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di Emanuela Pessina
BERLINO. "Mano sul cuore, vi sorprendete che il capitano fosse un italiano? Vi potete immaginare che manovre del genere e poi l'abbandono della nave vengano decise da un capitano tedesco o britannico"? Così il giornalista tedesco Jan Fleischhauer ha introdotto il suo personalissimo commento alla vicenda della Costa Concordia, che ha coinvolto turisti provenienti da più di 60 nazioni. Pubblicato dal sito Spiegelonline, l’edizione virtuale dell’autorevole settimanale Der Spiegel, il pezzo ha tutto il gusto della provocazione e non poteva non creare un piccolo caso mediatico tra Italia e Germania.
Perché, a quanto pare, l’articolo di Fleischhauer ha risvegliato l’orgoglio semidormiente del popolo italiano: reazione comprensibile, visto il tono ironico e provocatorio che il giornalista mantiene per tutto l’articolo: a un livello tale che viene difficile distinguere tra la critica vera e propria e l’ironia malriuscita. “Conosciamo tipi del genere dalle vacanze al mare, maschi bravi con grandi gesti, capaci di parlare con le dita e con le mani, in principio gente incapace di fare del male, ma bisognerebbe tenerli lontani da macchinari pesanti, come possiamo vedere”, ha scritto Fleischhauer. “Bella figura è lo sport popolare di massa italiano, che significa impressionare gli altri; anche Schettino voleva fare bella figura, ma ha trovato uno scoglio sulla sua strada”.
Grande lo sdegno dei cittadini italiani che risiedono in Germania. L’ambasciatore italiano a Berlino, Michele Valensise, ha inviato una lettera alla redazione di Der Spiegel, rispondendo direttamente e diplomaticamente a Fleischhauer. “Le parole del giornalista tedesco sono infondate - scrive Valensise - e provocano rabbia e meraviglia”. Valensise non manca di invitare il giornalista a visitare il nostro Paese per godere della nostra ospitalità e del nostro famoso brio.
Eppure, nonostante il tono di sfida apparente, il pezzo di Fleischhauer potrebbe essere letto in tutt’altra chiave. Più che evidenziare i difetti dell’italiano medio, l’articolo punta a un’ampia riflessione sugli stereotipi nazionali: così come quelli sessuali, i cliché nazionali non sono legittimi - e dovrebbero in qualche modo essere stati abbattuti - ma ancora esistono. E sono ancora percepibili nella quotidianità. Tant’è vero che le guide turistiche, a volte, si orientano a queste disuguaglianze stereotipate per introdurre il turista alla tipologia culturale di un luogo.
A questo proposito Fleischhauer cita lo stereotipo che gli inglesi ancora oggi hanno dei tedeschi: un popolo notoriamente “senza humor”, che viene ancora idealmente associato ai guerrieri nomadi medievali unni. Fleischhauer dedica al tema l’intero secondo paragrafo del suo pezzo. Difficile, per noi italiani, non riconoscere nei vicini teutonici lo stereotipo del guerriero “barbaro” medievale tutto d’un pezzo, senza senso dell’umorismo, e non concederci al riguardo un mezzo sorriso ironico. Basta pensare a un famoso film trash degli anni ottanta con Diego Abantantuono.
Per Fleischhauer, in conclusione, gli stereotipi trovano ancora oggi profondo riscontro nella realtà e segnalano alcune differenze sostanziali che é difficile eliminare: la difficoltà che i capi di Stato incontrano nel risolvere la crisi del debito in Europa ne è la prova. Tesi del tutto discutibile, forse troppo semplicistica, ma che non ha nulla a che fare con l’attacco razzista che parte dell’Italia ha visto nella malriuscita ironia del giornalista tedesco.
“A noi Schettino, a voi Auschwitz”: non ha usato mezzi termini Alessandro Sallusti, il direttore del berlusconiano Il Giornale, nella sua risposta mediatica allo Spiegelonline. “Ci definisce un popolo di codardi - scrive Sallusti - perché gli italiani non sono una razza. Loro sì, invece, e l’hanno dimostrato assieme ad Hitler”. Sallusti fa anche riferimento alle vittime della catastrofe Costa Concordia: se il comandante Schettino ne ha provocati 30, aggiunge, i tedeschi dovrebbero rendere conto per sei milioni.
E’ vero, Fleischhauer ha parlato anche di razze. Definire Schettino attraverso la caricatura dell’italiano medio potrebbe essere “razzista”, ha scritto il giornalista tedesco, precisando tuttavia che “non è chiaro fino a che punto l’italiano possa essere considerato una razza”. Frase aperta a numerose interpretazioni, di cui la stampa italiana ne ha scelta una. Ma razza è un concetto molto più ampio di nazione, almeno si spera, e non si usa parlare di razza italiana, francese o olandese. Razza è un concetto antiquato e oggi si preferisce parlare di cultura per quei piccoli spazi racchiusi entro i confini di uno Stato. La frase di Fleischhauer potrebbe essere interpretata anche così, pur non potendo escludere una vena xenofoba che attraversa i tedeschi da sempre.
Forti però le parole de Il Giornale, un po’ troppo. Perché forse Spiegelonline, famoso per il suo spirito di provocazione, voleva solo giocare con le caricature. E vedere come le caricature ancor oggi possono essere inserite nel tessuto dei fatti quotidiani, della cronaca, della crisi del debito. Se proprio vogliamo essere cattivi, al massimo l’articolo di Spiegelonline dimostra la veridicità dello stereotipo contro i tedeschi: che non possono proprio vantare un particolare senso dell’umorismo. Sallusti, invece, dovrebbe ricordare che la storia immonda della Germania nazista (cui fa riferimento) s’incrocia con quella altrettanto immonda dell’Italia fascista. E che gli eredi politici del fascismo, negli ultimi diciassette anni, hanno governato l’Italia insieme al suo editore e con il sostegno sperticato del giornale da lui diretto. O no?
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di Carlo Musilli
Facevano più o meno venti gradi sotto zero, ma il freddo non li ha fermati. Sabato migliaia di cittadini russi si sono ritrovati nel cuore di Mosca per urlare in faccia al Cremlino la loro rabbia contro il primo ministro Vladimir Putin. Il potere non li ha ascoltati, ma forse stavolta si è spaventato. L'opposizione ha delle richieste precise: la liberazione dei detenuti politici, nuove elezioni legislative alla Duma, riforme politiche che diano più libertà ai partiti, una sfilza di condanne per i responsabili dei brogli elettorali che lo scorso 4 dicembre hanno regalato al partito dello Zar, Russia Unita, una vittoria priva di qualsiasi credibilità.
Se il governo rifiuterà di assecondare i manifestanti - com'è ovvio che accadrà - una nuova protesta andrà in scena il prossimo 26 febbraio. La data è tragicamente vicina al giorno delle elezioni presidenziali russe - in calendario per il 4 marzo - in cui il buon Vladimir è ancora una volta il super favorito.
Al di là degli effetti politici che potrà avere, quello che sta accadendo in Russia ha indubbiamente qualcosa di rivoluzionario, sia per l'assoluta novità del fenomeno, sia per le proporzioni inaspettate che sta assumendo. L'ultima mobilitazione moscovita - cui hanno fatto eco cortei di protesta in almeno altre 200 città del Paese - rappresentava un banco di prova fondamentale per misurare la forza del recente tsunami antigovernativo. E il risultato dell'esame è andato ben oltre le aspettative.
Secondo gli organizzatori, a marciare intonando cori contro Putin sono state addirittura 120 mila persone. Qualcosa di straordinario, considerando che nelle prime tre manifestazioni di dicembre la quota complessiva dei partecipanti non aveva superato le 100 mila unità. Eppure già in quei casi si era trattato delle più vaste contestazioni degli ultimi 15 anni.
Come al solito, la guerra dei numeri che si è subito scatenata ha avuto risvolti grotteschi, con la polizia che ha parlato di soli 35 mila manifestanti. In realtà, quale che sia la cifra esatta, è indubbio che per paralizzare strade e piazze di Mosca non basti un corteo qualsiasi. Tanto è vero che stavolta il Cremlino non ha potuto far finta di niente. Nemmeno Putin se l'è sentita di liquidare la vicenda con una delle sue solite battutine sprezzanti. Per la prima volta da molto tempo, in Russia sta accadendo qualcosa di troppo grande ed evidente per essere sminuito dalla propaganda, strozzato dalla censura.
Ora, a ben vedere la strada politica che questa maxi-opposizione sarà in grado di percorrere non dovrebbe arrivare troppo lontano. Al suo interno le frange sono troppe e troppo diverse fra loro: oltre ai senza-partito (la componente maggioritaria), i cortei contro lo Zar accolgono indifferentemente dai liberali ai verdi, dai comunisti agli anarchici, fino ai nazionalisti xenofobi. Un'alleanza sulla carta improponibile, che però ancora resiste, tenuta insieme da un'unica causa: ottenere libere elezioni e scongiurare il rischio di un'altro decennio putiniano.
Pur non potendo contare su un programma politico nemmeno vagamente unitario, né tantomeno riuscendo a esprime un singolo candidato alternativo a Re Vladimir, gli oppositori potrebbero comunque ottenere un risultato importante: evitare che la partita delle presidenziali si chiuda al primo turno. Sarebbe un successo grandioso, perché priverebbe Putin della sua aura di leader supremo, carismatico e incontrastato, indebolendo la sua posizione agli occhi della piramide statale che fin qui l’ha sostenuto.
Lo stesso primo ministro ha ammesso i suoi timori legati ai recenti avvenimenti: "Arrivare al secondo turno - ha detto - comporterà inevitabilmente la continuazione di una lotta per il potere e una destabilizzazione della situazione politica". Parole da terrorismo psicologico, che la dicono lunga sul concetto che lo Zar ha dello Stato.
Eppure, che la situazione non sia più perfettamente sotto controllo è ormai evidente. Lo dimostra con chiarezza la grottesca manifestazione parallela e pro-Putin andata in scena sempre lo scorso sabato, sempre a Mosca. In questo caso, naturalmente, le cifre sono invertite: secondo la polizia hanno sfilato in favore del leader 138 mila persone, mentre ad ascoltare fonti indipendenti sarebbero state appena 20 mila.
Quale che fosse il loro numero, i fedelissimi di Vladimir sono arrivati nella capitale su decine di pullman appartenenti a vari enti statali. Un dettaglio che conferma i sospetti sull'organizzazione governativa dell'ingloriosa parata. Sembra che diversi impiegati pubblici abbiano visto la loro fedeltà premiata con buste paga più generose o giorni di ferie aggiuntivi. I meno disponibili, invece, sarebbero stati minacciati di licenziamento. A ben vedere, per chi ha il gusto del paradosso, nelle stesse ore e a breve distanza sono state allestite le rappresentazioni della primavera e dell'autunno russo.
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di Michele Paris
L’escalation di minacce e intimidazioni da parte americana verso l’Iran sembra non conoscere alcuna tregua in queste prime settimane del nuovo anno. Alle misure già adottate di recente, il Congresso di Washington sta infatti per aggiungere una nuova serie di sanzioni economiche che, se implementate, produrrebbero effetti ancora più disastrosi per la Repubblica Islamica. Parallelamente, da Israele continuano a giungere preoccupanti segnali di una possibile aggressione militare preventiva contro le installazioni nucleari iraniane, con conseguenze potenzialmente rovinose per la stabilità dell’intero Medio Oriente.
Il nuovo round della guerra economica lanciata contro Teheran è andato in scena qualche giorno fa alla commissione del Senato americano con competenza sulle questioni bancarie, la quale ha approvato all’unanimità un provvedimento per imporre l’espulsione dell’Iran dalla rete mondiale interbancaria SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication). La misura impedirebbe di fatto all’Iran di ricevere quotidianamente miliardi di dollari in entrate dall’estero, trasferiti al sistema bancario locale tramite questo network.
Le nuove sanzioni andrebbero ad aggiungersi a quelle firmate da Obama il 31 dicembre scorso e che penalizzano tutte le istituzioni pubbliche e private che fanno affari con la Banca Centrale iraniana. Pochi giorni fa, inoltre, anche l’Unione Europea aveva preso una propria iniziativa, imponendo un embargo sul petrolio proveniente dall’Iran che entrerà in vigore definitivamente il primo luglio.
Il Congresso americano, fortemente influenzato dalle lobby israeliane di estrema destra, ha così mostrato nuovamente di non nutrire alcuno scrupolo nel suo tentativo di spingere l’Iran verso un cambiamento di regime. A promuovere la più recente misura punitiva, tuttavia, è stata in particolare l’organizzazione legata agli ambienti neo-con, United Against Iran, la quale da tempo funge da mezzo di diffusione di propaganda e menzogne contro l’Iran con il pretesto di impedire a Teheran di giungere a costruire un ordigno nucleare.
Per il suo presidente, Mark D. Wallace (già ambasciatore presso l’ONU per l’amministrazione di George W. Bush, nonché membro del team legale dell’ex presidente repubblicano durante il riconteggio delle elezioni presidenziali del 2000 in Florida), la SWIFT starebbe peraltro contravvenendo da qualche tempo ad altre sanzioni già approvate contro l’Iran e perciò sarebbe necessario che interrompesse ogni legame d’affari con Teheran.
La legge in discussione a Washington - Iran Sanctions, Accountability and Human Rights Act -passerà ora all’esame dell’aula del Senato, dove dovrebbe essere approvata senza difficoltà. Oltre a costringere la società con sede a Bruxelles ad escludere l’Iran dalla sua rete interbancaria, sono previste anche altre sanzioni. Tra di esse spicca l’obbligo per tutte le compagnie quotate nella borsa americana di rivelare qualsiasi legame con aziende o individui iraniani sulla lista nera di Washington e il divieto di rilasciare visti d’ingresso per quegli studenti iraniani che intendono intraprendere negli USA un percorso di studi nell’ambito energetico.
Nonostante le incessanti pressioni, il governo di Teheran continua ad alternare dure risposte alle provocazioni con segnali distensivi. Qualche giorno fa l’Iran ha ad esempio ospitato una delegazione di ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), mentre ha più volte manifestato la disponibilità a riaprire i colloqui sulla questione del nucleare.
Se gli Stati Uniti sono dunque ufficialmente in prima linea sul fronte delle sanzioni, è invece Israele che alimenta le speculazioni su un possibile imminente attacco preventivo in territorio iraniano. Venerdì, il Washington Post ha riportato i timori espressi anche dal governo americano per un’eventuale azione unilaterale israeliana che potrebbe scatenare un conflitto ben più ampio nella regione. Nel corso di un meeting NATO a Bruxelles, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, giovedì ha infatti dichiarato che “Israele sta prendendo in considerazione un attacco mentre noi abbiamo manifestato le nostre preoccupazioni”.
Le più recenti apprensioni sarebbero state provocate dalle parole del Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, in una conferenza nella città costiera di Herzliya. Per l’ex leader laburista il tempo a disposizione per impedire all’Iran di produrre un’arma atomica sta scadendo, dal momento che il regime sta trasferendo le attrezzature relative al proprio programma nucleare in una struttura-bunker presso la località di Qom. Chiudendo il suo intervento di fronte ai vertici militari e dell’intelligence, Barak sarebbe poi passato significativamente dalla lingua ebraica all’inglese, ammonendo che “più tardi è troppo tardi”. Una frase che rappresenta con ogni probabilità un messaggio non troppo velato a quanti, soprattutto a Washington, chiedono a Israele di avere pazienza e di aspettare gli effetti delle sanzioni.
Inoltre, il recente rinvio dell’esercitazione congiunta tra militari americani e israeliani (“Austere Challenge 12”), inizialmente prevista per il mese di aprile, secondo alcuni non sarebbe stato un segnale per stemperare la tensione con l’Iran., bensì una prova stessa delle intenzioni di Tel Aviv di attaccare in primavera o all’inizio dell’estate. Il governo israeliano, infatti, avrebbe chiesto di spostare l’esercitazione perché essa avrebbe sottratto alle proprie forze armate risorse importanti da impiegare in un’operazione militare contro la Repubblica Islamica.
La contrarietà americana pare essere stata esposta direttamente al premier Netanyahu e allo stesso Barak dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey. Il 20 gennaio scorso, quest’ultimo avrebbe riferito al governo israeliano che gli Stati Uniti non prenderanno parte ad una guerra contro l’Iran scatenata da Tel Aviv senza l’OK di Washington. In precedenza, anche il numero uno del Pentagono in un’intervista alla CBS aveva affermato che, in caso di attacco israeliano, gli USA si dedicherebbero esclusivamente a proteggere le proprie forze armate da eventuali ritorsioni da parte iraniana.
Il governo israeliano non sembra comunque scoraggiato dalla riluttanza americana e, anzi, sono in molti a sostenere che il governo di estrema destra guidato da Netanyahu voglia deliberatamente provocare frizioni con l’amministrazione Obama per mettere sotto pressione la Casa Bianca durante il periodo elettorale e ottenere il via libera all’attacco militare nei prossimi mesi.
Israele, d’altra parte, non sembra temere particolarmente la reazione di Teheran, ricordando agli alleati americani come un attacco simile contro un reattore nucleare in Siria nel 2007 non provocò alcuna rappresaglia. Secondo l’opinionista del Washington Post vicino agli ambienti d’intelligence a stelle e strisce, David Ignatius, calcolando eventuali razzi lanciati dall’Iran e da Hezbollah in Libano, Israele stima di dover “assorbire” non più di 500 vittime.
Per lo stesso Ignatius, il quale avanza anche l’ipotesi che Tel Aviv veda addirittura positivamente il mancato coinvolgimento americano in un conflitto con l’Iran, il piano di aggressione israeliano prevede una sorta di guerra lampo di pochi giorni con incursioni aeree limitate, seguite da un cessate il fuoco negoziato dall’ONU. Uno scenario, questo, fin troppo ottimistico e che, sovrapponendosi alle tensioni in Siria e agli effetti della Primavera Araba, quanto meno solleva più di una perplessità.
Anche se il messaggio trasmesso dagli USA a Israele appare insolito, l’amministrazione Obama e il complesso militare americano non sembrano in realtà nutrire particolari scrupoli per un’azione militare contro l’Iran. I vertici del governo e delle forze armate continuano infatti a sostenere che nei confronti della Repubblica Islamica ogni “opzione rimane sul tavolo”, mentre nelle ultime settimane la presenza militare americana nel Golfo Persico è notevolmente aumentata in vista di un possibile conflitto.
Quello che Washington non desidera è un attacco preventivo, perché estremamente impopolare. Piuttosto, un eventuale intervento armato dovrebbe essere legittimato da un casus belli, fornito dalla reazione di Teheran ad una delle svariate provocazioni che gli Stati Uniti e i loro alleati stanno mettendo in atto da tempo. In alternativa, la Casa Bianca continua a puntare su sanzioni punitive che colpiscono l’economia iraniana e indeboliscono il regime.
Nel frattempo, la propaganda anti-iraniana prosegue senza sosta. Qualche giorno fa, il capo dell’intelligence statunitense, James Clapper, nel corso di un’audizione al Congresso, senza presentare alcuna prova, ha espresso timori per la possibilità che l’Iran possa pianificare attentati terroristici sul territorio americano.
Venerdì, infine, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo dal titolo “Gli USA temono legami dell’Iran con Al-Qaeda”, secondo il quale Teheran avrebbe recentemente liberato e fornito un qualche appoggio materiale a cinque membri di alto livello appartenenti all’organizzazione che fu di Osama bin Laden e che erano agli arresti domiciliari fin dal 2003. Il pezzo, che considera solo sommariamente le note differenze strategiche tra l’Iran sciita e il radicalismo sunnita di Al-Qaeda, fa parte della campagna diffamatoria in atto da tempo nei confronti di questo paese, così da preparare l’opinione pubblica internazionale alle prossime azioni volte a provocare la caduta di un regime sempre meno gradito.
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di Michele Paris
Con la netta affermazione nelle primarie di martedì in Florida, Mitt Romney ha frenato in maniera probabilmente decisiva la rimonta del suo principale sfidante per la nomination in casa repubblicana. In una competizione ancora una volta pesantemente influenzata dalle disponibilità di spesa dei candidati, Newt Gingrich non ha saputo capitalizzare il trionfo ottenuto in Carolina del Sud, finendo invece sotto i colpi dell’aggressiva campagna del miliardario mormone, il quale è riuscito, almeno per il momento, a fugare i dubbi sulle sue possibilità di sconfiggere Barack Obama nell’election day del prossimo 6 novembre.
A fronte di oltre venti milioni di dollari investiti complessivamente dalle campagne elettorali dei vari candidati in corsa in Florida, l’affluenza è risultata inferiore alle aspettative. Alle urne si sono recati poco meno di 1,7 milioni di elettori, circa il 15% in meno rispetto alle primarie del 2008 che premiarono John McCain davanti a Mitt Romney.
Oltre al fatto che le primarie in Florida, a differenza degli altri Stati che hanno votato finora, erano limitate agli elettori registrati come repubblicani, il basso numero di votanti è stato dovuto anche allo spostamento a destra dei candidati, ben lontani dai bisogni della maggior parte della popolazione di uno degli Stati americani più colpiti dalla crisi dei mutui. L’ondata di messaggi propagandistici negativi e volti ad attaccare i rispettivi avversari ha inoltre contribuito ad allontanare una parte degli elettori dalla competizione.
Secondo i dati ufficiali, Mitt Romney ha conquistato il primo posto con il 46,4% dei voti espressi, staccando di oltre 14 punti l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich (31,9%). Più indietro, come previsto, sono giunti l’ex senatore ultraconservatore della Pennsylvania, Rick Santorum (13,4%), e il deputato libertario del Texas, Ron Paul (7%), i quali non avevano praticamente fatto campagna elettorale in Florida.
In questo Stato, tutti i delegati in palio sono stati assegnati al vincitore delle primarie, così che Romney ne ha potuti aggiungere 50 a quelli già ottenuti nelle tre competizioni di gennaio che prevedevano un sistema proporzionale. Il numero dei delegati riservati alla Florida era stato dimezzato dai vertici nazionali del Partito Repubblicano dopo che i dirigenti locali avevano deciso di anticipare la data delle primarie rispetto al calendario ufficiale. Finora, Romney può contare su 87 delegati, Gingrich su 26, Santorum su 14 e Paul su 4. Per assicurarsi la nomination del partito sono necessari almeno 1.144 delegati.
La vittoria in Florida è stata salutata dai media americani come la conferma delle maggiori chances dell’ex governatore del Massachusetts di raccogliere consensi al di là della tradizionale base elettorale repubblicana. A differenza di Iowa e Carolina del Sud - i cui caucus e primarie erano andati rispettivamente a Santorum e a Gingrich - il voto di conservatori e fondamentalisti cristiani risulta infatti meno determinante in Florida, il cui elettorato dovrebbe invece riflette maggiormente quello repubblicano a livello nazionale.
Nonostante la netta sconfitta, Gingrich ha confermato di voler rimanere in corsa ancora a lungo. Lo stesso Santorum ha annunciato di volersi concentrare sui prossimi appuntamenti di Nevada e Colorado, dove il suo team ha già acquistato spazi televisivi per attaccare Newt Gingrich. Per quest’ultimo, la volontà di Santorum di rimanere in gara potrebbe rappresentare un ostacolo nel tentativo di coagulare l’intero voto conservatore in funzione anti-Romney. Lo stesso Ron Paul, infine, aveva da tempo manifestato l’intenzione di guardare oltre la Florida, puntando su primarie e caucus meno competitive e dispendiose.
Per quanto Romney appaia il favorito d’obbligo per la nomination, alla luce dei numerosi appuntamenti elettorali ancora in calendario e del fatto che il 95% dei delegati risulta ancora da assegnare, non è da escludere una sfida prolungata ben oltre la primavera. A febbraio sono infatti previste solo tre competizioni che assegneranno delegati - i caucus di sabato prossimo in Nevada e le primarie in Arizona e Michigan il 28 - oltre a caucus e primarie non vincolanti in Maine, Colorado, Minnesota e Missouri. Cruciale come di consueto sarà inoltre il supermartedì, in calendario il 6 marzo, dove saranno complessivamente in palio 437 delegati nei dieci stati che voteranno, molti dei quali nel sud degli Stati Uniti, teoricamente favorevoli a Newt Gingrich.
Gli equilibri tra i repubblicani, in ogni caso, saranno determinati soprattutto dalla quantità di denaro che un numero relativamente ristretto di facoltosi finanziatori deciderà di investire nelle campagne elettorali dei candidati e nelle loro “SuperPAC”. Le sorti di Gingrich, in particolare, sembrano essere legate all’amico miliardario Sheldon Adelson, magnate dell’industria dei casinò che, assieme alla moglie, ha già staccato assegni per dieci milioni di dollari che hanno di fatto permesso all’ex speaker repubblicano di vincere in Carolina del Sud e di competere in Florida.
Gingrich, tuttavia, qualche giorno fa ha rivelato di avere a disposizione “appena” 600 mila dollari. Perciò, nel caso non dovessero giungere altre generose donazioni a breve, la sua campagna si complicherà non poco e faticherà a tenere testa a lungo alla macchina da guerra di Mitt Romney.
L’attuale “front-runner” repubblicano è d’altra parte il candidato meglio finanziato, come dimostrano le numerose recenti donazioni provenienti da Wall Street e dalle maggiori corporation americane. Romney e la sua Super PAC (Restore Our Future) hanno potuto spendere ben 15,4 milioni di dollari nelle primarie in Florida, contro i 3,7 milioni sborsati da Gingrich, il quale si è trovato sommerso, come già era accaduto in Iowa, da una valanga di spot negativi che hanno fatto leva sul suo passato a Washington, sia in veste di leader politico che di lobbista.
Messo così alle strette, nei giorni che hanno preceduto le primarie della Florida, Gingrich aveva provato a fare appello alle sezioni più reazionarie dell’elettorato repubblicano, dipingendo il rivale Romney come un liberal virtualmente indistinguibile dal presidente Obama. Malgrado gli attacchi incrociati spesso molto duri, tutti i candidati repubblicani condividono in realtà una politica economica e fiscale nettamente sbilanciata a favore dei redditi più alti.
Le ipotesi avanzate in questa campagna elettorale prevedono, ad esempio, l’abolizione della tassa sui capital gains o l’ulteriore riduzione dell’aliquota fiscale riservata alle corporation. Misure come queste, se implementate dal possibile prossimo inquilino della Casa Bianca, avrebbero conseguenze rovinose sul deficit federale e su una spesa pubblica già bersaglio in questi mesi di devastanti tagli bipartisan.
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di Vincenzo Maddaloni
ANKARA. Sembrerebbe la solita notizia inventata apposta per screditare gli Stati Uniti d’America. Invece la notizia è vera, l’ha pubblicata qualche giorno fa il New York Times. Vi si legge che mille e cinquecento reclute della polizia di New York hanno dovuto assistere alla proiezione di “The third Jihad”, il documentario anti-Islam uscito nel 2008 di Erik Werth. Sono immagini che raccontano di musulmani che «provano a dominare il mondo, condividendo i loro obiettivi con al-Qaeda»; descrivono la conferenza del presidente Mahmud Ahmadinejad alla Columbia university, quando disse che «non esistono omosessuali in Iran»; riprendono le dichiarazioni dei componenti di "Islam Thinkers Society", il movimento integralista newyorkese, che chiede l'imposizione della legge islamica.
Dall’inchiesta del New York Times emerge che il documentario veniva proiettato durante le varie fasi delle visite di selezione, in particolare durante quelle mediche e psicologiche per saggiare l'orientamento politico dei futuri poliziotti. «Tutti sappiamo del terrorismo, ma questa è la guerra di cui non siamo al corrente», spiega Zuhdi Jasse, medico americano di religione musulmana che dà al film la voce narrante. «Quando i gruppi musulmani parlano del dominio del mondo da parte dell'Islam si capisce che - continua - essi condividono alcuni dei loro obiettivi con al-Qaeda e ciò li rende pericolosi». Il documentario include le interviste con il capo della polizia Ray Kelly, con l'ex sindaco di New York Rudy Giuliani, e con Joe Lieberman, il senatore del Connecticut il quale continua a ripetere che Saddam Hussein stava accumulando armi di distruzione di massa (anche se nessuno ne ha mai rinvenuta una soltanto dopo l’ invasione dell'Iraq).
Perché ho riportato questo fatto di cronaca che in prima lettura sembrerebbe di poco importanza o meglio di puro folclore? Perché ho sotto gli occhi l’articolo di David Goldman pubblicato sull’ultimo numero di Middle East Quarterly (http://www.meforum.org/3134/turkey-economic-miracle) nel quale si parla di un imminente collasso del “miracolo economico” turco e lo si paragona a quello argentino del 2000 e messicano del 1994, entrambi avvenuti dopo periodi di espansione economica. Goldman prevede che «la velocità e la magnitudo della battuta d’arresto potrebbe facilmente erodere la capacità dell’AKP di governare con il pragmatismo piuttosto che con l’ideologia islamista»; sicché è ipotizzabile anche in Turchia un’esplosione religiosa che - prevede ancora Goldman - impedirebbe ad Erdogan «di utilizzare gli incentivi economici per disinnescare il separatismo curdo, contenere l’opposizione interna e far conquistare alla Turchia un ruolo di primo piano in Medio Oriente». Insomma, ci sarebbero tutti i presupposti, lascia intendere Goldman, perché nella Regione si scateni un’altra guerra.
Quello che Goldman non dice è che il primo ministro Recep Tayyip Erdogan governa con un grande sostegno popolare raggiunto con il successo di un’economia che, viaggiando con ritmi cinesi, gli ha permesso di vincere tre elezioni di fila. E così, forte del consenso delle masse, egli ha potuto devitalizzare, e di molto, il potere della vecchia guardia dei militari filo atlantici e laici, modificando così l'assetto degli equilibri politici sul Bosforo. Si tenga a mente poi che pure la Turchia accusa i colpi della recessione, ma non appare affatto prossima al collasso, come lo è la Grecia. Naturalmente in questo scenario un rallentamento dell’economia turca c’è stato, ma non con la tragicità indicata da Goldman, poiché il tasso di crescita della Turchia previsto per il 2012 (tra il 3 e il 4 per cento) resta ancora abbastanza alto rispetto agli standard europei.
Non va poi dimenticato che la Turchia ha ottantacinque milioni di abitanti a schiacciante maggioranza islamica, che è il secondo paese Nato per potenza militare e che ha un forte orgoglio nazionale, memore della storia imperiale ottomana. Insomma ha un “curriculum” degno di una nazione che aspira a un ruolo di leader in un’area delicata com’è il Medio Oriente. E’ sempre il sostegno delle moltitudini degli elettori credenti che ha permesso ad Erdogan di spegnere, con una vera e propria epurazione di massa, i tentativi di riconquista del potere da parte dei militari.
L’ultimo arresto, avvenuto agli inizi di gennaio - il più clamoroso - è quello dell'ex-capo di Stato maggiore, il generale Ilker Basbug [nella foto a lato con il premier Erdogan ndr], comandante in capo dall'agosto 2008 all'agosto 2010 del secondo - per uomini e armamenti - esercito della Nato, quello turco, appunto.
Egli è stato arrestato con l'accusa di essere «alla guida di un'organizzazione terroristica» l’Erkenekon che mira a «rovesciare il governo del premier Recep Tayyip Erdogan». http://www.ilpost.it/2011/02/22/che-cose-ergenekon/. Il processo è in corso e continua a suscitare scalpore perché sebbene i militari - garanti della laicità del paese - abbiano sempre avuto un grande potere e per conservarlo abbiano organizzato numerosi golpe, è la prima volta, in Turchia, che un ex-capo di Stato maggiore viene arrestato.
«Le indagini su Egenekon e sui complotti golpisti, avviate nel 2007, hanno portato all'arresto di centinaia di generali, ufficiali, accademici, avvocati, giornalisti soprattutto di sinistra e difensori della laicità. In questi cinque anni Erdogan ha incoraggiato il lavoro dei giudici e spesso se n’è servito per ridurre al silenzio i suoi oppositori», mi conferma un collega di un importante quotidiano di Ankara, che ho rivisto dopo tanto tempo e che mi prega di tacergli il nome perché, «nel Paese c’è più censura che libertà di stampa, il numero dei giornalisti arrestati è in un aumento costante». E’ preoccupato, parla scuotendo la testa. «Non credo alle previsioni di Goldman, ma - conclude - se l’euforia economia fosse costretta a ridimensionarsi, le carceri si riempiranno ancora di più. Tu mi chiedi se si stava meglio con il governo dei militari? Nel mio paese le carceri non sono state mai vuote».
Ankara non ha la spensierata frenesia di Istanbul. Essa ha un aspetto austero come le case che fanno da fondale in Ulucanlar caddesi, alla Yeni Cami, la “Moschea Nuova” che l’architetto ottomano Sinan costruì con grande sfarzo di marmi e di maioliche nel 1565 per ordine di Cenabi Ahmet Pascia. Nemmeno il sole che si riverbera sulla cupola e i muri di porfido rosso della “Moschea Nuova” riesce per un attimo ad allontanare i foschi scenari descritti dall’amico turco che mi sta seduto di fronte e stringe la tazzina del caffè. Egli mi riassume il rapporto dello scorso anno di Amnesty International che denuncia le torture e i maltrattamenti praticati nelle carceri turche. Mi ricorda che ai dipendenti pubblici è negato il diritto allo sciopero e che non è stata ancora riconosciuta l’obiezione di coscienza al servizio militare. Infine mi completa il quadro precisandomi che ultime leggi sull’antiterrorismo sono state varate apposta per limitare la libertà d’espressione (nel mirino in particolare giornalisti, avvocati di organizzazioni per i diritti umani, attivisti politici curdi). «L’unica nota positiva - conclude - è l’abolizione della pena di morte per tutti i reati».
Naturalmente, del rapporto di Amnesty qui poco se ne parla o quasi per niente, perché Erdogan è considerato dalla maggioranza che l’ha votato un vincente, che ha tutte le credenziali per essere accreditato come il leader (musulmano), l’unico in grado di rasserenare quel clima d’incertezza politica che s’è creato con “primavera araba” in tutto il Medio oriente e non soltanto in esso.
Infatti, è il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan che, nel settembre scorso, sbarca al Cairo, dove migliaia di persone l’attendono sventolando bandiere turche ed egiziane. Ecco «l'inviato di Allah, Erdogan», è uno degli slogan più scanditi in quei giorni nella capitale egiziana. «Erdogan nostro amico», «Benvenuto al leader della libertà» gridano centinaia di studenti dell'università di al Azhar, il più importante centro teologico sunnita, dove si reca per incontrare il gran imam Ahmed el Tayyeb e il grande mufti d’Egitto, Ali Gomaa.
Ed é sempre Recep Tayyip Erdogan che chiede a viva voce il riconoscimento dello Stato palestinese. «Non è un'opzione, è un dovere», dichiara il primo ministro turco nel suo intervento alla Lega Araba durante il quale afferma che il contenzioso palestinese non è una questione da classificare come «ordinaria amministrazione» perché riguarda «la dignità dell'essere umano». E così, il 20 di settembre il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen può presentarsi al Palazzo di Vetro, e richiedere il riconoscimento della Palestina come Stato indipendente, il 194° membro delle Nazioni Unite.
E’ ancora Recep Tayyip Erdogan che lancia un messaggio a Israele, tutt'altro che conciliante. Non ci sarà nessuna normalizzazione tra la Turchia e lo Stato ebraico di Israele, se quest'ultimo non rispetterà le condizioni poste da Ankara e cioè le scuse per l'attacco alla flottiglia umanitaria, l'indennizzo delle vittime e la revoca dell'embargo su Gaza, avverte il primo ministro turco, non escludendo il ricorso alla marina militare per forzare, se necessario, il blocco navale a Gaza.
Se si pensa che ancora in anni recenti la marina israeliana e quella turca compivano le manovre congiunte sotto l'egida della Nato, si può capire l’ansia di Tel Aviv quando si è saputo che nei radar della flotta turca, le navi e gli aerei israeliani non sono più segnalati come «amici», ma come «ostili».
E’ dopo questi fatti che la banca d’affari e di investimenti Goldman Sachs ha cominciato a consigliare ai suoi clienti di liberarsi in fretta di tutti i titoli della seconda più grande banca privata turca, la “Garanti Bakasi”. L’obiettivo s’è rivelato non facile da raggiungere perché la Turchia è al quinto posto, tra i grandi dell’economia mondiale. Pertanto, per rassicurare i suoi clienti più perplessi e incoraggiare quelli ancora indecisi, è ricorsa, come detto, all’autorevole David Goldman, il quale con l’ormai famoso articolo sul Middle East Quarterly ha predetto il crollo economico della Turchia nel 2012, convincendo tutti i dubbiosi. Almeno così sostengono al Goldman Sachs Group.
Stando così le cose, ci vuole poco a capire che le iniziative di Erdogan cominciano ad irritare anche gli Stati Uniti. Persino lo sventolio della bandiera del secondo (per potenza) esercito della Nato pare li infastidisca. Succede da quando qualcuno, alcune settimane fa, ha rinverdito la leggenda secondo la quale la bandiera nasce con quelle insegne perché «un riflesso della luna che occulta una stella, apparve nelle pozze di sangue dei cristiani sconfitti dopo la battaglia di Kosovo nel 1448». E’la battaglia durante la quale gli Ottomani sconfissero le forze cristiane e stabilirono l'Impero ottomano con l’adozione della bandiera turca nell'Europa orientale fino alla fine del XIX secolo.
Tuttavia dice bene Fabio Grassi che vive in Turchia da tredici anni, e insegna Storia nell’Università Tecnica di Yildiz di Istanbul, quando rassicura che «molti arabi guardano oggi alla Turchia come ad un paese con una matura cornice istituzionale e democratica, in cui c'è però più che in passato coesione e sintonia tra Stato e società civile, soprattutto riguardo alla presenza della religione nella sfera pubblica. Semplificando, nell’immediato è più alla Turchia di Erdogan che a quella di Atatürk che si guarda oggi nel mondo arabo». Malauguratamente non è questa la realtà che conta.
Oggi la realtà è che nella società globale o meglio dell’americanismo globale, come lo definisce il sociologo tedesco Ulrich Beck, si riconosce la validità di un solo modello, quello americano, “the American way of life”. Pertanto, ogni altra proposta - si predica - va considerata come un’eresia. Come appunto lo è l’ambizione di fare di un paese a maggioranza musulmana una grande potenza, il crocevia tra Est e Ovest. «Siccome l’America e soltanto essa ha - chiarifica Ulrich Beck - la capacità di fuoco per difendere con le armi la libertà di tutti, essa pretende che il suo ruolo di potenza egemone venga accettato da tutti.». E dunque, «ogni persona razionale della Terra, a prescindere dal colore della sua pelle, dalla sua appartenenza religiosa, o dal luogo della sua nascita, deve convenire che è nel suo interesse sostenere l’americanismo mondiale o la pax americana che dir si voglia».
E dunque sono guai forti per chi l’americanismo globale lo combatte, oppure semplicemente non lo sostiene, ma anche per chi vi dimostra soltanto svogliatezza. Lo conferma Daniel Pipes, giornalista e figura mediatica di spicco del neo-conservatorismo americano, che ha dato inizio a una vera opera di demolizione dell’immagine di Erdogan e della sua Turchia.
Scrive tra l’altro sul suo blog (tradotto in tredici lingue compresi il cinese e l’indi): «Sulla scia di Gamal Abdel Nasser e di Saddam Hussein, il premier turco sfrutta la retorica antisionista per diventare la star politica araba. C'è da rabbrividire al pensiero di dove egli potrebbe andare a finire, elettrizzato com’è da tutta quest'adulazione». Pipes poi si dilunga in un elenco di accuse e di sospetti, e alla fine conclude che «insieme alle armi nucleari di Teheran, la Turchia oggi rappresenta la minaccia più grande nella Regione». http://it.danielpipes.org/10177/turchia-dissidente .
L’accusa è pesante e sicuramente Daniel Pipes non l’avrebbe lanciata senza l’approvazione del Goldman Sachs Group che tutto può. Se così non fosse George W. Bush non avrebbe nominato alla carica di segretario del Tesoro degli Stati Uniti l'amministratore delegato della Goldman Sachs, Henry Paulson. Cambiata l’amministrazione, è sempre un lobbista della Goldman Sachs, Mark Patterson, alla testa dello staff del segretario del Tesoro Timothy Geithner, nonostante il presidente Barack Obama, nella sua campagna presidenziale, avesse promesso che l'influenza dei lobbisti nella sua amministrazione sarebbe stata ridimensionata.
Stando così le cose l’America è ben distante da quell’ immagine di nazione soggiogata dal vuoto spirituale che cercano di appiccicarle i musulmani. Paradossalmente gli Stati Uniti, elevando la formula “capitalismo&democrazia” a propria e vera fede, rappresentano una delle società più religiose del mondo. Essi si mostrano ogni volta determinati nell’imporla, perché convinti del principio che non c’è alternativa alla modernità americana su scala globale. Pertanto nella visione statunitense non c’è spazio per le confessioni di credo e per gli interessi nazionali se essi non si fondono con gli interessi globali della pax americana. Così si spiega perché “the American way of life” sia diventata argomento di una catechizzazione diffusa che non trascura - s’è visto - nemmeno le aspiranti reclute della polizia di New York. Insomma gli Stati Uniti per sostenere la loro formula non badano a spese, ci provano sempre, anche con le guerre. Poi, malauguratamente, i lutti se li dimenticano in fretta.