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di Alessandro Iacuelli
Il governo di Teheran ha smentito ieri le accuse, riportate dal Washington Post, sulla presunta fornitura di armi chimiche all'ex regime libico guidato da Muammar Gheddafi. "A proposito delle forniture d'armi al regime di Gheddafi, l'Occidente farebbe meglio a guardarsi allo specchio perché l'Iran ha sempre combattuto in prima linea contro le armi chimiche", ha spiegato il portavoce del ministero iraniano degli Affari esteri, Ramin Mehmanparast.
L'amministrazione americana ha deciso nelle scorse settimane di indagare sui legami tra Teheran e l'ex regime libico di Muammar Gheddafi, dopo il ritrovamento di centinaia di proiettili speciali usati per le armi chimiche. Stando a quanto riferito da fonti Usa e libiche al Washington Post, i proiettili, che Tripoli riempiva di gas mostarda, sono stati scoperti nelle ultime settimane in due siti nel centro della Libia. L'intelligence Usa ha quindi avviato un'indagine per capire chi li abbia forniti a Tripoli e diverse fonti hanno subito puntato il dito contro Teheran. "Siamo quasi certi" del fatto che i proiettili sono stati progettati e fabbricati in Iran per la Libia, ha detto un funzionario Usa.
Il Washington Post, a sua volta, cita funzionari statunitensi. I due siti sono ora sotto protezione e sotto la sorveglianza 24 ore al giorno dei drone, hanno assicurato fonti libiche ed americane citate dal quotidiano. La scoperta delle armi ha portato all’apertura di un’inchiesta, guidata dall’intelligence americana, per appurare in quale modo la Libia se le fosse procurate e secondo diverse fonti i primi sospetti sono caduti sull’Iran. "Siamo abbastanza certi di sapere" che i proietti sono stati progettati su misura e prodotti in Iran per la Libia, ha spiegato un alto funzionario americano citato dal quotidiano.
Un altro rappresentante dell’amministrazione Washington, che ha accesso ad informazioni riservate ha confermato che vi sono "gravi timori" sul fatto che sia stato l’Iran a fornire i proietti, sebbene alcuni anni fa. La rivelazione avviene poco tempo dopo che è stato divulgato il contenuto dell’ultimo rapporto dell’Aiea sull’Iran, contenente informazioni secondo cui Teheran avrebbe le capacità per dotarsi di un’arma nucleare, un’accusa che i funzionari iraniani hanno a lungo respinto. Se il sospetto sulle armi alla Libia di Gheddafi in provenienza dall'Iran venisse confermato le tensioni internazionali intorno a Teheran potrebbero ulteriormente rafforzarsi.
L’accusa è stata immediatamente respinta da Mohammed Javad Larijani, consigliere del leader supremo iraniano e fratello dell’ex negoziatore per le questioni nucleari: "Ritengo che tali commenti vengano confezionati dagli Stati Uniti per servire il loro progetto di Iranofobia nella regione e nel mondo intero", ha affermato. "Certamente si tratta di un’altra storia priva di fondamento destinata a demonizzare la Repubblica Islamica dell'Iran», ha aggiunto in una dichiarazione inviata per e-mail e citata dal quotidiano. L’esistenza dell’arsenale ritrovato dimostra una violazione dell’impegno assunto da Gheddafi nel 2004 con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e le Nazioni Unite ad avviare la distruzione di tutte le armi chimiche in mano alla Libia.
Gas mostarda, dunque, impiegato per riempire i proiettili ritrovati, uno dei tanti nomi "coloriti" per indicare il gas più usato come arma chimica fin dalla prima guerra mondiale: l'Iprite. Chimicamente è il tioetere del cloroetano, è un vescicante d'estrema potenza, possedendo la spiccata tendenza a legarsi a molte e diverse molecole organiche costituenti l'organismo.
L'Iprite è liposolubile e penetra in profondità nella pelle, cosicché si aprono devastanti piaghe. Concentrazioni di 0,15 mg d'iprite per litro d'aria risultano letali in circa dieci minuti, concentrazioni minori producono le sopracitate gravi lesioni, dolorose e di difficile guarigione. La sua azione è lenta (da quattro ad otto ore) ed insidiosa, poiché non si avverte dolore al contatto. È estremamente penetrante ed agisce sulla pelle anche infiltrandosi attraverso gli abiti, il cuoio, la gomma e diversi tessuti anche impermeabili all'acqua.
L'iprite fu utilizzata per la prima volta in Belgio, ad Ypres (da cui il nome), il 12 luglio 1917, durante la Prima guerra mondiale, per iniziativa dell'esercito tedesco. Poi, la sua e nostra pagina più nera, dal dicembre 1935 al maggio 1936, quando gli italiani sganciarono in Etiopia circa 85 tonnellate di iprite con bombe da aereo, nonché proiettili di artiglieria caricati ad arsine e vescicanti.
Ora, torna l'iprite, nella Libia di Gheddafi, e s’indica l'Iran, più industrializzato e tecnologicamente più avanzato, come fornitore. Ci sarebbe di sicuro da analizzare se politicamente l'Iran abbia avuto l'intenzione di aiutare Gheddafi, visto che tra i due regimi c’erano differenze politiche niente affatto di poco conto. D'altra parte, da Teheran invitano l'Occidente a "guardarsi allo specchio", e probabilmente con la parola "Occidente" non ci si riferisce agli Stati Uniti ma proprio all'Europa.
Attualmente, le aziende che costruiscono impianti chimici che possono produrre iprite e sostanze simili sono due, e non sono iraniane. Sono la Basf e l'Imhausen, entrambe tedesche. Già nello scorso agosto, quando il regime di Gheddafi era ancora in piedi e non erano ancora stati ritrovati i proiettili all'iprite, un rapporto "confidenziale" dei servizi interni tedeschi aveva denunciato, ma senza conseguenze, alcune attività industriali in Libia delle due aziende.
Non ci fu, e probabilmente non ci sarà, alcun seguito a quel rapporto, in cui si ipotizzava che a progettare e costruire fabbriche per la produzioni di armi chimiche in libia, ma anche a fare formazione ai libici sul come usarle, fossero due aziende con sede a Hong Kong, rivelatesi sedi fantasma e riconducibili proprio a Basf e Imhausen, non certo a qualche fabbrica iraniana. Allora potrebbe anche darsi che il coinvolgimento dell'Iran sia un opportuno coniglio tirato fuori dal cappello, per insabbiare definitivamente i panni sporchi delle premiate industrie europee, in una fase in cui devono fronteggiare una crisi economica senza precedenti.
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di Michele Paris
Per il quinto giorno consecutivo i manifestanti e le forze di sicurezza egiziane si sono scontrati mercoledì al Cairo e nelle strade delle principali città del paese. Nel corso della più grave crisi che sta attraversando l’Egitto dalla caduta di Mubarak lo scorso febbraio, le centinaia di migliaia di persone scese in piazza chiedono alla giunta militare, sostenuta dagli Stati Uniti e dall’Occidente, l’immediata cessione del potere a un governo civile.
La nuova ondata di proteste contro il cosiddetto Consiglio Supremo delle Forze Armate, succeduto al presidente Mubarak e guidato dal maresciallo Mohamed Hussein Tantawi (ministro della Difesa per due decenni durante il precedente regime), era scattata già venerdì scorso con una manifestazione indetta dai Fratelli Musulmani, la forza politica di opposizione meglio organizzata del paese.
Al centro delle richieste del movimento islamista moderato c’era la rinuncia da parte dei militari al processo di transizione da essi stessi delineato e che avrebbe garantito loro la permanenza al potere di fatto fino al 2013, nonché la possibilità di continuare a ricoprire un ruolo di primo piano nella vita politica del paese e fuori dal controllo dei civili.
Il giorno successivo la protesta si è progressivamente allargata, tornando ad includere pacificamente manifestanti musulmani, cristiani copti e secolari dopo mesi di tensioni settarie spesso alimentate dalla stessa giunta militare. Il centro delle manifestazioni è stato ancora una volta piazza Tahrir ma, dalla capitale, le contestazioni si sono diffuse in fretta a Suez, Alessandria, Mansoura, Ismailia e a numerose altre città dell’Egitto.
Già da sabato, l’esercito e le forze di sicurezza hanno affrontato gli egiziani scesi in piazza con metodi violenti e repressivi. Gli attivisti coinvolti nella rivolta hanno denunciato l’utilizzo generalizzato di munizioni vere che hanno causato la morte di decine di persone. Nella giornata di mercoledì, l’ex direttore dell’AIEA e possibile candidato alla presidenza, Mohamed ElBaradei, ha condannato il massacro in corso e l’utilizzo di gas lacrimogeni con agenti nervini.
Secondo l’associazione egiziana a difesa dei diritti umani Elnadeem Center, citata dalla Associated Press, il bilancio dei più recenti scontri sarebbe finora di almeno 38 morti e più di due mila feriti. Le Nazioni Unite hanno condannato fermamente la repressione messa in atto dai militari e l’alto commissario per i diritti umani, Navi Pillay, ha chiesto un’indagine indipendente per appurare le responsabilità dell’accaduto.
Di fronte alla nuova rivolta popolare in corso, il Consiglio Supremo delle Forze Armate è tornato parzialmente sui propri passi circa i tempi della transizione. Nella serata di martedì, il maresciallo Tantawi è apparso così in diretta TV per annunciare un nuovo accordo siglato tra i militari e alcuni gruppi di opposizione, tra cui il partito Libertà e Giustizia dei Fratelli Musulmani.
In seguito ad un vertice di poche ore prima tra una decina di partiti e il generale Sami Enan, capo di stato maggiore dell’esercito e membro della giunta al potere, era stato infatti deciso di confermare l’inizio delle elezioni parlamentari il 28 novembre prossimo, ma di anticipare quelle presidenziali al giugno del prossimo anno, accorciando di qualche mese il processo di transizione. I militari avrebbero anche acconsentito a un referendum popolare sul loro ruolo nel panorama politico egiziano.
Il meeting con il rappresentante del Consiglio era stato in realtà disertato dai partiti di opposizione più importanti, spaventati dalle possibili reazioni della piazza a un nuovo accordo che legittima l’operato delle forze armate. Come previsto, l’annuncio dell’accelerazione del processo “democratico” è stato respinto dai manifestanti in piazza Tahrir, dove nella tarda serata sono confluiti numerosi altri dimostranti accolti dalle violenze della polizia.
L’accordo raggiunto martedì favorisce d’altra parte proprio i Fratelli Musulmani, i quali oltre a non avere avuto praticamente alcun ruolo nel movimento rivoluzionario che ha portato alla caduta di Mubarak nove mesi fa, erano stati finora tra i più convinti sostenitori della giunta militare alla guida del paese. Nonostante il Consiglio delle Forze Armate avesse in precedenza fissato scadenze più lunghe per il trasferimento dei poteri, la nuova proposta lascia ai militari ampi spazi di manovra, soprattutto nel modellare secondo il proprio volere la costituzione ancora da scrivere e sulla quale anche gli stessi Fratelli Musulmani avranno una profonda influenza.
Tutti i raggruppamenti politici che si sono formati negli ultimi mesi, in ogni caso, sembrano temere che la situazione nel paese possa sfuggire di mano, come conferma l’atteggiamento ambiguo che i vari partiti stanno tenendo nei confronti delle proteste di piazza. Lunedì, i Fratelli Musulmani avevano addirittura emesso un comunicato ufficiale chiedendo ai propri sostenitori di non partecipare alle manifestazioni per non offrire un pretesto ai militari di posporre o cancellare del tutto le imminenti elezioni.
Il voto viene visto infatti sia dalle élite egiziane che da Washington come un passaggio fondamentale per completare un delicato processo di transizione e dare una parvenza democratica ad un nuovo sistema che, comunque, difficilmente risponderà alle richieste che stanno alla base della rivoluzione popolare. Lo stesso obiettivo, con ogni probabilità, sarà perseguito anche dal governo di unità nazionale di prossima formazione cui avevano fatto appello sia i militari che i leader dell’opposizione come ElBaradei.
Quest’ultimo sembra essere tra i candidati alla carica di primo ministro dopo che lunedì scorso il governo nominalmente civile guidato da Essam Sharaf aveva rassegnato le dimissioni. Tra i nomi che circolano per il successore dell’ex ministro dei Trasporti di Mubarak c’è anche quello dell’ex leader moderato dei Fratelli Musulmani, Abdel Moneim Aboul Fotouh, anch’egli come El Baradei probabile candidato alla presidenza il prossimo anno.
Nelle ultime settimane, la situazione è tornata nuovamente esplosiva, precisamente a causa del persistente divario non solo tra i manifestanti e una giunta militare preoccupata solo per la difesa dello status quo, ma anche tra i primi e i nuovi partiti che dovrebbero teoricamente rappresentarli. Infatti, mentre la maggioranza della popolazione egiziana aveva correttamente riconosciuto nella giunta militare - i cui membri sono a dir poco compromessi con il vecchio regime - un ostacolo al vero cambiamento, i partiti borghesi sorti a partire da febbraio, così come i Fratelli Musulmani, avevano invece offerto tutto il loro sostegno al Consiglio, dal loro punto di vista considerato come il garante delle conquiste della rivoluzione.
Questo punto di vista è stato condiviso da subito anche dagli Stati Uniti, i quali continuano a temere la possibile “perdita” del più importante paese del mondo arabo. Per Washington, da cui parte oltre un miliardo di dollari all’anno in aiuti verso il Cairo, i militari rappresentano tuttora la garanzia della permanenza dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense in una regione in continuo fermento.
L’apprezzamento espresso verso Tantawi e il suo entourage in questi mesi - ribadito martedì dal Dipartimento di Stato in seguito all’annuncio del nuovo piano per il trasferimento dei poteri alle autorità civili - la dice lunga sugli scrupoli degli USA, interessati esclusivamente alla difesa dei propri interessi strategici tramite la promozione di una giunta militare che fin dall’inizio della rivolta ha agito in tutti i modi per la conservazione di un sistema repressivo e anti-democratico nel quale i suoi membri erano perfettamente integrati.
La presa del potere da parte del Consiglio Supremo delle Forze Armate con un colpo di stato ai danni di Mubarak a febbraio sull’onda delle proteste di piazza ha dunque rappresentato fin dall’inizio una mossa controrivoluzionaria per limitare le richieste di cambiamento che stavano emergendo nel paese. Per questo motivo, a quasi un anno dall’inizio della rivolta, gli egiziani stanno tornando nelle piazze per cercare di completare un processo rivoluzionario rimasto incompiuto e contro il quale agiscono sia la durissima repressione dei militari che le manovre dei partiti politici dell’opposizione ufficiale.
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di Michele Paris
Allo scoccare della mezzanotte di lunedì, la cosiddetta Supercommissione per la riduzione del deficit negli Stati Uniti ha ufficialmente mancato il proprio obiettivo di trovare un accordo per abbassare il debito pubblico americano di 1.200 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Il fallimento della commissione parlamentare bipartisan dovrebbe ora far scattare tagli automatici per lo stesso importo a partire dal gennaio 2013, riguardanti in ugual misura spese militari e programmi sociali domestici.
Vista la scadenza ancora lontana e i timori per una drastica riduzione del budget del Pentagono, in ogni caso, è probabile che nei prossimi mesi verrà comunque raggiunto un qualche accordo per diminuire il deficit pressoché interamente attraverso il contenimento della spesa pubblica.
La speciale commissione (Joint Select Committee on Deficit Reduction) era stata istituita lo scorso mese di agosto con il Budget Control Act, prodotto delle trattative tra democratici e repubblicani nell’ambito dell’innalzamento del tetto del debito pubblico USA. Composta da sei deputati e altrettanti senatori equamente divisi tra i due partiti, la Supercommissione avrebbe dovuto adempiere al proprio mandato entro il 23 novembre, una scadenza in realtà anticipata di 48 ore così da garantire all’Ufficio del Budget per il Congresso il tempo minimo per valutare l’effettiva efficacia dell’eventuale accordo. Le proposte della commissione avrebbero dovuto poi essere sottoposte al voto del Congresso entro il 23 dicembre, senza possibilità di emendamenti o tattiche ostruzionistiche.
L’incapacità dei due partiti di trovare un punto d’incontro era risultato evidente già durante l’estate, nonostante entrambi fossero sostanzialmente in sintonia sui pesantissimi tagli da apportare alla spesa pubblica. I membri della commissione, per cominciare, avevano impiegato parecchie settimane solo per scegliere i propri staff, mentre le audizioni pubbliche preliminari sono state poche e indette con grave ritardo. Solo nell’ultimo mese si è vista una parvenza di trattativa, più che altro per convincere un’opinione pubblica sempre più sfiduciata della serietà dei politici di Washington nell’intervenire seriamente sulla questione del debito.
Con l’appressarsi della scadenza, gli esponenti democratici e repubblicani hanno allora iniziato ad attribuire la responsabilità del fallimento ai rispettivi rivali, accusati di non volere smuoversi dalle loro posizioni iniziali. Già nella giornata di domenica, molti membri della Supercommissione hanno preso parte a varie trasmissioni TV americane per lamentare le ragioni dell’insuccesso e nel pomeriggio di lunedì, rigorosamente dopo la chiusura dei mercati, è giunta la dichiarazione congiunta dei due presidenti della commissione stessa. La senatrice Patty Murray (democratica, Washington) e il deputato Jeb Hensarling (repubblicano, Texas), non senza una punta d’involontaria auto-ironia, hanno così ammesso che “dopo mesi di duro lavoro e intense deliberazioni, siamo giunti oggi alla conclusione che non è possibile presentare al pubblico un accordo bipartisan prima della scadenza fissata”.
I tagli automatici alla spesa che dovrebbero partire nel 2013, come già anticipato, comprendono identiche riduzioni degli stanziamenti per la difesa e per la spesa pubblica, tra cui un due per cento in meno per i rimborsi previsti dal programma sanitario che copre gli anziani (Medicare), quasi l’otto per cento in meno per altri programmi sociali e il dieci per cento in meno per le spese militari.
Per evitare soprattutto quest’ultimo intervento, alcuni parlamentari repubblicani stanno già studiando misure ad hoc da presentare nelle prossime settimane, come hanno fatto intuire Patty Murray e Jeb Hensarling nella loro dichiarazione ufficiale. Il presidente Obama, da parte sua, ha però minacciato di mettere il veto su qualsiasi misura del Congresso volta a eludere l’implementazione dei tagli automatici, anche se nel gennaio 2013 alla Casa Bianca potrebbe esserci un inquilino diverso e con una diversa opinione.
Negli ultimi giorni erano emerse alcune bozze su cui, secondo la stampa americana, sembravano poter convergere le due parti. Venerdì scorso, ad esempio, i democratici avevano avanzato una proposta da 900 miliardi di dollari che comprendeva tagli per 225 miliardi a Medicare, 50 miliardi a Medicaid, 100 ad altri programmi di assistenza e 400 miliardi provenienti da misure fiscali come la soppressione di scappatoie legali che permettono alle aziende e ai redditi più alti di pagare meno tasse. Quando i repubblicani hanno chiesto ulteriori interventi, tra cui l’innalzamento dell’età di accesso a Medicare da 65 a 67 anni e la riduzione degli adeguamenti annuali alle pensioni già erogate, le trattative sono naufragate.
Sempre qualche giorno fa, è toccato poi alla leadership repubblicana proporre un pacchetto meno ambizioso ma che ha avuto identica sorte. Le misure - pari a 643 miliardi di risparmi - erano basate quasi interamente su tagli alla spesa pubblica, con appena 3 miliardi di dollari da recuperare tramite la fine degli sgravi fiscali sugli aerei privati delle corporation. Nulla da fare, infine, anche per la proposta presentata in extremis lunedì da John Kerry e che intendeva posticipare la delicata riforma del sistema fiscale al prossimo anno.
Ufficialmente, il fallimento della Supercommissione è dovuto all’inflessibilità dei repubblicani nel voler raggiungere un accordo basato esclusivamente su tagli alla spesa pubblica e, parallelamente, dei democratici di voler includere nella trattativa un qualche aumento delle tasse per i redditi più alti, ad esempio attraverso la fine dei benefici fiscali voluti da George W. Bush e prolungati dal Congresso l’anno scorso, in scadenza il 31 dicembre 2012.
In realtà, la pretesa dei democratici di battersi per far pagare a tutti gli americani il prezzo del risanamento in maniera equa e a seconda delle loro possibilità si scontra con la natura delle proposte da loro stessi presentate e con la totale disponibilità ad includere nelle trattative il drastico ridimensionamento di qualsiasi programma pubblico (Medicare, Medicaid, Social Security). Più di un’offerta democratica, infatti, prevedeva la riduzione del deficit per importi ben superiori ai 1200 miliardi di dollari previsti dal mandato della Supercommissione, sempre da raggiungere con tagli devastanti e misure fiscali poco più che simboliche a carico delle classi privilegiate. Lo stesso Obama, poco dopo l’annuncio del definitivo fallimento della commissione, ha ribadito il suo impegno per trovare un accordo “in un modo o nell’altro” per ridurre il deficit di 2.200 miliardi di dollari nel prossimo decennio.
Obama, d’altra parte, è costretto a far fronte alle critiche subito sollevate dai candidati alla presidenza per il Partito Repubblicano, i quali lo accusano di aver tenuto un profilo troppo basso nei confronti della Supercommissione. In realtà, erano stati gli stessi membri di quest’ultima a chiedere alla Casa Bianca di rimanere fuori dai negoziati, presumibilmente per evitare di politicizzare un lavoro che era stato presentato come sforzo bipartisan per il bene del paese. Il presidente, inoltre, aveva rinvigorito le proprie credenziali di falco del deficit inviando una sua proposta di accordo per ridurre il debito di addirittura 3.000 miliardi di dollari, includendo tagli a tutto campo alla spesa pubblica.
Quali che siano le prossime mosse dei vertici repubblicani e democratici, la gran parte degli sforzi saranno dedicati in ogni caso all’approvazione di misure che peggioreranno ulteriormente gli standard di vita della maggioranza della popolazione americana. Il tutto a fronte di svariati sondaggi che indicano invece come ci sia nel paese un ampio consenso per un aumento consistente del prelievo fiscale a carico dei redditi più elevati e per un’espansione di programmi sociali sempre più necessari in un periodo di crisi e con la disoccupazione alle stelle.
A conferma del totale scollamento tra la politica di Washington e la popolazione statunitense, così come della natura dei provvedimenti che il Congresso partorirà nei prossimi mesi, c’è una prima misura di bilancio che la Camera e il Senato hanno licenziato qualche giorno fa. La nuova legge, che riguarda cinque ministeri, prevede infatti un taglio di ben 819 milioni di dollari alle spese per il mantenimento e la gestione dell’edilizia pubblica, mentre aumenta in maniera irrisoria (12 milioni) gli stanziamenti per i buoni alimentari (food stamps), proprio mentre continua ad allargarsi drammaticamente in tutto il paese il numero degli americani costretti a sopravvivere al di sotto della soglia di povertà.
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di Michele Paris
Come ampiamente previsto da mesi, le elezioni politiche di domenica in Spagna hanno inflitto una pesantissima lezione al Partito Socialista (PSOE) del primo ministro uscente José Luis Rodríguez Zapatero. Dopo quasi otto anni alla guida del paese, i socialisti sono crollati sotto il peso della crisi economica e di una serie di misure di austerity profondamente impopolari, adottate negli ultimi mesi in risposta alle richieste dei mercati. Ad approfittare dell’annunciato tracollo socialista è stato il Partito Popolare post-franchista (PP) di Mariano Rajoy che ha così conquistato la più importante affermazione elettorale della propria storia.
A conteggi ultimati, il Partido Popular ha ottenuto il 44,6 per cento dei consensi contro il 28,7 per cento del PSOE. Per i popolari questo dato si traduce in 186 seggi alla Camera dei Deputati su 350 complessivi, vale a dire la maggioranza assoluta. I socialisti, i quali hanno incassato la più grave sconfitta dal ritorno della Spagna alla democrazia, sono invece scesi da 169 a 110 seggi, con una perdita di 4,4 milioni di suffragi. L’affluenza è stata di poco inferiore al 72 per cento, leggermente in calo rispetto alla precedente tornata elettorale del 2008.
Quello di Zapatero è il quinto governo europeo a cadere a causa della crisi del debito dall’inizio dell’anno, dopo quelli di Irlanda a febbraio, Portogallo a giugno, Grecia e Italia nelle ultime settimane. La scadenza naturale della legislatura in corso era prevista non prima di marzo, ma il premier socialista aveva annunciato elezioni anticipate lo scorso mese di agosto in seguito al crollo dei consensi per il suo partito e alle pressioni dei mercati. Già a maggio, il Partito Socialista aveva patito una clamorosa sconfitta nel voto amministrativo che aveva causato la perdita anche di alcune roccaforti storiche, proprio mentre esplodeva nel paese la protesta degli indignados.
Come in altri paesi bersaglio della speculazione finanziaria in questi mesi, anche in Spagna l’evoluzione del quadro politico è stata dettata pressoché esclusivamente dai mercati. Nelle ultime settimane, in particolare, il clima per il governo spagnolo si era fatto progressivamente più cupo e gli interessi sui titoli di stato di Madrid erano schizzati verso l’alto, avvicinando pochi giorni fa la soglia fatidica del 7 per cento, limite che fece scattare l’intervento di “salvataggio” del FMI e dell’UE per Irlanda e Portogallo.
Allo stesso modo, come per questi ultimi due paesi, l’appuntamento con le urne per gli elettori spagnoli si è risolto in una pura formalità, dal momento che tutti gli schieramenti erano più o meno esplicitamente concordi sulla necessità di implementare nuove devastanti misure di austerity per riequilibrare il bilancio dello stato. Chiunque avesse vinto il voto in Spagna, e in qualsiasi misura, il programma di governo era infatti già ben delineato e accettato da tutte le forze politiche. Nel concreto, come chiedono l’Europa e i mercati, ciò che attende gli spagnoli nei prossimi mesi sono nuovi tagli alla spesa (in particolare nei settori di educazione e sanità), privatizzazioni e ulteriori liberalizzazioni nel mercato del lavoro.
A guidare il nuovo governo sarà il 56enne Mariano Rajoy, già membro del governo di centro-destra di Aznar tra il 2001 e il 2004 e già sconfitto da Zapatero nelle elezioni del 2004 e del 2008. Il suo partito non ha avuto nemmeno bisogno di presentare un programma di governo dettagliato, poiché è stato sufficiente fare affidamento sulla rabbia degli elettori nei confronti dei socialisti. Significativamente, la campagna elettorale si è svolta in tono minore, con i vari partiti che hanno addirittura rinunciato ad inondare le città spagnole con i consueti manifesti e volantini elettorali.
Durante i festeggiamenti seguiti all’annuncio dei risultati, Rajoy ha fatto un appello all’unità del paese per mettere in atto uno sforzo comune di fronte alla “più difficile situazione economica che la Spagna deve affrontare da 30 anni a questa parte”. Il premier in pectore ha poi sottolineato che la Spagna tornerà ad essere rispettata a Bruxelles, confermando però la totale disponibilità ad applicare le ricette dell’UE, dal momento che Madrid non rappresenterà più un problema, bensì “parte della soluzione”.
L’emorragia di consensi per il PSOE ha prodotto un discreto risultato per i partiti minori e per quelli su base regionale. I nazionalisti catalani (Convergència i Unió, CiU), ad esempio, hanno conquistato 16 seggi, sei in più rispetto al 2008, mentre il partito nazionalista basco Amaiur, fondato a settembre, ne ha ottenuti 7. La Sinistra Unita (Izquierda Unida, IU) è ugualmente passata da 2 a 11 seggi nella camera bassa. In generale, i partiti minori hanno raddoppiato la loro rappresentanza, da 26 a 54 seggi complessivi.
Il trionfo del PP, in ogni caso, indica una chiarissima disaffezione nei confronti del PSOE da parte di giovani, lavoratori, disoccupati e classe media e, soprattutto, come anche in Spagna sia del tutto assente un qualsiasi programma politico alternativo a quello stabilito dall’Europa e dai mercati finanziari per uscire dalla crisi in atto.
Sotto la guida di Zapatero, l’economia spagnola è passata da un periodo di crescita sostenuta al collasso dopo la crisi globale esplosa nel 2008. Dal momento che la Spagna aveva beneficiato del boom immobiliare degli ultimi anni, il crollo di questo settore ha avuto effetti particolarmente rovinosi per la maggior parte della popolazione, tanto che il tasso di disoccupazione continua ad essere di gran lunga il più alto di tutta l’Unione Europea (21 per cento; oltre il 40 per cento per i giovani con meno di 25 anni).
Il salvataggio delle banche coinvolte nella crisi con un massiccio intervento statale, qui come altrove, ha poi contribuito al dissesto delle casse pubbliche. Il rimedio, diligentemente adottato dal governo socialista, è stato allora quello di intervenire con tagli alla spesa sociale e licenziamenti di dipendenti pubblici, come richiesto dai mercati. Misure draconiane che hanno inevitabilmente fatto crollare il livello di popolarità del premier Zapatero. Quest’ultimo, ormai profondamente screditato, aveva perciò annunciato il ritiro dalla scena politica, passando il testimone al suo ex ministro degli Interni, il 60enne Alfredo Pérez Rubalcaba.
Anche se l’attenzione del governo sarà monopolizzata dall’economia, con il Partito Polare di nuovo al potere, parte della legislazione sociale di impronta progressista implementata dal PSOE in questi anni potrebbe essere a rischio. La liberalizzazione dell’aborto o la legalizzazione dei matrimoni gay erano state infatti duramente criticate dal PP e dai vertici della Chiesa Cattolica che, com’è probabile, spingerà ora per rimettere indietro le lancette dell’orologio.
È sul fronte della politica economica, tuttavia, che nei prossimi mesi arriveranno i provvedimenti più pesanti. Già nella giornata di lunedì, gli ambienti finanziari internazionali hanno chiesto a Rajoy di presentare al più presto il proprio programma di austerity. L’obiettivo dichiarato è quello di portare il rapporto deficit/PIL al 4,4 per cento entro la fine del 2012 tagliando la spesa pubblica di qualcosa come 30 miliardi di euro, sprofondando il paese in una nuova recessione. Una prospettiva questa che renderà particolarmente breve la luna di miele degli elettori con l’esecutivo a guida PP, il quale si troverà inoltre a far digerire misure impopolari senza la collaborazione dei sindacati, allineati con il Partito Socialista.
Viste le complesse procedure costituzionali, il nuovo premier spagnolo non sarà insediato prima della metà di dicembre. In queste settimane, c’è da scommetterci, le pressioni dei mercati sulla Spagna aumenteranno in maniera esponenziale, così da creare ancora una volta un clima di inevitabilità per i tagli che si abbatteranno inesorabilmente sugli strati più disagiati che già stanno pagando il prezzo di una crisi per la quale non hanno alcuna responsabilità.
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di Mario Braconi
Come noto, al Governo israeliano non è andato giù il successo palestinese all’UNESCO, che ha riconosciuto la Palestina come suo stato membro. La punizione collettiva messa in atto da Netanyahu nei confronti dei riottosi palestinesi è stata quella di “congelare” i trasferimenti finanziari all’Autorità Palestinese (i dazi sulle merci destinate ai Territori sdoganate presso i porti isrealiani). Anche se la mancata revoca dell’iniquo provvedimento è un tentativo di dissuadere Abbas dal suo tentativo di ricucire con Hamas: o forse no?
Secondo una stima del Financial Times (FT), la somma che Israele si rifiuta di pagare ai Palestinesi è di circa 100 milioni di dollari americani (circa 73 milioni di euro) e rappresenta due terzi delle fonti di finanziamento dell’Autorità Palestinese ma quasi la metà delle sue uscite complessive.
Queste proporzioni spiegano in modo eloquente lo stato delle finanze dell’Autorità Palestinese che, anche anche in condizioni normali, per sopravvivere non può fare altro che ritardare i pagamenti e ricorrere al credito bancario. Con un debito bancario di circa un miliardo di dollari (730 milioni di euro) ed uno scaduto commerciale di 500 milioni (365 milioni di euro), l’Autorità è prossima alla bancarotta.
Poiché circa il 60% del bilancio della ANP è rappresentato dagli stipendi dei suoi dipendenti, continuando a non pagare le somme dovute ai palestinesi Israele sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’Autorità, come ha dichiarato un suo portavoce Ghassan Khatib. Secondo alcuni diplomatici sentiti dal FT l’altro ieri, il governo israeliano sta scherzando con il fuoco: “E’ possibile che l’Autorità riesca a tirare avanti ancora un po’, ma c’è la prospettiva concreta che una parte o l’altra facciano un errore di valutazione che potrebbe condurre ad uno scenario ideale solo per gli estremisti”.
Una ANP azzoppata dall’incapacità di pagare gli stipendi e di erogare servizi ai cittadini è una mina innescata: la rabbia e la frustrazione della popolazione palestinese, oltre a mettere a rischio la tanto sbandierata sicurezza di Israele, potrebbe infatti condurre perfino ad una sommossa palestinese e al conseguente rovesciamento dell’attuale leadership.
Non è un mistero, del resto, che l’obiettivo finale di alcuni importanti ministri israeliani sia esattamente disarcionare Abu Mazen. Avigdor Lieberman lo ha anche dichiarato pubblicamente non più tardi di qualche settimana fa: “Qualsiasi rimpiazzo sarebbe meglio di Mahmoud Abbas”. Il FT ascrive anche il ministro delle Finanze israeliano Yuval Steinitz al gruppo di “strateghi” israeliani convinti che ficcare le mani nel portafoglio dei palestinesi sia un’iniziativa politicamente proficua, oltre che moralmente accettabile.
Sembra sia quella di Steinitz la firma sotto la precedente iniziativa dello stesso tipo, messa in atto a maggio. In quel caso il governo israeliano intendeva censurare l’abbozzo di accordo tra Al Fatah e Hamas, che prevedeva la formazione di un governo tecnico unitario su West Bank e Gaza, e nuove elezioni entro un anno.
Se l’obiettivo israeliano era quello di mettere in difficoltà la possibile riconciliazione tra i due gruppi palestinesi al potere a West Bank e Gaza, si può dire che anch’esso è fallito. Mercoledì, infatti, nel corso di una commemorazione di Arafat a Ramallah, il presidente Mahmoud Abbas ha annunciato che il 23 novembre incontrerà il leader di Hamas Khaled Meshaal, sei anni dopo la cacciata di Al Fatah da Gaza. L’incontro si svolgerà al Cairo: la negoziazione è stata infatti condotta, almeno nelle ultime settimane, da Nader al-Assar, ex console egiziano in Israele, nonché artefice dell’operazione Shalit.
E’ praticamente certo che il potenziale futuro governo di transizione vedrà la defenestrazione dell’attuale primo ministro di Al Fatah, Salam Fayyad, inviso ad Hamas. Abbas finora non si era piegato alle pressioni di Gaza, e aveva mantenuto Fayyad nel suo ufficio, dal momento che è figura ben vista dagli americani e in generale dalla comunità internazionale, ovvero da coloro che pagano il denaro necessario al funzionamento della macchina amministrativa di West Gaza.
Ora lo scenario è cambiato: con gli Stati Uniti che fanno il broncio a causa della corsa di Abbas all’ONU per il riconoscimento dello stato palestinese (pur se in forma diluita) e con i falchi israeliani intenzionati a non mollare nemmeno mezzo shekel ai suoi connazionali, Abbas ha compreso che silurare Fayyad non è più un vero problema. L’abbraccio (soffocante) con i rivali di Gaza è ovviamente una mossa rischiosa per la causa palestinese, se non altro perché non solo gli USA e Israele, ma anche l’Unione Europea la considerano Hamas un’organizzazione terrorista.
Che però si presenta obiettivamente con il vento in poppa: non solo perché politicamente rafforzata dal risultato inusitato dello scambio di prigionieri del caso Shalit. Hamas può beneficiare della revanche islamista, unico risultato certo delle ex primavere arabe, nonché dell’apparente decisione di Abu Mazen di ritirarsi a vita privata. L’unico candidato che potrebbe succedergli, Barghouti, è infatti in un carcere israeliano (e ci rimarrà, per una precisa scelta del governo, che ha escluso il suo nome dalla lista dei prigionieri da scambiare con Shalit). Dunque comincia a dare i suoi frutti il sistematico lavorio israeliano il cui obiettivo finale è delegittimare completamente la fazione palestinese potenzialmente più disponibile ad un dialogo, in modo tale da creare anche a West Bank uno scenario simile a quello inveratosi a Gaza.