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di Michele Paris
In un’intervista televisiva, Barack Obama l’altro giorno ha per la prima volta dichiarato ufficialmente di essere favorevole alla legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso negli Stati Uniti. La presa di posizione del presidente americano rappresenta una svolta storica e riflette i progressi indiscutibili fatti dal movimento per i diritti degli omosessuali in questi anni. A ben vedere, tuttavia, la mossa dell’inquilino della Casa Bianca sembra essere più che altro una manovra elettorale ed opportunistica studiata a tavolino per rianimare una parte importante della propria base elettorale in vista del voto di novembre.
Quello che dai principali media d’oltreoceano è stato descritto come l’inevitabile approdo di una travagliata evoluzione di Obama sul tema dei matrimoni gay, era stato preparato qualche giorno prima da almeno due dichiarazioni pubbliche di altrettanti membri autorevoli della sua amministrazione.
Domenica mattina, il programma “Meet the Press” della NBC aveva infatti trasmesso un’intervista registrata due giorni prima con il vice-presidente, Joe Biden, nella quale quest’ultimo affermava il suo appoggio alle nozze gay. Sulla stampa, l’uscita di Biden è stata fatta passare quasi come l’ennesima gaffe del vice-presidente che aveva inavvertitamente forzato la mano a Obama, spingendolo a manifestare una volta per tutte il proprio pensiero sull’argomento.
Lunedì, poi, è stata la volta del segretario all’Educazione, Arne Duncan, il quale ha anch’egli pronunciato le stesse parole favorevoli ai matrimoni omosessuali in diretta televisiva. I due interventi, come avevano senza dubbio previsto gli strateghi della Casa Bianca, hanno immediatamente alimentato la curiosità dei media, suscitando un’attesa enorme per un chiarimento da parte del presidente circa la sua posizione ufficiale.
Obama, così, mercoledì ha invitato alla Casa Bianca la anchorwoman della ABC, Robin Roberts, alla quale ha rivelato di essere giunto, “a un certo punto, alla conclusione che sia importante per me affermare che le coppie dello stesso sesso abbiano la possibilità di unirsi in matrimonio”. Fin dal suo ingresso nella politica che conta, Obama si era mostrato favorevole solo alle unioni civili per gli omosessuali ma, a suo dire, in questi ultimi anni il suo punto di vista è cambiato, in parte grazie all’opera di convincimento di amici gay e dopo lunghe conversazioni con la first lady e le due figlie.
“Sui matrimoni gay”, ha aggiunto Obama, “ho esitato in parte perché ritenevo che le unioni civili fossero sufficienti”. I suoi indugi erano causati dal fatto che “per molte persone, la parola matrimonio evoca tradizioni consolidate e credenze religiose”. Come spesso ha fatto durante il suo primo mandato, inoltre, Obama ha cercato ancora una volta di evitare lo scontro con la destra cristiana, affermando di aver tratto ispirazione dalla sua fede religiosa che insegna a “trattare gli altri allo stesso modo in cui vorremmo essere trattati noi stessi”.
Molti commentatori americani hanno fatto notare come Obama avesse preso nel recente passato una serie di importanti iniziative per promuovere i diritti LGBT, come l’abolizione della cosiddetta politica del “don’t ask, don’t tell”, che di fatto discriminava gli omosessuali arruolati nell’esercito, o la decisione di non appoggiare nelle cause legali riguardanti i diritti gay la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come l’unione tra due persone di sesso opposto.
Quest’ultima legge - Defense of Marriage Act (DOMA) - era stata firmata nel 1996 da Bill Clinton e permette inoltre ai singoli stati di rifiutare il riconoscimento dei matrimoni gay celebrati in altri stati. Attualmente, sei stati americani (Connecticut, Iowa, Massachusetts, New Hampshire, New York e Vermont) e il distretto federale della capitale hanno legalizzato le nozze gay.
Gli stati di Washington e Maryland hanno recentemente approvato leggi per legalizzarle ma esse verranno sottoposte a referendum popolari a novembre. Sull’altro fronte, 31 stati hanno finora approvato modifiche alla propria costituzione per vietare i matrimoni gay, tra cui proprio martedì scorso la Carolina del Nord, dove il Partito Democratico terrà la convention ad agosto.
Per la stampa liberal statunitense, la presa di posizione del presidente rappresenterebbe una scelta coraggiosa e non priva di rischi, dal momento che quello dei matrimoni tra persone dello stesso sesso è un tema delicato che provoca parecchie divisioni tra l’opinione pubblica americana. In realtà, tutti i sondaggi sull’argomento mostrano come oltre metà della popolazione sia ormai apertamente favorevole, soprattutto i più giovani.
Perciò, il rischio politico corso da Obama appare molto limitato, tanto più che gli elettori più contrariati dal suo appoggio alle nozze gay sono con ogni probabilità gli ultra-conservatori e i fondamentalisti cristiani che, in ogni caso, non voteranno per il candidato democratico nelle presidenziali. Qualche effetto negativo potrebbe esserci piuttosto sugli elettori di colore e ispanici, tradizionalmente più conservatori sui temi sociali, anche se essi sono però tra i più fedeli sostenitori del Partito Democratico e, essendo tra i più colpiti dalla crisi, tenderanno a votare soprattutto con un occhio alle questioni economiche.
L’uscita pubblica di Obama, in sostanza, appare più che altro come il tentativo di energizzare in qualche modo la sua base elettorale progressista, scoraggiata da oltre tre anni di continui spostamenti a destra da parte dell’amministrazione democratica e a cui, per mobilitarsi, può apparire sufficiente una parvenza di impegno limitato all’ambito delle politiche identitarie.
Che quella annunciata in TV sia una trovata poco più che propagandistica, pochi giorni dopo l’inaugurazione ufficiale della campagna per la rielezione, lo conferma anche il fatto che l’abrogazione del DOMA e la legalizzazione dei matrimoni gay a livello federale hanno ben poche possibilità di superare l’ostacolo del Congresso USA nel prossimo futuro.
A spiegare la decisione di Obama di prendere una chiara posizione su questo tema c’è anche la necessità di fare appello ad una fetta significativa di facoltosi finanziatori impegnati nella causa dei diritti LGBT. La campagna elettorale del presidente prevede infatti proprio in questi giorni alcuni eventi privati promossi dalla comunità gay, durante i quali verranno raccolti svariati milioni di dollari, tra cui uno questa settimana presso l’abitazione di George Clooney a Los Angeles e un altro a New York nella giornata di lunedì.
I gruppi liberal della società civile, quelli a difesa dei diritti gay e i media vicini ai democratici hanno comunque espresso tutto il loro entusiasmo dopo aver sentito le parole di Obama alla ABC. Il New York Times, ad esempio, ha pubblicato giovedì un editoriale ricco di lodi per il presidente, esaltato per aver mostrato la leadership necessaria a promuovere l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini americani.
Per una testata come il NYT e le sezioni della borghesia liberal a cui fa riferimento poco importa se un’uscita propagandistica come quella di mercoledì si inserisce nel quadro di una politica tendente costantemente a destra, sia sulle questioni economiche che su quelle dei diritti democratici, ridimensionati in maniera drastica in questi tre anni da una serie di gravi iniziative giustificate dalla “guerra al terrore”.
La presa di posizione di Obama su quella che lo stesso NYT definisce “la più importante battaglia per i diritti civili del nostro tempo” è così sufficiente per assicurare il sostegno degli intellettuali progressisti alla campagna per la rielezione di un presidente sotto la cui guida sono stati implementati tagli devastanti alla spesa pubblica, andati persi milioni di posti di lavoro, peggiorate drammaticamente le condizioni di vita di decine di milioni di famiglie ed è aumentato l’impegno militare all’estero con conseguenze rovinose per la stabilità dell’intero pianeta.
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di Carlo Musilli
Che sia o meno il "processo del secolo", a Guantanamo si celebra prima di tutto una pesante sconfitta per Barack Obama. Dopo 10 anni e otto mesi dall'11 settembre, nel segretissimo "camp 7" del carcere Usa in territorio cubano, è iniziato il procedimento contro i cinque presunti organizzatori degli attentati che sterminarono quasi tremila americani.
Alla sbarra Khalid Shaikh Mohammed, autoproclamatosi "ideatore" degli attacchi, Aziz Ali, Walid Muhammad Salih Mubarak Bin Attash (ex responsabile di Al-Qaeda in Arabia Saudita), Ramzi Binalshibh (capo della cellula di Amburgo) e "il cassiere" Mustafa Ahmed Adam al-Hawsawi. Arrestati ben nove anni fa, dalla settimana scorsa siedono davanti a un tribunale militare. Sono accusati di aver addestrato e finanziato i 19 dirottatori responsabili degli attacchi aerei. E rischiano la pena di morte.
Si avvera così quello che il Presidente aveva giurato di evitare. Prima ancora di ricevere (sulla fiducia) il premio Nobel per la pace, nella fantasmagorica campagna elettorale del 2007 e poi ancora a inizio mandato, Obama aveva fatto due promesse: il trasferimento del caso alla giustizia civile in un tribunale di Manhattan e la chiusura di Guantanamo, vergognosa eredità del guerrafondaio Bush jr.
Il primo obiettivo è stato mancato anche per l'opposizione del sindaco di New York, Michael Bloomberg, che aveva calcolato in 400 milioni di dollari i costi che la città avrebbe dovuto sostenere solo per le misure di sicurezza. Il fallimento più grave è arrivato però in Congresso, dove il Presidente si è visto negare i fondi per la chiusura del carcere. A votargli contro non solo i Repubblicani, ma anche una minoranza dei suoi stessi democratici. Nell'ultima finanziaria è comparsa perfino una postilla che vieta al Pentagono di usare fondi propri per trasferire i detenuti da Guantanamo al continente. Come a dire che, negli Stati Uniti, nemmeno il Presidente del "Yes we can" può permettersi di remare troppo forte contro i vertici militari.
Quella che vorrebbe essere la prima democrazia del pianeta continuerà così a violare sistematicamente i diritti civili dei detenuti in una fortezza oltreconfine. Ma su questo punto a Obama è riuscito il colpo di coda. E non si tratta di un dettaglio, anzi, potrebbe perfino invertire le sorti del processo. In sostanza, grazie a una riforma del codice militare, è diventato illegale usare in sede giudiziaria "testimonianze estorte con la tortura".Una vera disdetta per gli zelanti militari, che nel corso degli ultimi anni hanno sottoposto il solo Khalid Shaikh Mohammed (la "mente") a ben 183 sedute di "waterboarding". Il nome sembra quello di un'attrazione da parco acquatico, ed in effetti è uno dei passatempi più in voga fra i gendarmi di Guantanamo: si immobilizza il nemico da interrogare in modo che i piedi siano più in alto della testa, poi gli si versa in faccia un getto d'acqua continuo. Con questa pratica - detta anche "annegamento controllato" - gli americani hanno estorto ai detenuti montagne di informazioni. Una perdita di tempo oltre che di umanità, visto che ora nessuna di quelle rivelazioni può essere usata nel processo.
La limitazione giudiziaria è uno smacco per i militari, ma non mette fine al regime di tortura che domina a Guantanamo. L'opinione pubblica aveva chiesto a Obama di cancellare la violenza illegale del bushismo, ma dopo una lunga battaglia il Presidente democratico ha fallito. Secondo il Washington Post, la maggioranza degli americani non crede che agli attentatori dell'11 settembre sarà garantito un giusto processo.
In ogni caso, comunque vada il procedimento, la stampa non può darne conto liberamente. I giornalisti non sono ammessi in aula: in sessanta possono assistere al processo, ma solo attraverso i maxischermi allestiti in quattro diverse basi militari. Le immagini vengono trasmesse con una differita di 40 secondi, in modo da consentire la censura d'urgenza.
La scena più cruda di cui si abbia avuto notizia finora ha avuto come protagonista Ramzi Binalshibh. Presentandosi di fronte ai giudici, l'imputato yemenita è stato uno dei pochi ad aprire bocca: "Volete solo ucciderci", ha urlato.
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di Michele Paris
Nella giornata di martedì, gli elettori repubblicani dello stato americano dell’Indiana hanno con ogni probabilità posto fine alla carriera politica dell’autorevole e relativamente moderato senatore Richard Lugar. Nelle primarie del “Grand Old Party” per la scelta del candidato che si batterà per un seggio al Senato il prossimo novembre in rappresentanza di questo stato del Midwest, Lugar è stato travolto da un’ondata di malcontento alimentata dai sostenitori dei Tea Party, a loro volta manovrati da alcune sezioni dei poteri forti del paese che si stanno adoperando per un ulteriore spostamento a destra del baricentro politico statunitense.
Classe 1932, Dick Lugar era stato eletto per la prima volta al Senato degli Stati Uniti nel 1976 e, mentre alla Casa Bianca si alternavano ben sei presidenti, il delegato dell’Indiana in tre decenni non aveva praticamente mai dovuto affrontare rivali interni per il suo seggio, prevalendo inoltre sempre piuttosto comodamente nelle elezioni generali. Nell’ultima tornata elettorale che lo ha visto protagonista, nel novembre 2006, Lugar vinse con oltre l’87% dei consensi.
A sconfiggerlo martedì e ad ottenere la nomination repubblicana per un posto al Senato è stato invece l’oscuro Richard Mourdock, attuale Tesoriere dello stato dell’Indiana con alle spalle un paio di tentativi falliti di entrare alla Camera dei Rappresentanti negli anni Novanta, il quale ha raccolto il 61% dei voti espressi contro il 39% del suo più popolare rivale.
Sull’esito di queste primarie ha influito in maniera decisiva l’azione di comitati e finanziatori conservatori attivi a livello nazionale e che, in Indiana come in altri stati, stanno prendendo di mira i politici in carica, quasi sempre troppo moderati o accusati di essere eccessivamente disponibili al compromesso con il Partito Democratico. Tra le organizzazioni che più hanno speso contro Lugar ci sono, tra le altre, la NRA (National Rifle Association), la più potente lobby americana della armi, e FreedomWorks, una “Super PAC” presieduta dall’ex deputato repubblicano ultra-conservatore ed ex lobbista, Dick Armey.Le pressioni e le campagne elettorali dispendiose ed aggressive messe in atto da questi gruppi ben finanziati hanno già mietuto parecchie vittime tra la vecchia guardia del Senato, sia tra le fila repubblicane che tra quelle democratiche. Molti senatori hanno infatti annunciato da tempo la loro intenzione di ritirarsi dalla politica una volta terminato il loro mandato a fine anno, preferendo evitare di doversi impegnare in una campagna logorante con rivali che li attaccano da destra. Gli addii al Senato, ad esempio, della repubblicana moderata Olympia J. Snowe del Maine o dei centristi democratici Kent Conrad del North Dakota e Jim Webb della Virginia, sono da intendersi in questo senso e lasceranno spazio con ogni probabilità a nuovi senatori attestati su posizioni decisamente più conservatrici.
Per coloro che hanno deciso al contrario di accettare la sfida, il destino potrebbe essere simile a quello di Lugar. Quest’ultimo ha subito una pesante batosta nonostante il suo curriculum di tutto rispetto e a causa proprio della sua disponibilità al dialogo con i democratici che nel passato gli aveva permesso di allargare la propria base elettorale. Il senatore uscente dell’Indiana è famoso soprattutto per i suoi sforzi negli anni Novanta per il disarmo nell’ex Unione Sovietica. Pur essendo mal visto dalla NRA ed essendo su posizioni vicine ai democratici sul tema dell’immigrazione, Lugar non è comunque un liberal, soprattutto in ambito economico.
Quando lo scorso anno i Tea Party hanno iniziato l’assalto nei suoi confronti, Lugar ha oltretutto cercato di spostarsi a destra, evidentemente senza successo. Questo tentativo di far proprio il messaggio dello sfidante conservatore di Richard Lugar sembra riflettere le conseguenze della presenza di candidati vicini ai Tea Party sull’intero sistema politico americano, nel quale i moderati, quando riescono ad essere confermati nei loro incarichi, vengono comunque spinti su posizioni sempre più reazionarie.
Secondo la propaganda dei Tea Party, le sconfitte come quella incassata martedì da Lugar sarebbero il sintomo di un desiderio diffuso nel paese di vedere attuate una serie di misure per deregolamentare ancor di più l’economia, promuovere i valori conservatori in ambito sociale, ridurre drasticamente il deficit di bilancio, il carico fiscale, i programmi di assistenza, la spesa pubblica e il ruolo del governo, proprio mentre la maggior parte della popolazione sembra in realtà chiedere esattamente l’opposto.
Questo sconvolgimento degli equilibri nel Partito Repubblicano non è però altro che il risultato dell’impegno di una ristretta cerchia di super-ricchi che, soprattutto tramite le cosiddette “Super PACs”, possono investire cifre enormi per manipolare organizzazioni come i Tea Party e le frustrazioni parzialmente legittime su cui essi fanno leva. Questi ultimi sono così in grado di costruire una rete agguerrita di attivisti, finendo spesso per decidere i risultati di primarie locali nelle quali l’affluenza risulta solitamente ridotta.L’agenda dei Tea Party, composti principalmente da settori della piccola borghesia bianca disorientati dalla globalizzazione e dalla crisi economica e sociale negli Stati Uniti, è dettata dunque dai facoltosi finanziatori che propagandano la necessità di nuove e più incisive riforme in senso ultra-liberista, poiché questa sarebbe la direzione indicata dagli elettori.
Lo sforzo di promuovere politiche conservatrici e candidati di estrema destra al Congresso è rivolto non solo contro il Partito Democratico ma, come dimostra la vicenda di Lugar, anche contro parlamentari repubblicani in carica da parecchi anni, i quali, in un clima di profonda ostilità verso tutta la classe politica di Washington, sono diventati facilmente identificabili come i responsabili della crisi politica, economica e di valori in corso.
La sconfitta di Richard Lugar è stata accolta ufficialmente con dispiacere da parte dei colleghi senatori democratici e dello stesso presidente Obama. L’inquilino della Casa Bianca ha ricordato l’impegno del senatore dell’Indiana soprattutto in politica estera e la sua costante predisposizione al dialogo con il partito rivale in un Congresso sempre più diviso.
Per i vertici democratici, tuttavia, l’uscita di scena di un candidato forte ed esperto, in grado di fare appello agli elettori moderati e indipendenti, apre uno spiraglio inaspettato per la conquista di un seggio al Senato in uno stato che i repubblicani sembravano avere saldamente in pugno. Perciò, subito dopo le primarie, i vari gruppi democratici impegnati in campagna elettorale hanno iniziato a mettere in risalto le posizioni troppo estreme per l’elettore medio dell’Indiana del neo-candidato repubblicano Richard Mourdock.
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di Michele Paris
Con una dichiarazione degna dei tempi della guerra fredda, qualche giorno fa il capo delle forze armate russe, Nikolay Makarov, ha minacciato apertamente un attacco militare preventivo contro i siti di difesa missilistici che la NATO intende installare nei prossimi anni in alcuni paesi dell’Europa Orientale. L’uscita del generale russo è giunta pochi giorni prima dell’inaugurazione ufficiale del terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin e segnala un possibile ulteriore inasprimento delle tensioni tra Washington e Mosca.
Il progetto anti-missilistico nei paesi un tempo sotto l’influenza sovietica era stato provocatoriamente proposto dall’amministrazione Bush, per essere poi messo da parte da Obama e alla fine riesumato nel settembre 2009 con il nuovo nome di European Phased Adaptive Approach (EPAA). Il sistema NATO prevede il dispiegamento di missili intercettori in Romania e in Polonia, nonché di un radar in Turchia, e nelle intenzioni ufficiali dovrebbe proteggere i paesi europei da attacchi provenienti soprattutto dall’Iran.
La questione aveva da subito causato frizioni tra la Russia e gli Stati Uniti, dal momento che il sistema anti-missilistico, secondo Mosca, neutralizzerebbe il proprio deterrente nucleare. Mentre nel recente passato il Cremlino ha più volte minacciato l’abbandono del nuovo trattato START siglato con Washington per la riduzione delle testate nucleari dei due paesi, l’avvertimento lanciato mercoledì scorso dal generale Makarov, il quale è anche vice-ministro della Difesa, rappresenta una novità inquietante.
Intervenendo nel corso di una conferenza nella capitale russa, Makarov ha affermato che, “considerando la natura destabilizzante di un sistema di difesa missilistico, se la situazione dovesse aggravarsi, potrebbe essere presa una decisione riguardo un attacco preventivo con le armi offensive a nostra disposizione”. Il capo di Stato Maggiore ha aggiunto poi che potrebbe essere preso in considerazione l’impiego di nuovi armamenti nelle regioni meridionali e nord-occidentali della Russia, a cominciare dall’enclave di Kaliningrad, da dove preparare la “distruzione dell’infrastruttura europea di difesa missilistica”. Makarov, infine, ha criticato la NATO per essersi rifiutata di mettere per iscritto la garanzia che il sistema di difesa non sarà diretto contro Mosca.Le parole del generale russo sono state riportate senza particolare enfasi in Occidente e solo da alcuni giornali, mentre sono state minimizzate dai vertici della NATO e del governo americano. Il segretario generale del Patto Atlantico, Anders Fogh Rasmussen e il suo vice, Alexander Vershbow, si sono limitati a ribadire che il sistema di difesa non rappresenta alcuna minaccia per la Russia. Da Washington, l’inviata speciale del Dipartimento di Stato per le questioni di Difesa Missilistica, Ellen Tauscher, ha invece sostenuto che “non esiste nulla che possa fermarci dal creare il sistema entro i tempi stabiliti”.
Nonostante le rassicurazioni, secondo molti analisti, gli unici paesi che attualmente dispongono di missili teoricamente in grado di raggiungere l’Europa, oltre a Israele, sono la Russia e la Cina e, appunto, a questi ultimi due è diretto il piano di difesa della NATO.
L’escalation delle tensioni tra USA e Russia segnalata dalle dichiarazioni del generale Makarov si inserisce in una situazione già complicata dal disaccordo tra le due potenze su varie questioni internazionali, come la crisi in Siria e il nucleare iraniano.
Sui due temi caldi del Medio Oriente, Mosca sente infatti minacciati i proprio interessi nella regione dall’aggressività statunitense, rivolta principalmente al cambio di regime a Damasco e a Teheran.
Per questa ragione, il Cremlino continua ad opporsi strenuamente sia all’uso della forza contro il regime alleato di Assad che all’applicazione di nuove sanzioni o ad un attacco militare contro la Repubblica Islamica.
La concomitanza della minaccia di Makarov con l’insediamento di Putin non sembra inoltre casuale, visto che il ritorno al Cremlino dell’ex presidente preannuncia con ogni probabilità il ritorno ad un atteggiamento più bellicoso da parte della Russia nei confronti degli Stati Uniti dopo i quattro anni di relativo riavvicinamento sotto la guida di Dmitry Medvedev.
Un cambio di marcia, quello deciso da Putin e dalla classe dirigente russa, motivato quasi certamente anche da ragioni interne. Un diversivo utile, in sostanza, in una fase di crescente incertezza sul fronte dell’economia e con un malcontento tra la popolazione già esploso più volte in questi ultimi mesi.
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di Mario Braconi
Dopo una nottata al cardiopalma, Boris Johnson è sindaco di Londra per un altro mandato di quattro anni: benché dall’entourage dell’avversario Ken “il Rosso” Livingstone si ammettesse a mezza bocca la sconfitta sin dal primo pomeriggio di ieri, la vittoria del candidato conservatore è stata di misura. A Johnson sono andate, infatti, il 51,53% delle preferenze, contro il 48,47% totalizzate dall’avversario: il che comporta un margine di poco meno di 63.000 voti, il più ridotto nella storia delle elezioni amministrative di Londra.
A rendere più emozionante il finale della disfida, una paio di incidenti (sospetti?): dapprima i conteggi interrotti per ore a seguito del ritrovamento di due casse di voti non conteggiati nel collegio elettorale di Harrow e Brent (dove è forte il consenso per Livingstone); e poi problemi con i dispositivi elettronici conta-voti ed un centro di conteggio rimasto per qualche tempo senza corrente elettrica.
La vittoria del candidato conservatore non va però letta come un successo del suo partito: al contrario, i risultati del partito conservatore, al di là di quanto accaduto a Londra, non sono certo confortanti, e sono l’ovvia conseguenza di una serie di azioni politiche del governo assai poco gradite, perfino ai cittadini meno progressisti, quali l’introduzione di nuove tasse sulle pensioni, sulle donazioni alle onlus e perfino sui prodotti da forno.
Proiettando i dati delle elezioni a livello nazionale, il partito conservatore arriva oggi al 31% delle preferenze, mentre il Labour di Miliband tocca il 38;% dei consensi; i Liberaldemocratici devono accontentarsi invece di un magro 16%.
A dispetto della sconfitta del Rosso, i nemici interni di Miliband, che attendevano una sua disfatta alle elezioni di Londra per regolare i conti in sospeso, debbano attendere un’altra occasione. Anche nel 2012 Livingstone si è rivelato un mal di testa per la dirigenza laburista: Miliband si è assunto un notevole rischio politico, candidando il sessantaseienne ed alquanto indigesto Ken all'incarico di sindaco di Londra.
A sua discolpa si può dire che non avesse molta scelta, almeno a dar credito alle voci di corridoio riferite da Jon Craig su SkyNews, secondo cui Red Ken, rientrato nei ranghi laburisti nel 2004, anche questa volta avrebbe ricattato la dirigenza del partito, rendendo più convincente la sua candidatura sventolando lo spauracchio di una sua possibile corsa da indipendente. Lo stesso copione visto alle elezioni del 2000, quando Livingstone, indispettito dal veto di Blair sul suo nominativo, corse e vinse da solo, ma umiliando la leadership.
Ma Miliband esce comunque vincitore dall’agone elettorale delle amministrative: innanzitutto tradizionalmente le elezioni per il sindaco di Londra sono guidate più dal confronto delle personalità che dalle idee politiche. E Livingston, se da un lato è un candidato simpatico e poco incline al compromesso, va anche detto che alcune sue uscite velatamente anti-semite, e il sospetto di movimenti non chiarissimi di milioni di sterline che coinvolgono la sua amministrazione della capitale, ne hanno depauperato non poco il capitale politico. Inoltre, a causare la sconfitta laburista di Londra è stato un numero limitato di voti.
Ma soprattutto ad incoronare Ed Miliband è il grande successo ottenuto dal partito nel Paese, al di là dell’incidente di Londra. Come ricorda il commento politico del Guardian, il 38% dei consensi, pur lontanto dal 43% dei tempi di Blair, non è poi troppo lontano da quel 40% che viene considerato la garanzia di vittoria alle elezioni generali nazionali. Sembra funzionare, insomma, la strategia del nuovo capo del partito del lavoro britannico, che ha abbandonato la deleteria strada di sorpassare a destra i conservatori.
In effetti, anche la composizione del consiglio comunale della Capitale del Regno dopo le elezioni conferma una situazione politica contraddittoria rispetto alla vittoria di facciata del candidato conservatore: i Tory perdono due seggi, passando da 11 a 9; i laburisti ne guadagnano ben quattro, che, sommati agli otto pre-esistenti, portano il loro numero a 12, cosa che ne fa il gruppo in maggioranza relativa; débacle per i liberaldemocratici, che perdono uno dei loro tre seggi. Al momento, insomma, le opposizioni non sono in grado di bloccare la legge di spesa di Johnson, ma perfino gli elettori di Londra hanno dato un segnale chiaro.
I conservatori potranno anche festeggiare il successo di Johnson, ma le cose non vanno certo bene per il partito. Pare infatti che gli elettori conservatori più destrorsi abbiano letto l’indebolimento dei consensi dei Tories come la conseguenza della strategia centrista adottata da Cameron, dettata da questioni di opportunismo in generale e dalla contingenza dell’alleanza con i Liberaldemocratici in particolare: basta insomma, con queste sciocchezze come i diritti delle persone omosessuali, cari agli alleati liberal-democratici. E' possibile perciò che i conservatori tentino ora un rilancio con politiche più chiaramente reazionarie.
Insomma, guai in vista per Cameron, che peraltro si potrebbe trovare un nuovo nemico in casa: Boris Johnson, indubbiamente rafforzato dall rinnovato mandato a Londra. Il sindaco Tory, peraltro, deve già fronteggiare la prima grana: le dimissioni, date ormai per certe, del suo numero due Guto Harri, che avrebbe accettato un nuovo incarico nell’alta dirigenza a News International di Murdoch, che, dopo una stagione segnata da gravissimi scandali, suicidi ed arresti tenta disperatamente di risollevare la sua immagine.