito agli elettori di Khamenei a lanciare un messaggio all’Occidente, il voto di venerdì è stato in gran parte una questione interna all’Iran. Una massiccia mobilitazione degli elettori e una netta sconfitta dei candidati pro-Ahmadinejad serve in sostanza al leader supremo e ai suoi seguaci per confermare il loro monopolio sulle strutture di potere, mostrando l’inconsistenza dell’appello al boicottaggio dei riformisti e, soprattutto, il consenso sempre più ridotto nel paese per il presidente.

Il pessimo risultato elettorale dei candidati vicini ad Ahmadinejad è anche il risultato della crescente avversione tra i lavoratori e le classi più disagiate per le politiche economiche di quest’ultimo, come l’avvio del processo di eliminazione dei sussidi ai prezzi dei carburanti e di altri beni di consumo di cui beneficiano decine di milioni di iraniani.

Il risolversi delle elezioni in una sfida interna al fronte conservatore che domina la scena politica iraniana, infine, è anche il risultato della repressione messa in atto dal regime nei confronti del movimento riformista. Centinaia di studenti e attivisti che avevano preso parte alle proteste di piazza del 2009 rimangono infatti in carcere, mentre molti giornali dell’opposizione riformista sono stati chiusi.

Il sostanziale fallimento dei riformisti iraniani è in ogni caso da attribuire in gran parte alla loro incapacità di mobilitare ampi strati della popolazione. Il rapido deteriorarsi del loro appeal è dovuto cioè al fatto che essi rappresentano quasi esclusivamente una fascia della popolazione relativamente ristretta e composta da quegli strati della borghesia iraniana che chiedono il ristabilimento dei rapporti con l’Occidente e l’apertura del paese al capitale estero.

La mancanza di qualsiasi collegamento con le classi più povere urbane e rurali, che hanno rappresentato la chiave del successo elettorale di Ahmadinejad nel 2005 e nel 2009, assieme alla dura risposta delle forze di sicurezza del regime alle proteste di piazza, ha dunque determinato la progressiva marginalità del movimento riformista iraniano, trasformando così anche il voto di venerdì in una contesa di potere all’interno dell’establishment conservatore della Repubblica Islamica.

di Michele Paris

Dopo settimane di polemiche e tensioni diplomatiche, ai dipendenti di alcune ONG finanziate dal governo americano, finiti sotto processo in Egitto, è stato finalmente permesso giovedì di lasciare il paese nord-africano. Il rimpatrio degli attivisti è avvenuto dietro pagamento di una cauzione di oltre 4 milioni di dollari ed è stato seguito da uno strascico di polemiche tra i vertici del regime egiziano e dalle proteste di una popolazione tra cui il sentimento anti-americano continua ad essere ampiamente diffuso.

Secondo quanto riportato dalla Reuters, i dipendenti delle ONG rilasciati sarebbero 15, di cui 8 americani, 3 serbi, 2 tedeschi, un norvegese e un palestinese. Alcuni di loro erano detenuti in carcere, mentre altri si erano rifugiati presso l’ambasciata americana al Cairo. Agli attivisti che hanno lasciato il paese è stata fatta firmare una dichiarazione nella quale si impegnano a tornare in Egitto in occasione del processo a loro carico, anche se, com’è ovvio, nessuno di loro è intenzionato a farlo. Un cittadino americano indagato, in ogni caso, avrebbe deciso di rimanere al Cairo per difendersi dalle accuse in un’aula di tribunale.

Per giungere alla liberazione, l’amministrazione Obama ha fatto ricorso alla minaccia di bloccare sia un prestito in fase di erogazione al governo egiziano da parte del Fondo Monetario Internazionale sia lo stanziamento degli aiuti americani al Cairo, pari a circa 1,3 miliardi di dollari all’anno. Fondamentale per la buona riuscita dell’accordo, di fronte all’impopolarità delle organizzazioni statunitensi, viste come mezzo dell’interferenza di Washington nelle vicende locali, è stato l’intervento dei Fratelli Musulmani e del loro braccio politico (Partito Libertà e Giustizia) che dopo le recenti elezioni detiene la maggioranza nel Parlamento egiziano.

Come ha scritto il New York Times, non è stato però possibile individuare alcun esponente politico, militare o del sistema giudiziario egiziano che abbia dato il proprio assenso all’evacuazione degli attivisti indagati. Quello che viene descritto dal quotidiano newyorchese è un vero e proprio scaricabarile, nel quale accuse reciproche vengono scambiate tra politici e giudici egiziani, nessuno dei quali appare disponibile ad accollarsi la responsabilità dell’accordo con gli USA e a scatenare su di sé l’ira della popolazione. A questo scopo, gli stessi Fratelli Musulmani si sono resi protagonisti di un’operazione di facciata, chiedendo in Parlamento l’apertura di un’indagine ufficiale per stabilire con certezza chi abbia concesso agli attivisti l’autorizzazione ad uscire dal paese.

La contesa era iniziata più di un mese fa con l’emissione da parte dell’autorità giudiziaria egiziana del divieto di lasciare il paese per alcuni attivisti stranieri in seguito all’apertura di un procedimento legale contro organizzazioni no-profit, come le americane NDI (Istituto Nazionale Democratico) e IRI (Istituto Internazionale Repubblicano), entrambe legate alle leadership dei due principali partiti al Congresso USA.

Tra le 43 persone coinvolte nel caso c’era anche Sam LaHood, figlio del ministro dei Trasporti statunitense Ray LaHood e membro dell’IRI. Per costoro l’accusa era di aver violato le leggi locali, risalenti al regime di Mubarak, che richiedono alle ONG straniere di ottenere una speciale licenza delle forze di sicurezza egiziane per poter operare nel paese, così come un’autorizzazione ufficiale per ricevere finanziamenti dall’estero.

Le restrizioni poste alle ONG, per anni con Mubarak al potere non sono state rispettate da queste organizzazioni. Tuttavia, in un clima di forte anti-americanismo dopo la rivoluzione dello scorso anno, le loro attività sono state viste sempre più come un’indebita ingerenza nelle questioni interne di un paese sovrano, così da orientare la transizione egiziana verso un esito favorevole agli interessi di Stati Uniti e Israele.

Quest’ultimo obiettivo, peraltro, è precisamente quello che perseguono sia la giunta militare al potere fin dalla deposizione di Mubarak sia i Fratelli Musulmani e gli altri partiti borghesi nati dopo la rivolta dello scorso anno. Di fronte ad un orientamento di segno totalmente opposto tra la maggioranza della popolazione, per calmare gli animi la nuova classe dirigente egiziana ha cercato così di sfruttare la persecuzione delle ONG americane ed europee, innescando con Washington un conflitto limitato e in gran parte artificioso. Il caso ha però sollevato la prevedibile reazione della Casa Bianca che ha finito per produrre il vergognoso voltafaccia di giovedì delle autorità egiziane e la liberazione degli attivisti sotto accusa.

Secondo un anonimo esponente del governo americano citato dal New York Times, la svolta nelle trattative sarebbe arrivata una decina di giorni fa, quando i Fratelli Musulmani dichiararono pubblicamente il loro appoggio alle ONG straniere, a loro dire fondamentali nella rivelazione delle atrocità commesse dal regime di Mubarak. Successivamente, inoltre, lo stesso partito islamista si è mosso in Parlamento per far approvare una legge che elimini al più presto ogni restrizione sulle attività di queste organizzazioni in Egitto.

A spingere le due parti verso una soluzione positiva della vicenda potrebbe essere stata anche la recente visita al Cairo di alcuni autorevoli senatori statunitensi, tra cui lo stesso presidente dell’Istituto Internazionale Repubblicano, John McCain. L’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca in quell’occasione ha espresso parole di elogio per i Fratelli Musulmani, mostrando come tutte le sue perplessità - così come quelle del governo americano - nutrite nel recente passato per il più antico movimento islamista siano ormai fugate dopo che quest’ultimo, dietro la maschera della rivoluzione democratica, si è mostrato ben disposto ad assicurare il mantenimento degli interessi statunitensi in Egitto, a cominciare dal rispetto del fondamentale trattato di Camp David del 1979 con Israele.

Nonostante un accordo sulla liberazione degli attivisti stranieri fosse dunque a portata di mano, nello scorso fine settimana la situazione sembrava essersi complicata nuovamente quando, all’apertura del processo, il giudice che presiede il caso ha deciso di aggiornare l’udienza alla fine di aprile.

Con il rischio concreto che i dipendenti delle ONG potessero rimanere sotto custodia delle autorità egiziane, quanto meno per parecchie altre settimane, gli Stati Uniti hanno forzato la mano e la minaccia di congelare miliardi di dollari di aiuti ad un’economia in affanno ha finito per sbloccare definitivamente la situazione.

di Mario Braconi

Mentre Wikileaks si sta disgregando, soprattutto a causa del suo carattere e della sua incapacità di leadership, Assange tenta un colpo per ritornare sulla cresta dell’onda. Gliene offre l’opportunità il saccheggio di ben cinque milioni di e-mail sottratte ad un numero imprecisato di impiegati della società di intelligence privata Stratfor (Strategic Forecast) di Austin, Texas.

Benché Assange non abbia rivelato la fonte delle informazioni riservate, lo scorso Natale la Stratfor è stata oggetto di un attacco informatico da parte del collettivo anarchico Anonymous, che, una volta penetrati nei suoi sistemi, hanno sottratto oltre 200 giga di scambi epistolari elettronici non criptati. Uno più uno: Anonymous duetta con Wikileaks ed Assange.

Ed è così che lunedì mattina l’associazione giornalistica Frontline Club, nel quartiere di Paddington a Londra, diventa la vetrina di Assange che, abbandonato il completo scuro, sfoggia uno stile casual chic (jeans e giubbotto di pelle indossato sopra una camicia sportiva). La candida zazzera simpaticamente incontrollata sulla consueta espressione tra l’enigmatico e lo strafottente, il quarantenne australiano annuncia al mondo la pubblicazione delle e-mail riservate scambiate tra la Stratfor e i suoi clienti. Più che la trasparenza in sé e per sé, sembra che egli abbia a cuore le sorti di Wikileaks: non a caso sostiene che la Stratfor abbia preso di mira, oltre che la sua persona, la sua organizzazione.

Sarebbero infatti ben 4.000 le e-mail hackerate correlate all’uno o all’altra. Il resto della filippica è tutto destinato alle malefatte della Stratfor, rappresentata quale essa è in realtà: ovvero una società privata con rapporti intensi e ramificati con il mondo dei media (dalla Reuters alla Gazzetta di Kiev) e con quelli dell’intelligence militare, che si serve di metodi non sempre ortodossi per ottenere le informazioni che vende ai suoi clienti. Nel comunicato stampa si accenna ad un giro di carte prepagate emesse da banche svizzere da utilizzarsi come corrispettivo delle “soffiate”.

I rapporti tra Stratfor e il mondo delle banche d’affari sono certamente molto stretti: in particolare quelli con Goldman Sachs, molti dei cui dipendenti erano destinatari della newsletter pubblicata da Stratfor, come si è appreso quando Anonymous ha messo online tutti gli indirizzi e-mail delle mailing list della società. Tanto è vero che l’amministratore delegato della banca d’affari americana avrebbe investito una bella cifretta (oltre 4 miloni di dollari) in un tale fondo StratCap, il cui scopo sociale sarebbe stato sfruttare le informazioni di Stratfor per ottimizzare i propri investimenti finanziari in titoli di stato e divise.

Non sorprende particolarmente il fatto che una società americana - il cui direttore dell’Intelligence (Fred Burton) viene dritto dritto dai Servizi Segreti del Dipartimento di Stato - abbia obiettivi strategici “allineati a quelli del governo americano”. Tutto sembra tranne che una rivelazione. Inoltre, secondo Assange, la Stratfor passerebbe “dritte” agli agenti del Mossad e sarebbe perfino coinvolta in un misterioso passaggio di documenti di Wikileaks dal Guardian ad Haaretz, avvenuto con la complicità di David Leigh, un giornalista della testata britannica con cui Julian ha litigato. Insomma, come spesso accade quando c’è di mezzo Assange, “molto rumore per nulla”. Cui fa da indigesto complemento un pizzico di antisemitismo strisciante (non è la prima volta che il canuto australiano ne dà prova).

Anche se la versione ufficiale rimasticata normalmente dalla stampa è che la Stratfor sia, se non una Spectre da film di James Bond, certamente una CIA in miniatura, le cose non stanno esattamente così. La reputazione della Stratfor e del suo fondatore e deus ex machina George Friedman sono, e non da oggi, molto discusse. Con una battuta assai efficace Max Fischer, vicecaporedattore del periodico americano The Atlantic, equipara la lettura dei report della società texana a quella del The Economist, solo fatta una settimana più tardi e dopo aver sborsato una cifra astronomica (in effetti, secondo il listino del 2001, un abbonamento alla newsletter costerebbe fino 40.000 dollari all’anno - anche se c’è da scommettere che, una volta che il mondo conoscerà la profondità delle analisi degli impiegati di Friedman, le tariffe crolleranno).

Secondo Fischer, che sostiene di aver ricevuto qualche numero della newsletter come spam, i contenuti tanto preziosi non sarebbero altro che un “pastone” di informazioni di dominio pubblico e di analisi non proprio di primissima mano, dato che spesso assonano con quelle rappresentate il giorno prima sul New York Times. Fischer riporta inoltre la testimonianza via Twitter di una volontaria di un’organizzazione non governativa attiva in Egitto, che sostiene di aver conosciuto personalmente un “agente” della Stratfor: una persona alla sua esperienza in Egitto (pare non sapesse nemmeno raggiungere da solo piazza Tahir) che tra l’altro non parlava una parola di arabo! Se questo è il livello professionale delle risorse sul campo, si può immaginare quanto siano illuminanti le sue analisi strategiche sulla primavera egiziana.

Qualche stralcio dei report di Stratofor è illuminante sul livello di profondità del lavoro degli agenti della società. Prendiamo le “analisi” sull’Italia: “I partiti italiani tendono a cambiare in ogni momento, ma è di fondamentale importanza capire se Berlusconi sia in grado di mantenere il controllo sul paese a dispetto della sua popolarità calante”. Oppure: “Se la recessione picchierà duro, dobbiamo aspettarci una recrudescenza del movimento d’indipendenza dei Lombardi [sic]”; sul nord del Paese: a dispetto della sua evidente disfunzionalità, il nord Italia è in realtà la regione europea più ricca”.

Vediamo anche qualcosa sul Medio Oriente: in una delle e-mail intercettate, Chris Farnham, senior officer della Stratfor, spiega che di un eventuale attacco di Israele all’Iran beneficerebbero soprattutto Russia ed Arabia Saudita (a causa del conseguente aumento dei prezzi del petrolio), sottolineando che il conflitto sarebbe spinto da motivazioni esclusivamente economiche, dal momento che le azioni degli agenti israeliani in Iran avrebbero già castrato le velleità atomiche della Repubblica islamica.

Insomma, sembra proprio che l’intelligence tanto sbandierata dagli uffici marketing della Stratfor nei fatti si riduca a ben poca cosa: informazioni banali, rimasticate da Google, superficiali quando non proprio errate, raccolte da persone con competenze del tutto inadeguate, che mantengono a portata di hacker milioni di e-mail “riservate” ma non crittografate. Perché mai, allora, dare tanta attenzione alla Stratfor?

Prima di tutto perché è stato un bersaglio facile. Inoltre, anche in questo caso pare condivisibile l’analisi di Fischer, che cita una combinazione di “ingenuità e disperazione”. Anonymous è un gruppo di cani sciolti senza una vera agenda politica e alla continua ricerca di un’occasione di visibilità, mentre Assange, dopo l’iniziale colpo giornalistico messo a segno con la pubblicazione del video dell’attacco ai civili messo a segno da un elicottero militare americano in Iraq, ha commesso talmente tanti gravi errori da perdere ogni credibilità e da riuscire a distruggere la sua creatura. Comprensibile da un punto di vista umano il suo tentativo di uscire dall’angolo in cui è stato confinato da una assai discutibile iniziativa giudiziaria originata in Svezia. Resta però l’impressione che si trasformi in un boomerang.

di Alessandro Iacuelli

La notizia è di quelle degne di fare la storia. L'agenzia di stampa ufficiale nordcoreana, la KCNA, annuncia lo stop ai test nucleari, al lancio di missili a lungo raggio e all'arricchimento dell'uranio nell’impianto di Yongbyon. La notizia era stata anticipata da fonti statunitensi. Pyongyang, riferisce la KCNA, darà poi accesso agli ispettori dell'Aiea per monitorare la moratoria. Secondo l’agenzia, la decisione di Pyongyang è da collegarsi ad una richiesta degli Stati Uniti e "per mantenere un'atmosfera positiva" in quelli che vengono descritti come colloqui bilaterali "di alto-livello" con Washington. Gli americani, aggiunge l'agenzia ufficiale, hanno promesso di fornire 240.000 tonnellate di "aiuti alimentari".

Una decisione che fa ben sperare la comunità internazionale e soprattutto gli Stati Uniti. Di sicuro non è affatto casuale che l'annuncio giunge a pochi mesi dal cambiamento di leadership, dopo che il giovane Kim Jong-Un ha assunto la guida del paese alla morte del padre Kim Jong-Il in dicembre.

"Un primo passo nella direzione giusta - ha commentato Hillary Clinton - dopo la morte di Kim Jong-Il avevo detto che il nostro desiderio era quello di vedere i nuovi dirigenti scegliere di portare il loro Paese sul cammino della pace». Soddisfazione anche da parte della Corea del Sud e dell'Aiea, con la speranza che la moratoria porti alla ripresa del dialogo a sei sul programma nucleare nordcoreano, che coinvolge le due Coree, Cina, Giappone e Stati Uniti.

La corsa agli armamenti di distruzione di massa da parte dell'isolato regime comunista parte nel 1980, con la costruzione del centro di arricchimento di Yongbyon, a 100 chilometri dalla capitale. Il 9 ottobre del 2006 Pyongyang conduce il suo primo test nucleare diventando così l'ottava potenza atomica al mondo. Solo quattro mesi dopo, nel febbraio del 2007, accetta in cambio di aiuti di cominciare a smantellare il reattore di Yongbyon e permettere di nuovo l'ingresso nel Paese agli ispettori Aiea.

Il 25 maggio del 2009 Pyongyang annuncia di aver condotto il suo secondo, e fino a oggi ultimo, test nucleare. Il complesso di Yongbyon è considerato la "capitale" del programma nucleare nordcoreano. Si tratta di un reattore da 5 megawatt, un impianto per la produzione di combustibile e di uno per il riprocessamento del plutonio dalle barre di uranio, cui si va ad aggiungere un secondo reattore da 50 megawatt, la cui costruzione fu sospesa nel 1994 e poi ripresa.

Secondo gli esperti, il complesso è in grado di produrre materiale per una bomba atomica l'anno. Avrebbe dovuto essere smantellato in base all'accordo raggiunto nei colloqui a sei del 2007, ma im Jong-Il non lo ha rispettato. Stando alle più recenti informazioni raccolte dai servizi segreti di Stati Uniti e Corea del Sud, l'arsenale balistico nordcoreano sarebbe composto da oltre mille missili di varia gittata.

La Casa Bianca considera la moratoria nucleare nordcoreana come "un primo positivo passo", davvero benvenuto ma che "deve essere seguito da azioni concrete". "Si tratta certamente di uno sviluppo notevole, ma abbiamo bisogno di concentrarci su azioni, come pure gli accordi", ha affermato il portavoce Jay Carney, aggiungendo che Washington continuerà la sua politica a riguardo "con in mente quest'approccio".

E' il primo segno di disgelo dopo la morte del dittatore Kim Jong-il. Il patto, frutto di una serie di intensi negoziati guidati dal segretario di stato americano Hillary Clinton, rappresenta una piccola vittoria diplomatica per il presidente Obama ad appena 9 mesi dalle elezioni presidenziali.

In cambio gli Stati Uniti invieranno 240.000 tonnellate di aiuti alimentari a una nazione dove la popolazione è malnutrita e sull'orlo della fame. Le forniture potrebbero consolidare il potere del nuovo inesperto leader, il 29enne Kim Jong-un, desideroso di migliorare le condizioni di vita della popolazione nell'anno che segna il centenario del nonno Kim Il-sung, il fondatore della nazione.

E' proprio sulle intenzioni del giovane Kim Jong-un, completamente sconosciuto alla diplomazia internazionale, che resta ancora qualche dubbio politico: il patto con gli Stati Uniti sarà valido infatti solo se "i negoziati procederanno in modo positivo". Non sarebbe la prima volta inoltre che Pyongyang viene meno a un accordo stretto con gli Usa, esigendo concessioni aggiuntive o accusando Washington di non rispettare i patti.

Ecco quindi perché il Dipartimento di Stato ha ribadito di restare preoccupato per l'atteggiamento della Corea del Nord in molti campi, ma gli sforzi diplomatici americani, culminati due settimane fa con un terzo vertice bilaterale nel giro di sei mesi a Pechino, getta le basi per riaprire il dialogo a sei sul disarmo, sospeso nel 2009 dopo il lancio sperimentale di una testata nucleare e l'espulsione degli ispettori dell'Aiea.

Il dialogo tra le due Coree, il Giappone, la Cina, la Russia e gli Stati Uniti è secondo Washington il presupposto per poter raggiungere una risoluzione pacifica della crisi nella penisola coreana, e l'America ha ventilato la possibilità di sospendere le sanzioni contro la Corea del Nord se i negoziati dovessero riprendere. Le tensioni tra le due Coree sono pericolosamente salite negli ultimi anni dopo la sospensione degli aiuti umanitari diretti a Pyongyang nel 2008 e l'attacco nordcoreano nel 2010 contro una nave da guerra sudcoreana in cui sono morti 50 marinai.

Ieri la Casa Bianca ha evitato con prudenza di definire quest'ultimo accordo una vittoria per il presidente Obama. Ma indubbiamente da oggi il presidente potrà meglio difendersi dalle critiche della destra repubblicana sui mancati progressi della sua politica estera, specie nei confronti delle nazioni nemiche. Obama si recherà nella Corea del Sud a fine marzo.

Anche Pechino si è aggregata al coro ottimista dei commenti, salutando positivamente la mossa nordcoreana: "La Cina desidera lavorare con le parti per continuare a spingere in avanti il processo del dialogo a sei", ha dichiarato il portavoce del capo della Diplomazia cinese, Hong Lei.


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