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di Michele Paris
La crisi costituzionale che da poco più di una settimana sta tormentando la Papua Nuova Guinea sembra essersi finalmente avviata verso una conclusione. La disputa attorno alla carica di primo ministro tra i due più popolari uomini politici della ex colonia australiana si inserisce nel quadro delle rivalità crescenti in Estremo Oriente e nell’area del Pacifico tra la Cina da un lato e gli Stati Uniti e l’Australia dall’altro.
La crisi in Papua Nuova Guinea era esplosa in seguito alla prolungata permanenza del premier Michael Somare a Singapore, dove si era recato la scorsa primavera per ricevere cure mediche. Con Somare lontano dal paese, il presidente del Parlamento aveva allora dichiarato vacante la carica di primo ministro e, il 2 agosto, una larga maggioranza di deputati aveva proceduto ad eleggere Peter O’Neill a capo di un nuovo governo. La mossa del Parlamento era stata favorita anche dall’annuncio fatto dai familiari di Somare che quest’ultimo aveva intenzione di ritirarsi dalla politica, così come dal conseguente passaggio di molti suoi sostenitori nel campo del rivale O’Neill.
Tornato alla fine in patria, Somare - primo ministro dall’indipendenza nel 1975 al 1980, dal 1982 al 1985 e ancora dal 2002 fino alla sua rimozione qualche mese fa - aveva fatto appello alla Corte Suprema per cercare di riottenere la sua carica. Il 12 dicembre scorso, infatti, il più alto tribunale della Papua Nuova Guinea aveva dichiarato incostituzionale la nomina a premier di O’Neill, poiché il 75enne Somare non aveva rassegnato le proprie dimissioni né era stato formalmente dichiarato incapace a governare.
Anticipando la sentenza della Corte Suprema, Peter O’Neill pochi giorni prima aveva fatto però approvare una legge retroattiva che revocava il congedo temporaneo di Somare per recarsi a Singapore. Lo stesso 12 dicembre, poi, poco prima dell’emissione del verdetto della Corte, era arrivato un provvedimento che dichiarava decaduto qualsiasi membro del Parlamento che fosse rimasto al di fuori dei confini del paese per più di tre mesi. Un’ultima misura, infine, ha imposto il ritiro dalla carica di primo ministro al compimento del 72esimo anno di età.
Somare e O’Neill settimana scorsa si erano così ritrovati a capo di due gabinetti ed entrambi avevano nominato un proprio capo della polizia. In questa situazione, le tensioni nel paese erano salite alle stelle, con l’esercito e le forze di polizia chiamate a presidiare le strade della capitale, Port Moresby, per timore di possibili disordini. Nella serata del 12 dicembre, le inquietudini avevano raggiunto il culmine, quando la polizia fedele a Somare aveva impedito a O’Neill l’accesso al palazzo del Governatore Generale, Michael Ogio.
Proprio quest’ultima figura ha giocato un ruolo chiave nella crisi e nella sua risoluzione. Il Governatore Generale della Papua Nuova Guinea è il rappresentante del capo dello stato, la regina d’Inghilterra, e, pur essendo una carica in larga misura simbolica, secondo la Costituzione del 1975 ha la facoltà di dare l’assenso formale alla nomina di primo ministro. In base ai poteri assegnatigli, il 14 dicembre Ogio aveva fatto giurare i ministri scelti da Michael Somare, restituendogli di fatto la carica di capo del governo.
Per tutta risposta, il Parlamento aveva votato la sospensione dello stesso Governatore Generale, il quale è stato però reinsediato lunedì dopo una clamorosa inversione di rotta. In una lettera al Parlamento, il rappresentante della regina Elisabetta II in Papua Nuova Guinea ha infatti ritrattato la sua precedente presa di posizione, attribuendo il suo appoggio a Somare a cattivi consigli legali che gli sarebbero stati dati, riconoscendo invece la legittimità della nomina a primo ministro di Peter O’Neill.
Ciononostante, Somare non sembra ancora aver desistito dalla battaglia per riavere il suo incarico, anche se a questo punto appare estremamente improbabile che la vicenda possa avere un nuovo rovesciamento di fronte. Non solo perché negli ultimi giorni si sono moltiplicati all’interno del paese e nella comunità internazionale gli appelli ad una risoluzione rapida della crisi, per evitare ripercussioni negative sull’economia di un paese già afflitto da elevatissimi livelli di povertà, ma soprattutto perché a decidere gli esiti della crisi sono state forze esterne riconducibili alle potenze che si contendono l’egemonia nell’intera regione dell’Asia sud-orientale.
A risultare decisiva per la sorte di Michael Somare è stata in particolare la sua politica filo-cinese, che in questi ultimi anni ha complicato non poco i suoi rapporti con l’ex potenza coloniale, l’Australia. Grazie alle aperture di Somare verso Pechino, la Cina ricopre oggi un ruolo importante nel redditizio settore minerario della Papua Nuova Guinea. Uno dei progetti più ambiziosi assegnati ai cinesi è quello da 1,6 miliardi di dollari, che prevede lo sfruttamento della miniera Ramu, dove si estrae nickel e cobalto.
Peter O’Neill, al contrario, appare invece decisamente più vicino all’Australia, come dimostra l’orientamento del suo governo in questi mesi. Lo scorso ottobre, ad esempio, O’Neill ha guidato una delegazione di nove ministri a Canberra dove è stato raggiunto con il governo laburista di Julia Gillard un accordo per far tornare sul territorio della Papua Nuova Guinea un certo numero di militari e poliziotti federali australiani. L’ultimo contingente di ufficiali australiani presenti nella ex colonia era stato allontanato proprio da Michael Somare nel 2005.
La crisi costituzionale in questo paese di 7 milioni di abitanti - situato in una posizione strategica tra Australia e Indonesia e con ingenti risorse naturali . si era sovrapposta all’importante visita dello scorso novembre nella regione da parte del presidente americano Obama, il quale aveva ribadito il ruolo aggressivo del suo paese in quest’area del globo in funzione anti-cinese. Solo qualche giorno prima, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva fatto visita proprio alla Papua Nuova Guinea durante un tour asiatico, segnalando l’interesse prioritario di Washington per un paese dove, tra l’altro, la texana ExxonMobil sta lavorando ad un progetto legato all’estrazione di gas naturale del valore di svariati miliardi di dollari.
Il disegno degli Stati Uniti in Asia sud-orientale e nel Pacifico è condiviso in pieno dal governo australiano, che non a caso nei fatti della Papua Nuova Guinea di questi mesi sembra aver giocato un ruolo decisivo. Con il beneplacito americano, Canberra si è infatti mossa attivamente dietro le quinte per assicurare l’instaurazione a Port Moresby di un governo più benevolo nei confronti degli interessi di USA e Australia, favorendo l’uscita di scena di un ormai ex primo ministro considerato troppo accomodante verso i rivali cinesi.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Anche l’integerrima Germania, a quanto pare, ha i suoi piccoli scheletri nell’armadio: è di questi giorni lo scandalo che ha coinvolto Christian Wulff, attuale Capo dello Stato federale ed ex- governatore della Bassa Sassonia per conto del partito di Angela Merkel (CDU), a causa di alcuni finanziamenti ricevuti “in amicizia” da imprenditori. Ancora non sono del tutto chiari i fatti, ma già si parla di provvedimenti e conseguenze. Ogni possibilità rimane aperta: si avvicinano le elezioni del 2013 e, per l’occasione, nessun partito si può permettere la benché minima macchia.
Secondo il settimanale Der Spiegel, durante la campagna per le elezioni regionali in Bassa Sassonia del 2007, l’imprenditore Carsten Maschmeyer avrebbe finanziato le inserzioni pubblicitarie per il libro di Christian Wulff “Meglio la verità”, in cui l’attuale capo dello Stato racconta le proprie esperienze politiche e private. A richiedere i finanziamenti a Maschmeyer - poco più di quarantamila euro - sarebbe stata in realtà la casa editrice, Hoffmann und Campe, che difende tuttora la procedura come assolutamente normale: da che mondo è mondo le case editrici propongono le nuove produzioni ad aziende e imprese per ottenere un sostegno economico, spiegano dalla Hoffmann und Campe, e tutto ciò senza secondi fini.
Ma l’interpretazione appare un poco ingenua e non convince: in tempi di campagna elettorale il libro di Wulff aveva tutta l’aria di un mezzo di promozione politica più che di un semplice saggio universitario e il finanziamento assume quindi tratti abbastanza controversi. Senza contare che la candidatura di Wulff a governatore della Bassa Sassonia era tra le favorite e, noi italiani lo sappiamo bene, gli appoggi ai principi raramente sono fatti per pura amicizia.
La questione va a caricare una situazione già di per sé poco felice per Wulff, alla luce dell’ulteriore scandalo si cui si è parlato nelle scorse settimane. Secondo alcune rivelazioni del quotidiano popolare Bild, nel 2009 Wulff avrebbe ricevuto un prestito agevolato di mezzo milione di euro attraverso la moglie dell’imprenditore Egon Geerkens, soldi poi utilizzati per acquistare una casa ad Amburgo. A quei tempi Wulff era governatore cristianodemocratico della Bassa Sassonia e già doveva rendere conto dei suoi movimenti economici alla politica.
Interrogato dai Verdi in Parlamento, Wulff si era trovato a negare chiaramente e ufficialmente qualsiasi rapporto professionale con Geerkens: fatto sta che ora l’imprenditore Geerkens ha rivelato a Der Spiegel di avere concordato personalmente il prestito con Wulff e la piccola bugia bianca non è sembrata poi tanto “bianca” all’opposizione di SPD, Die Linke e Verdi, che già mettono in discussione la posizione di Wulff a capo della Germania federale.
Wulff è stato eletto poco più di un anno fa dopo le dimissioni volontarie dell’ex-presidente Horst Koehler. Kohler si era ritirato inaspettatamente in seguito alle numerose polemiche riguardanti una sua dichiarazione sulla missione in Afghanistan: il ruolo di Presidente merita rispetto, si era giustificato Kohler, e l’atteggiamento dei media nei suoi confronti andava a ledere la figura di Capo dello Stato in sé. Sarà interessante vedere ora gli sviluppi della questione Wulff, per certi versi molto più pesante di quella d’onore per cui Kohler aveva deciso di lasciare la poltrona.
Ieri pomeriggio il Consiglio supremo della Bassa Sassonia avrebbe dovuto discutere di eventuali provvedimenti, ma la seduta è durata un quarto d’ora ed è terminata senza risultati, con somma sorpresa per l’opposizione e per alcuni membri del consiglio stesso.
Un recentissimo sondaggio di ARD, il primo canale pubblico in Germania, rivela che il 70% dei cittadini è contrario alle dimissioni del capo dello Stato. Pur non chiedendone la testa, i tedeschi si rifiutano comunque di giustificare il re: Wulff è una figura credibile solo per il 51% della popolazione, e si parla di 23 punti percentuali in meno rispetto a luglio 2010. Senza contare che solo un decimo dei cittadini ritiene corretto che il Capo dello Stato prenda soldi in prestito da un “amico imprenditore”. Presentatosi alla più alta carica della Germania federale come indipendente, Wulff era stato definito da tutti “l’uomo della Merkel”. E, alla vigilia delle elezioni, è difficile pensare che la Merkel possa fare a meno di tagliare tutti i rami secchi e lasciar passare inosservato un tonfo così rumoroso.
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di Michele Paris
L’annuncio ufficiale della morte del dittatore nordcoreano, Kim Jong-il, ha scatenato nei media occidentali una serie infinita di commenti nei quali si sottolinea fino alla noia la possibilità di azioni provocatorie da parte di un impenetrabile regime impegnato in un delicatissimo processo di transizione. Di fronte al rischio di un conflitto nella penisola coreana, Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone avrebbero perciò già innalzato il livello di guardia per contrastare eventuali mosse di Pyongyang; anche se, a ben vedere, le maggiori minacce alla stabilità della regione sembrano venire proprio da Washington e dai suoi alleati in Estremo Oriente.
Per quanto quello presieduto fino a qualche giorno fa dal 69enne Kim Jong-il sia innegabilmente un regime stalinista dittatoriale al servizio di una ristretta cerchia di potere, a contribuire in buona parte alla segretezza e alla presunta provocatorietà del governo nordcoreano in questi decenni - così come alle continue tensioni in questa porzione di Asia orientale - è stato precisamente l’atteggiamento aggressivo degli Stati Uniti. Proprio per questo, appare più che probabile che nel prossimo futuro siano gli USA a cercare di sfruttare la situazione precaria in Corea del Nord in seguito al decesso del “Caro Leader” allo scopo di destabilizzare il regime.
Ripercorrendo brevemente la storia della penisola coreana negli ultimi due decenni, appare evidente come, a partire almeno dagli ultimi anni di vita del fondatore della Repubblica Democratica Popolare di Corea, Kim Il-sung, le varie amministrazioni che si sono succedute a Washington abbiano oscillato tra promesse mancate di dialogo e aperte provocazioni. Una strategia volta a esercitare pressioni sul regime, col fine ultimo di provocarne la caduta, quasi sempre sfruttando l’annosa questione del programma nucleare nordcoreano.
Dopo il crollo nel 1991 dell’Unione Sovietica, primo sponsor della Corea del Nord, Kim Il-sung inviò segnali di distensione all’Occidente, acconsentendo alla firma del Trattato di Non Proliferazione in cambio di aiuti economici e dell’uscita dall’isolamento diplomatico. Da allora i negoziati con gli Stati Uniti hanno proceduto a singhiozzo, con questi ultimi che quasi mai hanno intrapreso serie iniziative per alleviare il senso di paranoia comprensibilmente diffuso ai vertici del regime di Pyongyang.
Nel 1994, poi, sulla questione del nucleare si giunse sull’orlo di un nuovo conflitto, evitato probabilmente per i timori delle conseguenze devastanti che ne sarebbero derivate. Dalla guerra sfiorata si arrivò invece ad una sorta di accordo, suggellato nello stesso anno dalla visita nella capitale nordcoreana dell’ex presidente Jimmy Carter, inviato da Bill Clinton per incontrare Kim Il-sung.
Con la morte di quest’ultimo poco dopo, toccò al figlio Kim Jong-il finalizzare l’accordo con gli USA. Il nuovo leader s’impegnava a smantellare le installazioni nucleari a fini militari nel paese in cambio di aiuti per sviluppare il settore civile e ristabilire relazioni diplomatiche con l’Occidente. Ancora una volta, però, da Washington non ci fu il rispetto degli accordi presi con i nordcoreani.
Le speranze di una distensione tra le due Coree ebbero un nuovo impulso quando nel 1998 a Seoul venne eletto alla presidenza Kim Dae-jung. Il nuovo presidente sudcoreano, lanciando la cosiddetta “Sunshine policy”, rappresentava in realtà quegli ambienti del suo paese interessati all’apertura dell’arretrato vicino settentrionale, visto come fonte di manodopera a basso costo. Il disgelo nella penisola coreana portò allo storico incontro tra i due Kim a Pyongyang nel giugno del 2000 e alla successiva visita del Segretario di Stato americano, Madeleine Albright, sul finire del secondo mandato dell’amministrazione Clinton.
Le speranze di pace subirono tuttavia una brusca frenata con l’arrivo alla Casa Bianca di George W. Bush, il quale congelò sul nascere i rapporti con la Corea del Nord. Nel 2002, poi, la nuova amministrazione repubblicana incluse il regime di Kim Jong-il nell’asse del male - assieme a Iran e Iraq - e lo accusò di avere avviato un programma segreto di arricchimento dell’uranio. Per tutta risposta, la Corea del Nord uscì dal Trattato di Non Proliferazione, espulse gli ispettori dell’ONU e rimise in moto le proprie installazioni nucleari.
Tramite la mediazione della Cina, principale partner nordcoreano dopo la fine dell’URSS, successivamente gli Stati Uniti accettarono comunque l’avvio di nuovi colloqui con Pyongyang, con il coinvolgimento anche di Russia, Corea del Sud e Giappone. Con le guerre in corso in Afghanistan e Iraq, infatti, l’amministrazione Bush non era disposta a fronteggiare un ulteriore conflitto in Asia orientale. I “colloqui a sei”, in ogni caso, non impedirono alla Corea del Nord di testare il primo ordigno nucleare nel 2006, seguito poi da un secondo nel 2009, poco dopo l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca.
Il presidente democratico, da parte sua, in questi tre anni ha in sostanza proseguito la stessa tattica dei suoi predecessori, alternando caute aperture ad aperte provocazioni nei confronti di Pyongyang. Un atteggiamento che s’inserisce in una strategia più ampia promossa dall’amministrazione Obama per contenere l’espansione in Asia orientale della Cina, a sua volta interessata invece al mantenimento degli equilibri esistenti nella penisola di Corea.
Sul fronte interno nordcoreano, in ogni caso, alcuni commentatori sembrano prevedere una possibile lotta di potere tra le varie fazioni del regime dopo la morte di Kim Jong-il e in vista di un complicato passaggio di consegne ad un inesperto successore, il figlio nemmeno 30enne Kim Jong-eun. Altri, al contrario, sostengono che le élite della Corea del Nord finiranno per allinearsi dietro l’erede della famiglia Kim, così da garantire la loro sopravvivenza e quella del regime stesso.
Quel che è certo è che il 26enne o 27enne Kim Jong-eun si ritrova improvvisamente alla guida di un complesso sistema di potere senza aver ricevuto il necessario addestramento previsto dal padre malato. Kim Jong-il aveva iniziato a introdurre il suo terzogenito ai vertici dello stato nordcoreano nel 2008, dopo essersi ripreso da un ictus, come raccontano i resoconti dei media.
Lo scorso anno, l’erede del dittatore venne poi fatto generale e nominato alla vice-presidenza della Commissione Militare Centrale, l’organo più potente del paese. Parallelamente, Kim Jong-eun iniziò anche ad essere oggetto della propaganda ufficiale del regime.
Secondo alcune speculazioni, per il nuovo giovane leader nordcoreano sarebbe prevista una sorta di reggenza, verosimilmente formata da alcune delle figure più vicine a Kim Jong-il, come la sorella Kim Kyong-hui e il marito Jang Song-taek, già considerato il numero due in Corea del Nord, ma anche il fidato generale Ri Yong-ho. Quasi unanime è l’opinione che il compito più arduo per Kim Jong-eun sarà consolidare il proprio potere nei prossimi anni, all’interno di una cerchia costituita da esperti (e spesso anziani) ufficiali militari e membri del Partito dei Lavoratori.
Proprio alla luce di questo scenario, appare dunque improbabile che un regime alle prese con un delicato processo di transizione decida di avventurarsi in atti provocatori che scatenerebbero la dura reazione di Stati Uniti o Corea del Sud.
Più plausibile sembra piuttosto il contrario, cioè - sempre che le élite nordcoreane abbiano effettivamente già accettato la successione del giovane Kim - un qualche gesto di distensione verso i nemici di sempre per guadagnare tempo e stabilizzare la situazione interna, proprio come fece Kim Jong-il alla morte del padre nel 1994, quando ratificò il già citato accordo per lo stop delle attività nucleari nel paese.
Questa eventualità non sembra però sfiorare gli Stati Uniti e i loro alleati. Se pure Washington ha finora riposto con cautela alla morte di Kim Jong-il, le decisioni della Casa Bianca sul possibile invio di aiuti economici alla Corea del Nord e sulla ripresa dei negoziati sono state congelate.
Allo stesso tempo, USA e Corea del Sud a partire da lunedì hanno avviato una serie di consultazioni frenetiche, così come hanno fatto anche USA e Giappone da una parte e Corea del Sud e Giappone dall’altra.
Una intensa attività diplomatica e militare da parte dei tre alleati che rappresenta forse la reale minaccia alla stabilità della regione, nonostante, per stessa ammissione degli osservatori americani e sudcoreani, non sia giunta per il momento nessuna iniziativa ostile né alcuna dichiarazione bellicosa da parte di Pyongyang dopo la morte improvvisa del “Caro Leader”.
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di Michele Paris
Con il parere favorevole del Senato, negli Stati Uniti è stato approvato in via definitiva e a larga maggioranza un nuovo provvedimento che espande ulteriormente i poteri dell’esecutivo in materia di anti-terrorismo. La nuova misura sancisce la legalità delle detenzioni indefinite e senza processo per chiunque sia sospettato di appartenere o fornire sostegno ad una organizzazione terroristica, compresi i cittadini statunitensi arrestati in territorio americano.
La legislazione appena uscita dal Congresso segna un’altra inquietante tappa nella progressiva erosione dei diritti democratici negli USA a partire dall’11 settembre 2001 e fa parte di un più ampio pacchetto da 662 miliardi di dollari, destinato a finanziare la macchina da guerra americana nel 2012 (National Defense Authorization Act, NDAA).
Sulla legge in questione, il presidente Obama aveva inizialmente minacciato di utilizzare il proprio diritto di veto ma, in seguito ad alcune modifiche cosmetiche negoziate con i leader dei due principali partiti al Congresso, la Casa Bianca ha alla fine annunciato il suo appoggio alla misura. Così, con un voto bipartisan, mercoledì la Camera dei Rappresentanti ha espresso parere positivo con una maggioranza di 286 a 136. Il giorno successivo la legge è approdata al Senato, dove ha raccolto 86 voti favorevoli e appena 13 contrari.
La discussa norma sancisce che chiunque venga designato dal governo americano come terrorista o sostenitore di un gruppo terrorista possa essere detenuto in un carcere militare senza accuse formali o un giusto processo fino alla fine delle ostilità, cioè virtualmente per sempre, vista la natura della guerra al terrore lanciata da Washington. Come già anticipato, il provvedimento riguarda anche gli stessi cittadini americani, mentre espande la definizione di “campo di battaglia” praticamente a tutto il pianeta.
La nuova mossa del Congresso americano, in accordo con la Casa Bianca, conferisce dunque un riconoscimento legale agli abusi che avevano contraddistinto l’amministrazione Bush e, allo stesso tempo, revoca di fatto alcuni diritti fondamentali fissati dalla Costituzione, tra cui quelli dell’habeas corpus - il diritto di contestare davanti ad un giudice un arresto arbitrario - e del giusto processo (Quinto e Sesto Emendamento).
La custodia militare prevista per i cittadini americani sospettati di terrorismo - non automatica ma a discrezione dell’esecutivo - abolisce inoltre potenzialmente il Posse Comitatus Act del 1878, il quale proibisce ai militari lo svolgimento di funzioni di polizia sul territorio dell’Unione.
La minaccia di usare il veto da parte di Barack Obama, com’è ovvio, non era stata dettata da scrupoli di natura democratica, bensì dal timore che l’azione del Congresso avesse potuto compromettere alcuni dei poteri assegnati al presidente e ad agenzie federali come FBI e CIA in materia di anti-terrorismo. Per venire incontro ai dubbi della Casa Bianca e assicurare il passaggio della legislazione, martedì sono stati annunciati modesti cambiamenti che lasceranno intatte le facoltà operative delle suddette agenzie, così come quella del presidente di decidere sulla detenzione in strutture militari dei sospettati.
Nelle parole del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, grazie alle modifiche apportate, la legislazione approvata non comporterà ora alcuna minaccia alla facoltà del presidente di “raccogliere informazioni, colpire i terroristi e proteggere i cittadini americani”.
D’altra parte, l’amministrazione democratica in carica è andata da tempo ben oltre quella di Bush in questo ambito, giungendo fino ad assegnare al presidente il potere di decidere unilateralmente l’assassinio mirato di cittadini americani accusati di far parte di organizzazioni terroristiche senza passare attraverso le normali procedure legali. Quest’ultima è ad esempio la sorte riservata nel solo 2011 al predicatore radicale Anwar al-Awlaki, al figlio sedicenne e ad altri sospettati con passaporto americano, tutti uccisi negli ultimi mesi in Yemen.
Il vasto favore raccolto tra le forze politiche americane da questo ennesimo restringimento dei diritti civili negli Stati Uniti dimostra ancora una volta come entrambi i partiti principali siano allineati nella difesa dei metodi anti-democratici che hanno contraddistinto l’azione dei governi americani nel corso dell’ultimo decennio.
Ironicamente, poi, l’approvazione di una misura che smantella ulteriormente questi stessi diritti è giunta a distanza di 220 anni esatti dall’entrata in vigore del “Bill of Rights” (15 dicembre 1791), cioè i primi dieci emendamenti alla Costituzione, con la cui approvazione vennero codificate le conquiste democratiche ottenute in seguito alla Rivoluzione Americana.
Queste ed altre simili iniziative adottate dall’amministrazione Obama confermano infine non solo l’illusorietà delle promesse di un presidente che si era impegnato a farla finita con i metodi del suo predecessore, ma anche la persistente impossibilità da parte dell’intera classe dirigente americana di ristabilire un sistema pienamente democratico dopo dieci anni di aberrazioni ed eccessi.
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di Rosa Ana De Santis
Continua la caccia al visionario Joseph Kony, anche con l’appoggio degli Stati Uniti. La cattura del capo della guerra intestina che flagella il paese da troppi anni, in modo particolare le zone del Nord e il distretto di Gulu, potrebbe però non rappresentare la fine del conflitto e la pacificazione del paese. Tutti coloro che, anche bambini, sono stati catturati e obbligati a far parte della milizia santa LRA, sono ormai considerati nemici dal resto della popolazione e vivono in uno stato di isolamento e discriminazione.
Tantissimi i combattenti e i cani sciolti che, anche una volta catturato il capo massimo, proseguirebbero, sotto l’egida simbolica dell’esercito ribelle, razzie e saccheggi, mantenendo il potere del terrore nel paese.
Solo per 13 mila ex-sequestrati dall’Lra a cui è stata garantita l’amnistia, gli altri si arrangiano. Gli uomini lavorano come autisti o agricoltori di sussistenza, le donne vendono alcolici o fanno le domestiche. Numerose le testimonianze di ragazzi e ragazze che, rapiti per anni dalle truppe di Kony, costretti a razziare e combattere e le donne a prostituirsi, una volta liberati o fuggiti hanno faticato a reintegrarsi, ma non solo per gli aspetti traumatici, anche per la difficoltà di reinserirsi nella società. La voce di questi protagonisti invita a una sorta di amnistia generale anche per Kony e i suoi fedelissimi.
Il governo ugandese ha previsto l’amnistia a condizione della resa e una sola volta, pertanto quanti sono ritornati nell’esercito santo hanno perduto questa possibilità. C’è da dire però che molti di quanti all’apparenza sono tornati nell’LRA, sono stati spesso cooptati se non rapiti. E’ previsto inoltre che, in casi speciali, il Ministro degli Affari Esteri possa negare l’amnistia.
Sembra piuttosto plausibile che questo sarà il caso giuridico che riguarderà Kony e chi come lui ha condotto le azioni più sanguinarie e ha ordito tutti i piani di distruzione intestina del paese e della sua gente dal lontano 1985, da quando è iniziata la contrapposizione al governo del Presidente monarca Yoweri Museveni per il riscatto della marginalizzazione del nord Uganda sull’ispirazione millenaristica dei dieci comandamenti.
L’atteggiamento delle vittime sacrificate da Kony ricorda molto, nell’atteggiamento e nella sostanza, quanto accaduto in Sudafrica alla fine del massacro dell’apartheid. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione consentì a molti afrikaners colpevoli di ottenere l’amnistia; per condurre il paese ad una rinascita democratica nella nonviolenza si procedette - almeno è questa l’immagine che è rimasta al mondo - con un eccessivo tasso di clemenza e indulgenza.
Il tribunale fu non solo il momento della legge e della pena, ma anche quello delle confessioni e delle testimonianze. L’Uganda, nelle sue pagine dolorose ma molto diverse da quelle del segregazionismo sudafricano, sembra volersi avviare allo stesso epilogo per volontà delle stesse vittime.
Una normalizzazione, un portato culturale del forte cristianesimo di confessione anglicana e di altre chiese protestanti diffuse a tappeto nei luoghi più remoti dell’Uganda, una pietà troppo grande per chi si aspetterebbe giustizia e un modo troppo debole per dare un nuovo corso di storia al paese. O semplicemente un atteggiamento verso la vita e il male che affonda in radici troppo lontane da noi.
Chi negozia la propria dignità a partire da oggi e domani, tratta il passato come una morte perché del resto è solo perduto. Forse questo è l’unico modo che un continente ridotto in schiavitù ha di sopravvivere al proprio passato e, nello stesso tempo, l’unico per non riscattarsi mai abbastanza.