di Liliana Adamo

Sulla scia di quel nuovo socialismo di stampo americano tanto propagandato nei primi anni della presidenza Obama, la proposta di legge voluta dal City Council di New York, poteva considerarsi un segno poco trascurabile di “giustizia sociale” per una parte della working class, o invece, come sostengono i puri e crudi del liberismo, ennesimo ricorso allo statalismo occupazionale che aggrava i costi, per l'appunto quando le crisi alzano il numero dei disoccupati?

La legge intendeva imporre un tetto minimo salariale per quei lavoratori impiegati in progetti di grandi dimensioni, creati da sovvenzioni pubbliche (dal milione di dollari in su, per intenderci), con un limite di 11,50 dollari l’ora (appena 4 d’aumento rispetto al precedente), più 10 di benefici sul piano contributivo.

Ma, se il diavolo si nasconde nei dettagli, ecco che il plurimilionario sindaco newyorkese, Michael Bloomberg, è intervenuto drasticamente (col potere di veto), a stralciare questo pezzo di legislazione, minacciando addirittura di ricorrere ai tribunali qualora il presunto “salario di sussistenza” fosse stato convertito in norma federale.

La polemica sembra aver liquidato le attese elettorali concentrate sul “re di New York”, con  le attenzioni repubblicane (Romney in testa a tessergli le lodi) e le “avances” del presidente Obama. Viceversa, la situazione si è ribaltata all’indomani del suo no al salario minimo e Bloomberg, da leadership empatico per l’opinion poll, si è presto trasformato in “Sindaco Faraone”, giusto per citare l’appellativo più moderato da parte dei newyorkesi.

Di per sé, la mozione del City Council non minacciava impennate radicali, nulla di così “soviet”, dal momento in cui si era provveduto ad “annacquarla” come si deve, una volta portata sulla scrivania del “Faraone”. Secondo il quotidiano The Guardian, la stessa legge avrebbe riguardato un numero esiguo di lavoratori americani, mentre Bloomberg ha inveito per il danno certo alla creazione di nuovi posti di lavoro.

In tutta questa diatriba si sono formate due opposte fazioni (o correnti di pensiero, come si vogliano chiamare). L’una incentrata sull’opportunità d’applicare pesantemente alle leggi sul lavoro, il “tecnicismo del libero mercato” (nell’idea di sanare una crisi originata da tutt’altro che l’economia reale); l’altra, più semplicemente, fa i conti in tasca al sindaco plurimilionario e al suo entourage di “starnazzanti” imprenditori.

Bloomberg è fra i venti uomini più ricchi al mondo, il suo patrimonio conta, fra l’altro, un’intera stazione sciistica nel Colorado, grandi possedimenti terrieri, svariate proprietà immobiliari alle Bermuda, a Londra e nella stessa New York City.

Eppure, è stato pronto a porre il veto su un tetto di 11,50 dollari l’ora a garanzia di una “sussistenza” per la classe operaia della sua città, già provata da una crisi economica senza precedenti, da un lungo periodo di ristrettezze e inoccupazione. Un aumento di salario che sarebbe stato concesso solo nel caso di aziende finanziate da cospicui fondi pubblici.

Membro indiscusso di quell’elite finanziaria che ha portato al tracollo l’economia di mezzo mondo, anche Bloomberg si appassiona al tema della nuova “lotta di classe”, mettendo in mostra lacrime d’ipocrisia sui mancati posti di lavoro per la classe media americana.

 

 

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