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di Michele Paris
Mentre proseguono gli scontri tra le forze di sicurezza e l’opposizione, domenica il regime siriano ha tenuto il promesso referendum costituzionale che dovrebbe teoricamente aprire il sistema politico del paese al multipartitismo. L’iniziativa di Damasco è stata tuttavia bocciata sia dalla stessa opposizione, sia dalle monarchie sunnite del Golfo e dai governi occidentali, appena usciti dal primo vertice degli “Amici della Siria” a Tunisi senza un progetto unitario per la rimozione del presidente Bashar al-Assad.
I media occidentali hanno raccontato di seggi semi-deserti e cittadini sfiduciati nei confronti delle proposte di riforma di Assad, pur ammettendo una significativa affluenza in alcune località, ad esempio nel centro della capitale.
Le organizzazioni con sede all’estero vicine all’opposizione hanno diffuso sul web filmati di manifestazioni di protesta contro il voto. Per i Comitati di Coordinamento Locale, un gruppo di opposizione attivo in Siria, le forze di sicurezza avrebbero fatto inoltre 55 vittime nella sola giornata di domenica, quasi tutte a Homs, dove non è stato possibile organizzare le operazioni di voto, e altre 33 lunedì. In alcuni sobborghi della capitale, poi, la polizia sarebbe intervenuta per disperdere dimostranti anti-referendum.
La stampa ufficiale del regime, al contrario, ha dato ampio spazio al referendum, descritto come il primo passo verso la libertà e la democrazia in Siria sotto la guida del presidente. L’agenzia di stampa SANA ha scritto di una imponente manifestazione andata in scena domenica a favore del processo di riforma e del referendum costituzionale nella piazza Saba Bahrat di Damasco. Secondo i dati diffusi lunedì sera dal ministro dell’Interno, Mohammad Ibrahim al-Shaar, la nuova Costituzione è stata approvata dall’89,4% dei votanti, mentre l’affluenza alle urne sarebbe stata del 57,4%, pari cioè a più di 8,7 milioni di elettori.
Il referendum sulla nuova Costituzione è il punto centrale del piano promosso da Assad per riformare il regime. Il leader siriano lo annunciò già lo scorso mese di giugno, anche se l’evoluzione della crisi lo fece ben presto passare in secondo piano. Soprattutto, da qualche mese qualsiasi passo fatto da Damasco per venire incontro, sia pure in maniera molto cauta, alle richieste della piazza viene bollato dall’opposizione armata e dai suoi sponsor occidentali come un tentativo di guadagnare tempo per intensificare la repressione delle proteste.
I dettagli della nuova Costituzione sono stati resi pubblici solo da alcune settimane e prevedono, tra l’altro, la fine del monopolio sul sistema politico siriano del Partito Baath. Viene poi fissato un limite di due mandati presidenziali di sette anni ciascuno, un tetto che non verrebbe però applicato retroattivamente ad Assad, al potere dal 2000, ma scatterebbe solo dal 2014.
Per candidarsi alla presidenza sarebbe necessario anche aver vissuto per almeno dieci anni consecutivi in Siria - i leader dell’opposizione sono in gran parte dissidenti ed esuli che vivono da tempo all’estero - e non avere un coniuge nato all’estero. Infine, viene consentita l’organizzazione di partiti politici, purché non su base religiosa o etnica, escludendo così un movimento proprio per i Fratelli Musulmani, in prima linea nella lotta contro il regime, o per la minoranza curda.
In Occidente, tra le voci più critiche del voto tenuto in Siria nel fine settimana c’è stata quella del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, la quale da Rabat, in Marocco, ha parlato di un “finto referendum che serve ad Assad per giustificare le sue azioni contro i propri cittadini”. La consultazione è stata invece appoggiata in pieno da Russia e Cina, le cui pressioni, secondo alcuni, avrebbero anzi convinto Assad ad anticipare di un mese la data del voto, così da dare qualche legittimità al sostegno garantito da Mosca e Pechino di fronte alla comunità internazionale.
Nonostante l’accordo per creare zone cuscinetto in territorio siriano, i cosiddetti “Amici della Siria” continuano ad essere divisi sull’opportunità di fornire armi all’opposizione, anche se in realtà quest’ultima riceve da qualche tempo sostegno materiale in maniera più o meno ufficiale da paesi come Turchia, Giordania, Arabia Saudita e Qatar.
Gli scrupoli, soprattutto americani, a fronte di una maggiore decisione mostrata dalle autocrazie del Golfo, sono stati espressi ieri dalla stessa Clinton in un’intervista alla CBS. La ex first lady ha ricordato come l’opposizione sia ancora divisa, dall’identità incerta e, oltretutto, appoggiata pubblicamente sia dal numero uno di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che più recentemente da Hamas, la cui leadership fino a poco tempo fa aveva sede proprio a Damasco.
A conferma del fronte tutt’altro che unitario all’interno di un’opposizione formata da disertori, integralisti islamici, dissidenti screditati, uomini vicini a governi e servizi segreti occidentali, lunedì è stata annunciata la formazione del Gruppo Patriotico Rivoluzionario da parte di una manciata di membri del Consiglio Nazionale Siriano scontenti della gestione a loro dire troppo moderata del presidente Burhan Ghalioun. La nuova formazione comprenderebbe una quarantina di individui e intende concentrare i propri sforzi sulla lotta condotta dal Libero Esercito della Siria contro le forze del regime di Assad.
Quest’ultimo, intanto, ha incassato una nuova conferma del sostegno di Mosca. In un’intervista pubblicata lunedì dal quotidiano Moscow News, Vladimir Putin ha messo in guardia da un intervento armato in Siria e in Iran. Il premier russo ha anche affermato che i governi occidentali avrebbero appoggiato le rivolte della Primavera Araba solo per promuovere i loro interessi nella regione, mentre riguardo alla Siria ha ribadito la fermezza di Mosca nel chiedere che sia le forze di sicurezza di Assad sia l’opposizione armata cessino le violenze.
Gli USA e i loro alleati, tuttavia, continuano ad attribuire la responsabilità della crisi in Siria unicamente ad un regime che sono sempre più determinati a rovesciare. L’Unione Europea lo ha confermato in un recente summit dei ministri degli Esteri da cui sono uscite altre sanzioni contro Damasco.
A sette ministri di Assad verranno così congelati i beni in Europa e negato l’ingresso nei paesi dell’Unione. Allo stesso modo, i beni della Banca Centrale Siriana saranno bloccati, mentre gli scambi commerciali considerati “legittimi” potranno proseguire solo dietro autorizzazione UE. I cargo siriani, infine, non potranno più atterrare negli aeroporti europei e verrà interrotto il commercio di metalli preziosi con la Siria.
L’escalation del conflitto, causata in buona parte proprio dalle manovre occidentali, minaccia sempre di più anche la stabilità di paesi come Iraq e Libano. Entrambi i governi sono sostenuti da maggioranze politiche sciite ma devono fare i conti con massicce minoranze sunnite che si stanno mobilitando a favore dell’opposizione siriana. Questi paesi hanno finora cautamente evitato di dissociarsi dal regime di Assad, soprattutto per il timore che l’aggravarsi della situazione in Siria possa tornare a scatenare violenze settarie all’interno dei loro confini.
In Libano, in particolare, scontri e manifestazioni a favore di entrambi i fronti in lotta in Siria si sono moltiplicati nelle ultime settimane. Mentre il governo guidato da Hezbollah e dal premier Najib Mikati, miliardario sunnita vicino a Damasco, ha finora respinto le pressioni occidentali per isolare Assad, l’opposizione sunnita filo-americana e filo-saudita dell’ex premier Saad Hariri si è schierata apertamente con l’opposizione siriana.
L’eventuale caduta di Assad avrebbe profonde conseguenze sul Libano, da dove la Siria fu costretta a ritirare il proprio esercito nel 2005 dopo l’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri e l’esplosione della cosiddetta “Rivoluzione del Cedri” patrocinata da Washington. Gli eventi del 2005 furono il primo passo verso il tentativo di rompere i legami tra Hezbollah e Damasco, un rapporto fondamentale per il fronte di resistenza anti-americano in Medio Oriente e che consente un canale diretto tra il “Partito di Dio” e Teheran.
Con il regime siriano in crisi, per gli Stati Uniti si presenta ora la possibilità di spezzare una volta per tutte il cordone ombelicale che collega Damasco ed Hezbollah, assestando così un colpo mortale all’Iran e indebolendo il movimento sciita libanese che diventerebbe a sua volta vulnerabile di fronte ad una nuova eventuale aggressione israeliana.
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di Michele Paris
La crisi scatenata martedì scorso dal rogo di alcune copie del Corano presso una base militare americana in Afghanistan si è ulteriormente aggravata nel fine settimana, con un bilancio complessivo di almeno una trentina di vittime. Mentre a nulla sono servite le scuse offerte dal presidente Obama, gli episodi di violenza hanno mostrato tutto l’odio diffuso tra la popolazione afgana nei confronti di un’occupazione che in un decennio ha portato solo morte e distruzione nel paese centro-asiatico.
A conferma della gravità della situazione in Afghanistan, nella giornata di sabato due americani sono stati uccisi a Kabul all’interno dell’edificio che ospita il Ministero dell’Interno, con ogni probabilità per mano di un membro delle forze di sicurezza afgane. Secondo quanto riportato da Al Jazeera, i due militari statunitensi si trovavano in una stanza di massima sicurezza nella quale gli unici cittadini afgani ad avere accesso erano gli interpreti. L’azione è stata rivendicata dai Talebani che hanno sostenuto di aver infiltrato la polizia afgana.
Con un annuncio del comandante delle forze di occupazione, il generale americano John Allen, la NATO ha subito ritirato tutti i propri consiglieri presso i ministeri afgani, stimati in parecchie centinaia. La misura estrema fa seguito alla chiusura temporanea, decisa giovedì scorso, sia dell’ambasciata americana a Kabul che delle basi militari nel paese.
La scintilla che ha scatenato la più recente ondata di violenze, come noto, era stata martedì la diffusione della notizia che alcuni lavoratori afgani nella base americana di Bagram erano stati scoperti mentre stavano bruciando in un inceneritore alcune copie del Corano. Il libro sacro dell’Islam era stato sequestrato assieme ad altro materiale religioso nella biblioteca del carcere di Bagram, dove gli americani detengono gli afgani sospettati di far parte dei Talebani. Secondo i vertici militari statunitensi, i volumi erano destinati ad essere distrutti perché contenevano “inscrizioni estremiste” utilizzate come sistema di comunicazione tra i detenuti.
In seguito alle immediate proteste diffusesi nel paese, giovedì la Casa Bianca ha emesso un comunicato di scuse del presidente, mentre il Pentagono ha annunciato un’indagine sui fatti, così come un nuovo programma di addestramento destinato a quei militari incaricati di gestire materiale religioso.
Le scuse di Washington, tuttavia, non hanno placato gli animi di una popolazione afgana che ha sentito il rogo delle copie del Corano come l’ultima delle umiliazioni inflitte da una sempre più odiata forza di occupazione.
Il più recente episodio che aveva provocato violenti scontri era stata l’apparizione sul web a gennaio di un video nel quale alcuni Marines americani urinavano sui corpi di afgani uccisi. In precedenza, profanazioni del Corano da parte dei militari stranieri avevano causato proteste e svariati morti almeno in altre due occasioni.
La crisi in corso ha così fatto esplodere una rabbia già ampiamente diffusa tra gli afgani nei confronti non solo delle forze di occupazione ma anche del governo fantoccio del presidente Karzai.
Uno dei segnali più inquietanti dell’odio presente in ogni strato della popolazione locale sono i frequenti attentati condotti contro i militari NATO da parte di membri delle stesse forze di sicurezza afgane, come quello avvenuto sabato a Kabul. Tra i più recenti, va ricordata l’uccisione nel mese di gennaio di alcuni soldati francesi che ha spinto il governo di Parigi ad anticipare di un anno la data prevista per il ritiro del proprio contingente (2013).
Giovedì scorso, poi, per protestare contro il rogo del Corano, un soldato dell’esercito afgano ha ucciso due militari americani in una base dell’Afghanistan orientale prima di disperdersi nella folla dei manifestanti.
Azioni simili si sono moltiplicate negli ultimi tempi e rischiano di mettere a repentaglio la strategia USA per costruire una partnership con le forze armate e la polizia afgana in vista del disimpegno delle proprie truppe nel prossimo futuro.
Il deterioramento della situazione si inserisce nel pieno delle trattative tra l’amministrazione Obama e il governo Karzai per stabilire basi americane permanenti in Afghanistan dopo il presunto ritiro delle truppe di occupazione previsto per il 2014.
Il ritiro dipende in gran parte dall’esito del processo di pace che sta per essere avviato tra mille difficoltà con i Talebani. Proprio questi ultimi, subito dopo lo scoppio delle proteste martedì scorso hanno fatto appello a tutti i membri dell’esercito e della polizia del paese a prendere le armi contro le forze di occupazione.
Nel fine settimana migliaia di afgani sono così nuovamente scesi in piazza in tutto il paese lanciando slogan anti-americani. I manifestanti hanno cercato di fare irruzione negli edifici governativi e delle Nazioni Unite. Nella giornata di sabato sono stati uccisi cinque dimostranti, mentre moltissimi sono stati i feriti in seguito agli scontri con le forze di sicurezza.
Quattro morti per mano della polizia sono stati registrati solo nella provincia di Kunduz nel nord del paese dove la folla ha preso d’assalto il quartier generale dell’ONU. A est, invece, numerosi studenti diretti verso la residenza del governatore di Laghman sono stati fermati dal fuoco della polizia, causando una ventina di feriti. Un altro manifestante è rimasto ucciso poi nella provincia di Logar, a sud di Kabul, e scontri violenti sono stati segnalati nelle province di Sar-e-pol a nord e di Nangarhar al confine con il Pakistan.
A peggiorare la situazione, nel pieno delle proteste per le copie del Corano date alle fiamme, è stato infine un attacco sferrato mercoledì da un elicottero della NATO contro una scuola nella provincia orientale di Nangarhar, ferendo nove bambine, di cui cinque tuttora ricoverate in ospedale. Solo qualche giorno prima, inoltre, il comando NATO era stato costretto ad ammettere che un bombardamento avvenuto l’8 febbraio nella provincia nord-orientale di Kapisa aveva causato la morte di otto bambini.
Queste incursioni deliberate contro i civili sono un altro dei principali motivi della profonda avversione della popolazione afgana nei confronti degli occupanti stranieri e che è esplosa nuovamente settimana scorsa in maniera incontrollata.
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di Michele Paris
Due giorni fa, l’amministrazione Obama ha annunciato ufficialmente una proposta preliminare di riforma del codice fiscale americano, offrendo una riduzione dell’aliquota che grava sulle corporation dall’attuale 35% al 28%. Un ulteriore regalo alle grandi aziende quello del presidente, che dovrebbe essere finanziato dall’eliminazione delle numerose scappatoie legali che già consentono al business a stelle e strisce di ridurre considerevolmente il loro carico fiscale effettivo
A presentare pubblicamente il piano di riforma è stato il Segretario al Tesoro, Tim Geithner, il quale ha sostenuto che “le tasse sulle corporation negli Stati Uniti sono ormai vicine a diventare le più elevate di tutti i paesi ad economia avanzata”. In realtà, l’aliquota del 35% è puramente teorica, dal momento che, come hanno evidenziato svariati studi, essa nella sostanza risulta di gran lunga inferiore. Una ricerca dell’OCSE ha dimostrato come le grandi aziende USA paghino circa la metà delle tasse rispetto a quelle degli altri paesi avanzati.
Gli stessi dati del Dipartimento del Tesoro americano relativi al 2007 e al 2008 hanno rivelato che l’aliquota media è del 26%, con forti differenze a seconda del settore. Ad esempio, le società che forniscono servizi pubblici hanno pagato il 14%, quelle del settore estrattivo il 19% e dell’edilizia il 31%. Molte corporation, inoltre, hanno versato al fisco somme irrisorie o, addirittura, non hanno pagato un solo dollaro in tasse. Con ogni probabilità, queste discrepanze sono dovute in buona parte alla capacità di reclutare abili lobbisti, in grado di influenzare la politica di Washington per ottenere modifiche favorevoli del codice fiscale.
Quello che Obama prospetta come un piano di riforma per rendere più equo il fisco americano non è altro che una nuova manovra per ridurre le tasse delle corporation e aumentarle invece per le classi più povere, drenando così le risorse destinate alla spesa pubblica. Uno scenario che provocherà un ulteriore allargamento del divario tra i redditi più elevati e quelli più bassi in una società già polarizzata all’estremo.
Il sistema fiscale statunitense è infatti nettamente sbilanciato a favore dei grandi interessi economici e finanziari, i quali, grazie agli interventi legislativi messi in atto negli ultimi tre decenni da una classe politica totalmente al loro servizio, hanno beneficiato di un immenso trasferimento di ricchezza dai lavoratori e dalla classe media verso una ristretta élite al vertice della piramide sociale. Un’evoluzione che, oltre ad aver creato sempre maggiori disparità, ha contribuito in larga misura all’esplosione del deficit federale.
Il secondo punto del programma fiscale di Obama prevede poi la riduzione dell’aliquota per le aziende manifatturiere ad un massimo del 25%, anche se per quelle della “green economy” potrà essere ancora più bassa. Agevolazioni simili fanno parte della strategia dell’amministrazione democratica per tornare a creare posti di lavoro “ben retribuiti” sul territorio americano.
Le politiche industriali della Casa Bianca, come confermano i casi di General Motors e Chrysler, hanno tuttavia garantito finora la salvaguardia dei profitti delle aziende grazie alla creazione di una manodopera a basso costo e spogliata dei diritti conquistati in decenni di lotte sindacali.
Tra le altre proposte snocciolate dal presidente c’è anche un’imposta minima sui profitti delle corporation ottenuti all’estero, spesso depositati nei paradisi fiscali per evitare la mano del fisco USA, così come la semplificazione e la riduzione delle tasse per le piccole aziende.
Il piano di Obama, se implementato interamente, non dovrebbe aggiungere un solo dollaro al deficit federale, bensì dovrebbe aumentare le entrate fiscali, secondo quanto ha scritto il Financial Times, di 250 miliardi di dollari in dieci anni.
Questa cifra appare peraltro di scarsa rilevanza, visto che corrisponde a poco meno di quanto il governo americano prevede di incassare dalle tasse pagate dalle corporation nel solo anno fiscale in corso e che si chiuderà il 30 settembre prossimo.
L’intera riforma ha in ogni caso ben poche possibilità di essere approvata al Congresso, tanto che lo stesso New York Times ha definito la presentazione organizzata mercoledì come un evento elettorale a beneficio del presidente.
Soprattutto, la discussione sulla soppressione dei cosiddetti “loopholes”, che permettono alle corporation di aggirare le norme fiscali per pagare meno tasse, scatenerà la solita frenetica attività dei lobbisti nel tentativo di salvare i privilegi riservati ai loro clienti.
Buone prospettive si prevedono al contrario per la riduzione dell’aliquota che pesa sulle grandi aziende, vista positivamente anche dai repubblicani. Un qualche compromesso su questo fronte potrebbe essere raggiunto, probabilmente anche su un’aliquota più bassa del 28% voluto da Obama. Tutti i candidati alla Casa Bianca del Partito Repubblicano propongono infatti nei rispettivi programmi elettorali tagli alle tasse più consistenti per le corporation (Romney 25%, Santorum 17,5%, Paul 15%, Gingrich 12,5%).
Nulla, come previsto, viene infine proposto per ridurre il carico fiscale di classe media e lavoratori colpiti dalla crisi. Obama ha in realtà da tempo proposto un generico aumento delle tasse per i redditi superiori ai 200 mila dollari per i single e ai 250 mila per le famiglie, ma anche in questo caso con ben poche prospettive di superare l’esame del Congresso. Anzi, tra le “scappatoie” legali che potrebbero essere abolite sembra essere stata individuata la deduzione degli interessi sui mutui, uno dei pochi benefici fiscali di cui godono milioni di famiglie americane.
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di Carlo Musilli
Dopo settimane di piroette e 15 ore di Eurogruppo, i signori di Bruxelles hanno finalmente deciso di salvare la Grecia, credendo così di mettere al sicuro se stessi. In realtà, è improprio perfino parlare di salvataggio. Quello garantito ad Atene è un gigantesco bis del maxiprestito da 110 miliardi scucito nel 2010, e rischia seriamente di fare la stessa fine, perché non scaccia in via definitiva gli spettri della bancarotta. L'unica vera certezza è che si guadagna del tempo: se e quando la prospettiva del defau
t si ripresenterà, la speranza è di aver ridotto al minimo il cosiddetto "rischio contagio" alle altre economie europee, disinnescando il potenziale effetto domino che minaccia il sistema finanziario del continente.
Cosa succederebbe davvero se la Grecia fosse risucchiata nel vortice di un fallimento incontrollato - fra Cds da pagare e titoli di Stato da bruciare - nessuno sa dirlo di preciso. Ma a quel punto non sarebbe sufficiente rabberciare una soluzione nelle stanze di Bruxelles, anche perché probabilmente nessuno sarebbe in grado.
Rispetto a due anni fa, però, c'è almeno una differenza sostanziale. La Grecia non viene più trattata come uno Stato sovrano, ma come una gigantesca azienda da ristrutturare. In quest'ottica, quando si apre generosamente il portafogli, diventa legittimo pretendere dalla controparte il massimo possibile delle garanzie e della sottomissione. Sul terreno della politica, però, questo si traduce in un commissariamento da record, di gran lunga il più vasto e il più rigido della storia d'Europa.
Nel dettaglio, ad Atene arriveranno fondi per 230 miliardi complessivi: 130 sotto forma di prestito (frazionato da qui al 2014) e altri 100 dal taglio del 53,5% sul valore nominale dei titoli di Stato in tasca alle banche private. A due norme equivalgono due trucchi. In primo luogo, la Bce ha trovato il modo di dribblare le norme che le impediscono di fornire aiuti diretti ai singoli paesi. Le basterà distribuire i guadagni sui titoli greci in suo possesso alle Banche centrali nazionali, che a loro volta li gireranno agli Stati e di qui, come previsto, torneranno in Grecia.
Per quanto riguarda il taglio sui bond già in pancia alle banche private, invece, la svalutazione è presentata come un'operazione "volontaria" da parte dei creditori, in modo da non far scattare i rimborsi sui credit default swaps (derivati che funzionano come polizze assicurative sulle obbligazioni, con un premio da pagare in caso di default). E' evidente a chiunque come di "volontario" non ci sia assolutamente nulla: se le banche non avessero accettato di perdere una parte dei soldi investiti in Grecia, li avrebbero persi tutti. La scelta non era difficile.
Tutto questo consentirà al Paese ellenico di non dichiarare bancarotta il prossimo 20 marzo, quando arriveranno a scadenza bond per 14,5 miliardi. Resta invece da dimostrare (le variabili sono troppe) che questo piano, unito all'austerity draconiana, sia davvero in grado ridurre il debito dal 170% al 120,5% entro il 2020. In ogni caso, tanta generosità dell'Europa non è certo gratuita.
Oltre alle misure da film dell'orrore che nei prossimi anni affameranno diverse migliaia di greci, Atene è stata costretta ad accettare altre tre novità: invece di andare e venire ogni tre mesi, i commissari della troika (Ue, Bce e Fmi) rimarranno in modo permanente sul suolo ellenico, per controllare che il piano di risanamento venga portato avanti come d'accordo; sarà creato un fondo bloccato su cui i greci dovranno versare d'ora in poi i soldi per coprire gli interessi sul debito pubblico; nella Costituzione sarà inserita una norma sulla priorità dei pagamenti delle scadenze del debito. Manca solo la frase di rito: "Faccia a terra, mani dietro la schiena".
Insomma, dei greci non si fida nessuno e la paura che le carte in tavola possano cambiare dopo le elezioni anticipate di aprile è molto forte. Non c'è dubbio che ad Atene si siano meritati tutta la diffidenza possibile. Sono stati loro a truccare i bilanci presentati per entrare nell'euro. Ma è anche vero che qualcuno avrebbe potuto controllarli, quei bilanci.
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di Michele Paris
Da alcuni giorni, una serie di violenti scontri sta segnando la vigilia delle elezioni presidenziali in Senegal, previste per domenica 26 febbraio. Le manifestazioni di piazza sono state organizzate dalle opposizioni ufficiali e da alcuni gruppi della società civile per protestare contro la candidatura dell’anziano presidente in carica, Abdoulaye Wade, il quale nonostante i limiti imposti dalla costituzione si appresta a correre per un terzo mandato alla guida del paese africano.
L’85enne presidente senegalese, al potere dal 2000, già lo scorso settembre aveva annunciato l’intenzione di correre per un terzo incarico, anche se nel 2007 aveva promesso pubblicamente che avrebbe dato l’addio alla politica attiva nel 2012.
Il suo ritiro dalle scene avrebbe permesso di evitare una disputa attorno al dettato costituzionale che regola il numero di mandati del presidente. Secondo Wade, infatti, il limite di due mandati previsto dalla costituzione non si applica al suo caso, poiché è stato introdotto dopo l’inizio della sua presidenza, nel 2000.
A stabilire che il limite dei due mandati non è retroattivo è stata infine la Corte Costituzionale del Senegal che lo scorso 27 gennaio ha dato così il via libera alla candidatura di Wade. Lo stesso tribunale, composto in maggioranza da fedelissimi del presidente, a gennaio aveva anche escluso dalle presidenziali il cantante di fama internazionale Youssou N’Dour, sostenendo che decine di migliaia di firme raccolte per la sua candidatura risultavano illeggibili.
La sentenza favorevole a Wade ha suscitato le immediate proteste delle opposizioni ma gli scontri di piazza con la polizia hanno iniziato ad assumere proporzioni preoccupanti solo la scorsa settimana. Il centro della capitale, Dakar, è stato occupato da migliaia di manifestanti, accolti dalle forze di sicurezza che hanno cercato in tutti i modi di impedire lo svolgimento di marce di protesta contro il presidente.
Anche i tre principali sfidanti di Wade - l’ex ministro degli Esteri, Ibrahim Fall, il deputato del Fronte per il Socialismo e la Democrazia, Cheikh Abiboulaye “Bamba” Dièye, e l’ex primo ministro nonché già protetto del presidente, Idrissa Seck - sono stati tra le vittime dei maltrattamenti riservati dalla polizia ai dimostranti.
Scontri di una certa intensità sono stati segnalati anche in altre località del paese, in particolare nella città di Kaolack, a sud-est di Dakar, dove un giovane manifestante ha perso la vita. Complessivamente, fino ad ora in tutto il Senegal si contano almeno sei morti tra gli oppositori di Wade.
Le tensioni sono poi salite alle stelle venerdì scorso, quando la polizia ha lanciato dei gas lacrimogeni all’interno di una moschea di Dakar nel tentativo di fare uscire un gruppo di manifestanti che vi avevano trovato rifugio. Questa mossa ha provocato una rivolta tra i fedeli che si stavano preparando alla preghiera, i quali hanno a loro volta deciso di scendere nelle strade in segno di protesta.
Alcuni leader dell’opposizione lunedì hanno chiesto alla comunità internazionale di intervenire per fare pressioni su Wade e fermare la repressione. Per il presidente, al contrario, i suoi avversari politici avrebbero reclutato mercenari per destabilizzare il paese. L’Unione Africana, attualmente presieduta dal presidente del Benin, Yayi Boni, ha fatto appello a entrambe le parti a porre fine alle violenze.
La stessa Unione Africana, in concerto con la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), ha inoltre inviato in Senegal una delegazione guidata dall’ex presidente nigeriano, Olusegun Obasanjo, per tentare una mediazione. Le opposizioni - formate dai partiti ufficiali e dalle organizzazioni Movimento 23 Giugno (M23) e Y’en a marre (“Ne abbiamo abbastanza”), un movimento di protesta fondato da alcuni rapper senegalesi - non sembrano però intenzionate a fare passi indietro, tanto che hanno già annunciato nuove manifestazioni prima del voto di domenica prossima.
A lungo all’opposizione, Abdoulaye Wade era stato eletto per la prima volta alla presidenza del Senegal nel 2000 dopo quattro sconfitte a partire dal 1978. Una volta al potere, Wade ha presieduto a svariate modifiche costituzionali, spesso caotiche. Nel febbraio del 2007 ha conquistato un secondo mandato in un voto, secondo le opposizioni, macchiato da diffuse irregolarità.
Per protesta, gli stessi partiti dell’opposizione decisero di boicottare le elezioni parlamentari del giugno successivo, permettendo così a Wade e al suo Partito Democratico del Senegal (PDS) di ottenere il controllo pressoché assoluto della legislatura e di nominare a piacimento i giudici della Corte Costituzionale.
Nel giugno del 2011, Wade ha tentato un nuovo colpo di mano, cercando di abolire il secondo turno delle elezioni presidenziali nel caso un candidato avesse raggiunto il 25% dei consensi, invece del 50%. La mossa, fallita a causa delle proteste di piazza che seguirono, era dettata da un evidente calo dei consensi nei confronti del presidente che vedeva il rischio concreto di essere battuto da un eventuale candidato unitario dell’opposizione.
Wade, in ogni caso, è rimasto fermo nel suo intento di cercare un terzo mandato anche di fronte alle pressioni esercitate dai due principali sponsor del Senegal, gli Stati Uniti e la Francia, i cui governi hanno chiesto apertamente al presidente di farsi da parte nel timore di un diffondersi incontrollato delle proteste di piazza.
Come già avvenuto in occasione della primavera araba in Tunisia, Egitto e Yemen, gli USA e l’Occidente hanno cercato di scaricare un leader dalle tendenze autoritarie che ha però servito diligentemente i loro interessi per anni. Seguendo un percorso già battuto da autocrati come Ben Ali, Mubarak o Saleh, nell’ultimo decennio anche Wade in Senegal ha portato avanti parallelamente il consolidamento del suo potere e l’apertura del paese al capitale straniero.
Proprio le conseguenze delle “riforme” in senso liberista perseguite da Wade sono la causa principale dell’esplosione delle proteste popolari esplose in Senegal.
Tuttavia, come ha evidenziato il ricercatore canadese esperto in questioni africane, Toby Leon Moorsom, in un articolo apparso lunedì sul sito web di Al Jazeera, i partiti dell’opposizione e le organizzazioni della società civile che hanno promosso le proteste di questi giorni non sembrano intenzionati a introdurre le questioni economiche nel dibattito politico senegalese.
Un simile atteggiamento mostra perciò tutti i limiti di questi movimenti, sia per quanto riguarda la loro capacità di rimuovere Wade dal potere sia per offrire una reale prospettiva di cambiamento alla maggioranza della popolazione senegalese.
Per Moorsom, se pure le manifestazioni hanno sorprendentemente raccolto un seguito significativo in molte città, l’opposizione nel suo complesso risulta lontana dai bisogni e dalle aspirazioni delle classi più disagiate del paese.
Pur essendo l’unico paese dell’Africa occidentale a non aver conosciuto un colpo di stato militare dopo l’indipendenza, ottenuta dalla Francia nel 1960, il Senegal si distingue come i suoi vicini per le precarie condizioni in cui è costretta a vivere buona parte dei suoi abitanti. Il livello di disoccupazione sfiora il 50%, mentre a fronte di una ristretta élite che ha beneficiato delle “riforme” economiche implementate in questi anni, rimangono enormi sacche di povertà, del tutto escluse da qualsiasi prospettiva di miglioramento.