di Michele Paris

Nella Repubblica Democratica del Congo, lunedì ha avuto inizio il secondo voto ufficialmente democratico nella travagliata storia del paese centro-africano. I 32 milioni di elettori registrati si sono recati alle urne tra violenze, intimidazioni e accuse di brogli per scegliere i membri del nuovo Parlamento e, soprattutto, il prossimo Presidente, una carica contesa tra Joseph Kabila (in carica dal 2001) e il principale esponente dell’opposizione, il veterano Étienne Tshisekedi.

Il primo voto organizzato interamente dal governo locale senza l’aiuto della comunità internazionale ha fatto registrare da subito una serie infinita di difficoltà. Oltre agli svariati assassini tra le varie fazioni alla vigilia dell’appuntamento elettorale, lunedì in molti seggi sono emersi innumerevoli problemi logistici, come la mancanza di schede o l’assenza di nomi di elettori dai registri ufficiali.

Alla luce delle difficoltà riscontrate quasi ovunque nel paese, la commissione elettorale del Congo ha alla fine deciso di prolungare le operazioni di voto nella giornata di martedì. I risultati finali sono attesi non prima della prossima settimana, visti anche i tempi necessari per il trasferimento delle schede elettorali dalle località più remote alla capitale, Kinshasa, in un paese che dispone di una rete stradale a dir poco disastrata.

Nelle settimane che hanno preceduto il voto, le violenze sono state attribuite soprattutto alle forze di sicurezza del presidente Kabila, le quali si sono rese protagoniste di arresti e torture nei confronti dei sostenitori dell’opposizione. Uno degli episodi più gravi fin qui registrati durante il voto è avvenuto invece a Lubumbashi, capitale della provincia meridionale di Katanga al confine con lo Zambia. Secondo quanto riferito dal Ministero degli Interni, in questa città, ritenuta una delle più prospere e pacifiche del Congo, un gruppo di ribelli mascherati avrebbe attaccato un seggio e un mezzo che trasportava materiale elettorale, causando la morte di cinque persone nel conseguente scontro a fuoco con polizia.

Inoltre, nella provincia del Kasai occidentale, baluardo dell’opposizione, alcuni attivisti hanno dato fuoco a decine si seggi, mentre a est, nel Nord-Kivu, ufficiali dell’esercito sarebbero andati di villaggio in villaggio intimando ai residenti di votare per il presidente Kabila.

I timori più diffusi per la possibile esplosione di nuove violenze riguardano in ogni caso il probabile esito incerto della corsa alla presidenza. Degli undici candidati alla guida del paese, gli unici due con concrete possibilità di successo sono appunto Kabila e Tshisekedi. Quest’ultimo, oppositore storico del deposto dittatore Mobutu Sese Seko e tre volte primo ministro tra il 1991 e il 1997, si é infatti già autoproclamato vincitore delle elezioni, minacciando di far scendere per le strade i suoi sostenitori se i risultati ufficiali non dovessero premiarlo.

Il quasi 79enne Étienne Tshisekedi risulta molto popolare a Kinshasa ed è il leader del gruppo etnico Luba, uno dei più numerosi del paese. Pur essendo in assoluto il politico di opposizione più conosciuto, le divisioni sul fronte anti-Kabila potrebbero penalizzarlo. Il 40enne presidente in carica, oltretutto, è favorito da una modifica costituzionale che ha fatto approvare recentemente e che ha soppresso il secondo turno di ballottaggio nelle elezioni presidenziali. Eventuali dispute, inoltre, saranno decise da una commissione elettorale affollata da membri fedeli a Kabila e guidata dall’amico personale del presidente, Daniel Ngoy Mulunda.

Pur essendo favorito, per molti osservatori Kabila potrebbe essere costretto a far ricorso a brogli elettorali per rimanere in sella. Nel voto del 2006 fu decisivo per il suo successo l’appoggio delle regioni orientali del paese, dove oggi deve invece far fronte alla candidatura autorevole di Vital Kamerhe, ex speaker dell’Assemblea Nazionale e già ministro dell’Informazione. Joseph Kabila è al potere in Congo da quasi undici anni, da quando cioè è succeduto al padre, Laurent-Désiré Kabila, protagonista della deposizione di Mobutu Sese Seko nel 1997 e assassinato nel gennaio del 2001.

I problemi legati ad un voto caotico e dalla più che dubbia regolarità sono comunque molteplici, a cominciare dalla quantità dei candidati. In corsa per i 500 seggi della camera bassa (Assemblea Nazionale) ci sono addirittura 18 mila candidati, mentre in un solo distretto elettorale sono in corsa 1.400 candidati per un singolo seggio.

Inoltre, la legittimità di molti candidati solleva perplessità. In un distretto nella parte orientale del paese, ad esempio, il comandante Ntabo Ntaberi Sheka è alla ricerca di un seggio nel Parlamento nonostante nei suoi confronti il governo centrale abbia emesso un mandato di arresto. Sheka è a capo della milizia paramilitare Mai Mai che nel luglio dello scorso anno commise centinaia di stupri durante un blitz in alcuni villaggi nella stessa area dove ora è candidato.

Secondo quanto riportato dalla testata americana The Christian Science Monitor, l’esito del voto potrebbe avere conseguenze molto gravi sulla stessa integrità nazionale della Repubblica Democratica del Congo. In particolare, in caso di mancata rielezione di Joseph Kabila, le province orientali di Nord e Sud-Kivu sarebbero pronte a dichiarare la secessione. Qui opera il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), una milizia armata Tutsi sostenuta dal governo ruandese che nel 2009 aveva siglato un accordo di pace con Kabila, trasformandosi in un partito politico e integrando i suoi membri nell’esercito regolare.

Il CNDP ha fornito tutto il suo appoggio alla candidatura di Kabila, per il quale ha svolto un’aggressiva campagna elettorale, e una sua eventuale sconfitta potrebbe far riesplodere le tensioni nell’area più precaria del paese. Soprattutto, il CNDP teme un successo di Tshisekedi, il quale recentemente ha affermato che, nel caso fosse eletto presidente, procederebbe a cacciare dal Congo tutti i ruandesi e i loro simpatizzanti, riferendosi precisamente a Kabila e al CNDP stesso.

Dopo il periodo coloniale belga, il Congo (ex Zaire) è stato sottoposto a 31 anni di durissima dittatura sotto Mobutu Sese Seko, deposto solo nel 1997 dalle forze ribelli appoggiate dagli eserciti dei vicini Ruanda, Burundi e Uganda. Da allora il paese, ribattezzato Repubblica Democratica del Congo, è sprofondato nelle violenze di due guerre civili che hanno fatto più di un milione di vittime. La situazione nel paese è tuttora drammatica, soprattutto nelle province orientali, dove continuano ad imperversare svariati gruppi paramilitari.

Tutto questo nonostante il Congo sia uno dei paesi con le maggiori ricchezze naturali del continente africano, con vaste riserve di diamanti, oro, cobalto, rame, petrolio e legname. I benefici di queste risorse, tuttavia, sono andati puntualmente ad una ristretta élite di potere, mentre la gran parte della popolazione è costretta a vivere in estrema povertà, come conferma l’ultimo posto occupato dal Congo nella classifica stilata dall’ONU sull’indice di sviluppo umano di 187 paesi.

Il Congo, infine, ha anche una enorme importanza strategica per l’intera regione centro-africana. L’eventuale instabilità in cui il voto di questi giorni potrebbe far ripiombare il paese potrebbe infatti avere conseguenze pericolose su molti dei nove stati con i quali confina, come i fatti del recente passato hanno già ampiamente dimostrato.

di Michele Paris

Venerdì scorso in Marocco si sono tenute le prime elezioni dopo l’approvazione delle timide riforme costituzionali promosse dal sovrano, Mohammed VI, in risposta alle proteste di piazza che dall’inizio dell’anno stanno interessando anche questo paese nordafricano. A conquistare la maggioranza relativa è stato il partito islamista moderato Giustizia e Sviluppo (PJD) il quale, nonostante la necessità di fare affidamento su altre formazioni politiche per la creazione del nuovo governo, potrà per la prima volta indicare il nome del prossimo primo ministro.

Quello del PJD in Marocco è il secondo successo elettorale in poche settimane ottenuto da un partito d’ispirazione islamica, sia pure moderata, dopo l’affermazione di Ennahda in Tunisia, mentre precede la probabile vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto, dove la prima fase del discusso processo di transizione ha preso il via con il voto di lunedì.

Secondo i risultati definitivi annunciati dal governo, il PJD ha conquistato 107 seggi sui 395 complessivi del parlamento marocchino, vale a dire più del doppio della sua attuale rappresentanza (46). Come stabilito dalle recenti modifiche costituzionali, il nuovo premier verrà scelto dalle fila del partito con il maggior numero di seggi che procederà poi a formare la coalizione di governo. Candidato alla carica di primo ministro è il segretario del partito, Abdelilah Benkirane, il quale dovrebbe diventare non solo il primo capo di governo marocchino espressione di una consultazione popolare, ma anche il primo appartenente ad un partito islamista. Fino ad ora, il sovrano aveva facoltà di indicare un primo ministro di sua scelta e l’incarico era perciò sempre stato assegnato ad un esponente dei partiti che tradizionalmente orbitano attorno alla corte alauita.

Non avendo raggiunto la maggioranza assoluta nel nuovo parlamento, il PJD dovrà trovare dei partner di coalizione. Molto probabile appare un accordo con l’attuale formazione di governo, il partito nazionalista conservatore Istiqlal (Indipendenza). Quest’ultimo, storico partito della monarchia marocchina, ha ottenuto 60 seggi (+ 8 rispetto al 2007) e l’attuale premier, Abbas El Fassi, nella giornata di sabato ha già confermato di essere pronto ad entrare in un governo di coalizione con Giustizia e Sviluppo. Al terzo posto, con 52 seggi (+ 13), si è posizionato poi un altro raggruppamento vicino al sovrano, l’Unione Nazionale degli Indipendenti (RNI) di centro-destra, guidato dal Ministro delle Finanze in carica, Salaheddine Mezouar.

Come nel resto del mondo arabo, anche in Marocco a inizio anno avevano cominciato a diffondersi proteste popolari che chiedevano una democratizzazione del sistema, monopolizzato dall’istituzione monarchica. Qui, tuttavia, le manifestazioni sono sempre state relativamente contenute e non si sono verificati gravi episodi di violenza come in altri paesi. In risposta alle richieste avanzate principalmente dal Movimento 20 Febbraio, Mohammed VI si era comunque mostrato disponibile a rinunciare ad alcune prerogative reali e a lanciare riforme di facciata.

Un’apposita commissione da lui istituita aveva così studiato una serie di riforme costituzionali che sono state poi approvate a larga maggioranza tramite un referendum popolare nel mese di luglio. In base alle nuove misure, il sovrano è stato privato del potere di controllo sul sistema giudiziario, ma anche, come già anticipato, di scegliere il primo ministro senza tenere conto dei risultati elettorali e di sciogliere il parlamento. Queste e altre modifiche, tuttavia, hanno mantenuto sostanzialmente immutata la struttura del potere in Marocco, dove la monarchia continua ad avere un ruolo centrale. Il re conserva, infatti, tutto il proprio potere decisionale, ad esempio sulle questioni religiose, sulla politica estera e in materia di sicurezza e difesa.

Mohammed VI era salito al trono nel 1999 in seguito alla morte del padre, Hassan II, e viene generalmente considerato in Occidente come un riformatore che ha relativamente aperto la società marocchina e limitato gli abusi dei diritti umani nel paese. Nonostante una serie di misure di impatto limitato, il Marocco in questi dodici anni non ha in realtà evidenziato progressi democratici significativi, come confermano le persistenti detenzioni per motivi politici e le distorsioni seguite alla partnership con Washington nell’ambito della cosiddetta guerra al terrore.

La risposta della maggioranza della popolazione marocchina ai presunti cambiamenti del panorama politico marocchino negli ultimi mesi è sembrata in ogni caso piuttosto tiepida. L’affluenza alle urne ha fatto segnare qualche progresso dalle ultime elezioni nel 2007, passando dal 37 al 45,4 per cento. Il dato di venerdì è però nettamente inferiore rispetto al 2002, quando votò il 51,6 per cento degli elettori registrati. Oltre alla disillusione per un sistema in gran parte identico al recente passato, sul numero dei votanti ha influito anche l’appello all’astensione del Movimento 20 Febbraio, che ritiene inadeguate le riforme di Mohammed VI e continua a chiedere una monarchia costituzionale sul modello britannico.

Il partito Giustizia e Sviluppo si ispira all’omonimo partito di governo turco e promuove un Islam moderato. Nel corso della campagna elettorale appena conclusa sono stati pressoché totalmente tralasciate le questioni religiose, per puntare piuttosto sulle emergenze economiche e sociali degli strati più disagiati della popolazione. Come Ennahda in Tunisia, d’altra parte, anche il PJD intende dare un’immagine rassicurante di sé come prossima forza di governo, così da non inimicarsi i partner occidentali del Marocco.

Il PJD, oltretutto, appoggia la casa reale, al contrario di al-Adl Wal Ihsane (Giustizia e Carità), un altro movimento islamista di massa, ufficialmente illegale anche se tollerato dal governo, che ha partecipato alle proteste di piazza promosse dal Movimento 20 Febbraio e, come quest’ultimo, ha insistito per il boicottaggio delle elezioni. Il successo del PJD conferma comunque il discredito dei partiti vicini al sovrano o nominalmente di opposizione. In mancanza di valide alternative, la maggioranza dei marocchini che si sono recati alle urne ha scelto di votare per gli islamisti moderati, i cui appelli populisti hanno avuto un certo successo tra le classi medie e quelle più povere.

Nonostante alcune agenzie di stampa abbiano scritto di insolite apparizioni sulle TV locali di giornaliste marocchine con l’hijab all’indomani del voto, è improbabile che la vittoria del PJD possa produrre una svolta in senso islamista o anti-occidentale in Marocco. A confermarlo sono stati, tra l’altro, i commenti positivi dei governi di Francia e Stati Uniti. Da Parigi, il Ministro degli Esteri, Alain Juppé, ha affermato che “il risultato del voto va rispettato” e che a suo parere il PJD “ha posizioni moderate”. Da Washington, invece, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, si è congratulata per il “successo delle elezioni”, ricordando che i leader scelti dal voto “non saranno giudicati soltanto da quello che dicono ma anche da quello che fanno”. A cominciare dalla disponibilità a continuare ad assecondare gli interessi americani, ovvio.

di Michele Paris

Scaduto l’ennesimo ultimatum contro il governo di Bashar al-Assad, la Lega Araba ha dato il via libera domenica ad una serie di sanzioni che dovrebbero convincere la Siria a fermare la repressione delle proteste in corso nel paese da oltre otto mesi. La risoluzione approvata al Cairo, la cui efficacia sarà tutta da verificare, segna un ulteriore passo verso un possibile intervento esterno nella crisi siriana, obiettivo a cui puntano sempre più apertamente gli Stati Uniti e le potenze regionali del Medio Oriente per rovesciare il regime di Damasco.

La nuova scadenza per l’accettazione del piano proposto dalla Lega Araba era fissata a venerdì. Il giorno successivo, in assenza di una risposta positiva dalla Siria, la Lega Araba ha rispolverato una bozza di sanzioni sulla quale si era già accordata qualche giorno prima, senza la delegazione di Damasco, durante un summit nella capitale marocchina, Rabat. Come ampiamente previsto, ieri è arrivato infine il voto decisivo da parte dei ministri degli Esteri riunti al Cairo con 19 favorevoli e due astensioni (Iraq e Libano).

Secondo le richieste della Lega Araba, la Siria avrebbe dovuto accettare l’ingresso nel paese di osservatori internazionali, ritirare le forze di sicurezza dalle città interessate dagli scontri e aprire immediatamente un dialogo con l’opposizione. In presenza di gruppi armati sempre più attivi negli ultimi mesi contro le forze del regime, l’accettazione delle condizioni della Lega Araba da parte di Damasco senza vincoli per l’opposizione avrebbe tuttavia rappresentato un vero e proprio suicidio per il governo. Da qui il previsto - e verosimilmente desiderato - rifiuto ad adeguarsi da parte di Assad.

Le sanzioni appena approvate al Cairo comprendono lo stop a tutti i rapporti d’affari con la Banca Centrale siriana, la sospensione dei voli commerciali, il divieto di espatrio tramite gli aeroporti dei paesi arabi per alcuni esponenti di spicco del regime, il congelamento dei beni siriani negli stessi paesi arabi e il ritiro degli investimenti di questi ultimi in Siria.

In linea teorica, queste misure dovrebbero avere effetti molto pesanti, dal momento che la metà delle esportazioni siriane sono destinate proprio ai paesi arabi, così come da essi Damasco riceve almeno un quarto delle proprie importazioni. I meccanismi d’implementazione delle sanzioni imposte dalla Lega Araba non sono però del tutto chiari e, soprattutto, non tutti i paesi dell’organizzazione appoggiano l’iniziativa. Libano e Iraq, ad esempio, hanno già fatto sapere di non essere intenzionati a rendere effettive le sanzioni.

La risposta alla nuova iniziativa della Lega Araba è stata accolta duramente a Damasco. Il Ministro degli Esteri, Walid al-Muallem, ha indirizzato una lettera all’organizzazione panaraba, accusandola di voler “internazionalizzare” il conflitto in Siria. Muallem ha inoltre sollevato una serie di questioni relativamente alla proposta della Lega, tra cui il mancato accoglimento della richiesta del regime di coordinare con le autorità locali l’attività degli osservatori e l’assenza di qualsiasi riferimento alla necessità di fermare le violenze di cui si è resa protagonista l’opposizione.

Quest’ultimo punto risulta particolarmente significativo e dimostra le reali intenzioni della Lega Araba, o meglio delle autocrazie del Golfo che stanno coordinando la campagna anti-siriana al suo interno. La Lega infatti non intende fare alcun appello all’opposizione armata al regime di Assad - rappresentata principalmente dal cosiddetto Esercito Libero della Siria e da gruppi estremisti salafiti - perché a finanziarla e sostenerla sono precisamente paesi come Arabia Saudita, Qatar e la fazione sunnita in Libano vicina all’ex premier Saad Hariri.

Le sanzioni della Lega Araba fanno seguito a quelle già adottata unilateralmente da Stati Uniti e Unione Europea e che prendono di mira anche il settore petrolifero siriano. Altre manovre sono già in corso per aumentare le pressioni sul governo di Assad. La Francia, ad esempio, ha proposto la creazione di “corridoi umanitari” per far giungere cibo e medicinali ai civili isolati dalle operazioni militari. Questa iniziativa sarebbe un evidente pretesto per giustificare un qualche intervento armato in Siria, come ha confermato il Ministro degli Esteri di Parigi, Alain Juppé, secondo il quale i convogli destinati ai civili necessiterebbero appunto di protezione militare. La Turchia, a sua volta, dopo l’invito a lasciare fatto recentemente dal premier Erdogan ad Assad, ha confermato di aver predisposto delle proprie sanzioni, che verranno implementate di comune accordo con quelle della Lega Araba.

La campagna internazionale contro la Siria verrà poi ulteriormente rinvigorita questa settimana, in seguito alla prevista pubblicazione di un rapporto stilato da una commissione “indipendente”, sponsorizzata dall’ONU e incaricata di investigare sulle forze armate siriane, accusate di aver commesso crimini contro l’umanità. Giovedì scorso, peraltro, pochi giorni dopo la sospensione di Damasco dalla Lega Araba, la commissione per i diritti umani dell’Assemblea Generale dell’ONU aveva già votato a maggioranza per condannare la repressione in Siria.

Che le violenze nel paese siano ormai commesse da entrambe le parti è confermato dai quotidiani resoconti delle vittime. Nel fine settimana appena trascorso le autorità siriane hanno dato ampio spazio ai funerali di 22 membri delle forze armate uccisi in vari attacchi dell’opposizione. Secondo quanto riferito da alcuni attivisti, nella sola giornata di sabato sono state 16 le vittime civili nella sola provincia di Homs, mentre l’Osservatorio sui Diritti Umani in Siria - di stanza in Inghilterra - ha ammesso che nella parte orientale del paese i disertori dell’esercito hanno ucciso 10 soldati.

Gli sviluppi più recenti della crisi siriana, in definitiva, sono la conseguenza delle trame orchestrate in questi mesi dalle potenze occidentali e regionali, a cominciare da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Questi governi - come già accaduto in Libia - hanno sfruttato l’esplosione più che legittima del malcontento diffuso tra la popolazione siriana nei confronti del governo di Assad per promuovere un cambio di regime inteso principalmente a colpire e isolare il nemico numero uno in Medio Oriente, l’Iran, e di riflesso anche Russia e Cina.

Per raggiungere questo obiettivo, così, viene fornito appoggio ad un’opposizione in buona parte screditata e ben poco rappresentativa della popolazione siriana, legittimandola agli occhi della comunità internazionale anche grazie ad una incessante campagna di stampa. L’opposizione “ufficiale” al regime di Assad è rappresentata dal Consiglio Nazionale Siriano - composto da dissidenti filo-americani riuniti sotto la Dichiarazione di Damasco e dai Fratelli Musulmani - e dal già ricordato Esercito Libero della Siria, che ha istituito le proprie basi oltre confine, in Turchia e in Libano.

Per gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo, rimuovere Assad significherebbe assestare un colpo mortale all’Iran, scardinando l’arco sciita in Medio Oriente che, oltre a Teheran, comprende appunto l’alleato siriano ed Hezbollah, in Libano. A questo piano hanno dato il loro assenso anche Turchia e Israele, nonostante Ankara nel recente passato avesse instaurato rapporti economici e diplomatici piuttosto intesi con Damasco e Tel Aviv vedesse Assad sì come un nemico, ma tutto sommato affidabile e garante di una certa stabilità.

L’atteggiamento sempre più aggressivo dell’Occidente e della Lega Araba nei confronti della Siria rischia allora di infiammare l’intera regione. La minaccia sempre più concreta della caduta di Bashar al-Assad trascinerebbe infatti nel conflitto con ogni probabilità non solo l’Iran e gli sciiti libanesi ma, in qualche modo, anche una Russia che, con la fine dell’alleato a Damasco, vedrebbe a rischio i propri interessi in Medio Oriente e che, non a caso, continua a insistere per una soluzione negoziata alla crisi siriana.

di Carlo Musilli

Cacciare un dittatore non basta per essere liberi. Quello che sta accadendo nello Yemen lo dimostra meglio di ogni altra vicenda della primavera araba. Giovedì il Paese si è liberato del suo despota, Ali Abdullah Saleh, che dopo 33 anni di regno ha finalmente siglato un accordo di transizione. L'intesa però gli garantisce la totale immunità, una clausola inaccettabile per i manifestanti anti-regime.

Le migliaia di persone che da dieci mesi occupano le strade di Sana'a, la capitale, hanno annunciato che continueranno a protestare finché il dittatore non sarà processato per le centinaia di vittime provocate dalle sue repressioni. Nello stesso giorno della presunta liberazione, cinque persone sono state uccise dai miliziani in borghese.

Oltre all'amnistia, il piano prevede anche che Saleh mantenga la carica onorifica di presidente per tre mesi, trasferendo i poteri effettivi al suo vice, Abd Rabbo Mansour Hadi, che nello stesso arco di tempo dovrà costituire un governo di unità con le opposizioni e indire nuove elezioni presidenziali.

L'accordo, appoggiato dall'Onu, era stato proposto lo scorso aprile dai sei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Bahrein). Per tre volte Saleh aveva rifiutato di firmare. Oggi però, di fronte alla prospettiva di vedersi congelare tutti i beni, com'è accaduto a Muammar Gheddafi, si dice pronto a "cooperare con il nuovo governo e con l'opposizione" per "ricostruire il Paese".

Intanto, il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ci fa sapere che a breve il dittatore si recherà negli Usa per "cure mediche". Sarebbe questa una degna conclusione per il rapporto di amore e odio che negli ultimi decenni ha legato Saleh agli Stati Uniti. Durante l'amministrazione Bush il Presidente yemenita era considerato da Washington un alleato da preservare in funzione anti Al-Qaeda.

Negli ultimi anni però il suo potere è stato progressivamente logorato dalle spinte autonomiste delle tribù, oltre che dalle proteste della popolazione contro il dispotismo e la corruzione del regime. L'esempio di tunisini, egiziani e libici ha fatto il resto. Intanto, i gruppi legati ad Al-Qaeda hanno approfittato delle rivolte esplose lo scorso inverno per riorganizzarsi nel sud del Paese. Ed è stata questa la vera rovina di Saleh. Agli occhi degli americani il vecchio amico si è trasformato in una minaccia.

Non a caso il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Mark Toner, ha detto che l'accordo firmato a Riyadh è "un passo importante" verso una "transizione pacifica". Parole colme di speranza sono arrivate anche dal nostro nuovo ministro degli Esteri, Giulio Terzi: "L'Italia saluta con favore la notizia dell'accordo per la transizione politica in Yemen, si legge in un comunicato della Farnesina. Ora è necessario che l'accordo venga attuato pienamente e che cessi ogni violenza".

E' l'auspicio di tutti, ma purtroppo l'intesa che ha portato alla caduta di Saleh non lascia ben sperare. Le zone d'ombra sono troppe. Da chi sarà composto il governo di transizione? Chi guiderà l'esercito? Anche se il dittatore non c'è più, non è ancora chiaro se e da chi i suoi uomini saranno sostituiti. A cominciare da Ahmed, comandante della Guardia Repubblicana e figlio di Saleh.

Altre incertezze riguardano i veri detentori del potere nella società yemenita, i capi tribali. Nessuno sa dire quanti di loro (e sono oltre duecento) siano disposti ad accettare pacificamente la transizione pianificata. Tanto più che Mansour Hadi, l'uomo che dovrebbe traghettare il Paese alle elezioni, è considerato da molti come una figura debole, priva dell'appoggio politico e militare necessario a svolgere un compito del genere.

Quello che servirebbe allo Yemen è una riforma complessiva delle istituzioni in senso liberale. Il Parlamento esiste, ma allo stato attuale è praticamente destituito di ogni funzione. Se nulla cambierà nell'ordinamento, il successore di Saleh avrà quindi gli stessi poteri del suo predecessore. Senza contare che eleggere un nuovo leader in appena tre mesi - e senza alcun periodo di decantazione - significa scatenare scientemente una lotto alla successione che si preannuncia feroce. Un po' come decapitare il mostro e rimanere a guardare mentre gli cresce una nuova testa.

 

di Michele Paris

Sono state finalmente rese pubbliche le conclusioni della speciale commissione d’indagine “indipendente” sulla repressione delle proteste popolari andate in scena la scorsa primavera in Bahrain. Il gruppo di esperti che ha cercato di fare luce sugli abusi nella piccola monarchia del Golfo Persico, da un lato ha denunciato l’uso eccessivo della forza da parte del regime, dall’altro ha escluso qualsiasi responsabilità del governo nel pianificare il brutale soffocamento della rivolta.

La commissione era stata creata nel mese di giugno dal sovrano del Bahrain, Hamad bis Isa al-Khalifa, ed era guidata dal giurista egiziano, esperto di crimini di guerra, Mahmoud Cherif Bassiouni. Nonostante una simile iniziativa appaia finora come una novità assoluta nei regimi del mondo arabo travolti dalle proteste, il compito assegnatole era sostanzialmente quello di coprire le responsabilità dei vertici del regime nella repressione per attribuirle solo ad alcuni membri delle forze di sicurezza.

Già lo scenario nel quale si è svolta la presentazione del rapporto di 500 pagine la dice lunga sulla presunta indipendenza della commissione. Nella capitale del Bahrain, Manama, Bassiouni è apparso in una conferenza stampa di fronte a numerosi esponenti del governo locale - oltre che a giornalisti e associazioni a difesa dei diritti umani - sostenendo che durante le proteste sono stati impiegati metodi violenti e commesse torture per estorcere false confessioni agli attivisti arrestati.

Le parole di Bassiouni non hanno lasciato spazio a molti equivoci su ciò che è accaduto nel paese tra febbraio e marzo. “I metodi usati dalle forze di sicurezza”, ha denunciato il giurista egiziano, “hanno causato gravi violazioni dei diritti umani, comprese uccisioni e torture. Il ricorso ingiustificato ad una eccessiva forza si è accompagnato ad un comportamento che ha diffuso il terrore tra la popolazione civile”. Inoltre, “numerosi detenuti sono stati sottoposti a torture fisiche e psicologiche”. Secondo Bassiouni, infine, i responsabili degli abusi hanno goduto finora di una totale impunità.

La vera natura dell’iniziativa di facciata del sovrano del Bahrain, nonché della stessa commissione, è emersa dalla conclusione tratta da Bassiouni, secondo il quale non esisterebbero prove per sostenere che il governo abbia deliberatamente messo in atto dall’alto una politica repressiva fatta di abusi e torture per reprimere la rivolta. Con il sostegno più o meno esplicito dei suoi principali sponsor - Arabia Saudita e Stati Uniti - il sovrano del Bahrain e la sua cerchia di potere, invece, hanno precisamente deciso da subito di reprimere nel sangue le manifestazioni pacifiche che potevano mettere a rischio la stabilità del paese. Proprio per questo, nessuno dei responsabili materiali degli abusi, né tanto meno i loro superiori, é stato chiamato a rendere conto delle proprie azioni, come ha appunto rilevato la commissione.

Nel suo rapporto, Bassiouni raccomanda poi al governo l’istituzione un corpo indipendente per indagare ulteriormente sui responsabili delle violenze e per riesaminare le centinaia di sentenze di condanna emesse in questi mesi dai tribunali speciali contro gli attivisti arrestati. Il tutto, ovviamente, per cercare di ripulire l’immagine del Bahrain agli occhi della comunità internazionale, soprattutto in Occidente.

Nel piccolo stato del Golfo Persico a maggioranza sciita, sulla scia degli eventi in Tunisia ed Egitto, nel mese di febbraio erano scoppiate proteste di massa contro il regime sunnita di Hamad bin Isa al-Khalifa. Centinaia di migliaia di manifestanti scesi nelle piazze - in particolare sciiti, nonostante le proteste non avessero evidenziato un carattere settario - intendevano dare sfogo a frustrazioni decennali nei confronti di un regime anti-democratico e discriminatorio.

La rivolta è stata alla fine soffocata duramente, anche grazie all’intervento militare dei vicini Arabia Saudita ed Emirati Arabi, spaventati dal possibile contagio delle proteste. In un paese che conta poco più di 1,2 milioni di abitanti, alla fine il bilancio fu di svariate decine di morti, centinaia di arresti e migliaia di licenziamenti, sia nel settore pubblico che in quello privato, per coloro che avevano partecipato alle manifestazioni.
 
Dopo la pubblicazione del rapporto, il sovrano ha ammesso “una serie di mancanze da parte di alcuni organi del governo” ma ha allo stesso tempo elogiato le forze di sicurezza per aver difeso il paese dalle “provocazioni di agenti interni ed esterni”. Il riferimento è ancora una volta al vicino Iran sciita, accusato fin dall’inizio della rivolta di aver alimentato i disordini e di cercare un cambiamento di regime. Di legami tra la Repubblica Islamica e le proteste in Bahrain, peraltro, non è mai stata presentata alcuna evidenza, come ha confermato la stessa commissione d’indagine presieduta da Bassiouni.

Al tentativo di occultamento delle reali responsabilità delle violenze in Bahrain si sono accodati anche gli Stati Uniti, per i quali questo paese ricopre un’importanza strategica fondamentale in Medio Oriente. Qui trova infatti ospitalità la Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali dispiegate nel Golfo Persico, nel Mar Rosso, nel Mare Arabico e al largo delle coste orientali dell’Africa fino al Kenya. Nel corso della crisi la scorsa primavera, perciò, gli USA emisero al massimo alcuni comunicati generici chiedendo moderazione sia ai manifestanti che ad un regime a cui hanno continuato a garantire il loro appoggio.

Per Washington, il rapporto della commissione sarebbe ancora da valutare a fondo, anche se già mercoledì la Casa Bianca ha espresso il proprio apprezzamento per l’iniziativa del sovrano del Bahrain per avviare il paese verso un percorso di democratizzazione e riconciliazione. In realtà, è più che probabile che la stessa commissione d’indagine sugli abusi della repressione sia stata promossa dall’amministrazione Obama, sotto pressione da tempo per non aver preso le distanze dal regime e per aver impiegato un doppio metro di giudizio nell’approccio alle rivolte in corso nel mondo arabo.

La situazione in Bahrain, in ogni caso, a tutt’oggi non ha fatto registrare passi avanti significativi, né il rapporto della commissione Bassiouni contribuirà a pacificare il paese o a soddisfare le legittime richieste della maggioranza della popolazione. Proprio mercoledì, infatti, si sono verificati nuovi scontri nel paese, questa volta tra un gruppo di giovani e le forze di sicurezza del regime in una località nei pressi della capitale, in seguito alla morte di un uomo causata da un’auto della polizia.


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