di Michele Paris 

Come logica conclusione del clima di crescente diffidenza delle ultime settimane, il terzo vertice dell’anno sul nucleare iraniano si è chiuso senza nemmeno l’ombra di un accordo tra Teheran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania). A testimonianza del punto morto raggiunto dai negoziati andati in scena questa settimana a Mosca, i partecipanti al summit non sono riusciti a fissare neanche un nuovo incontro per proseguire i colloqui, un obiettivo minimo che aveva rappresentato l’unico relativo successo del precedente incontro di Baghdad nel mese di maggio.

I rappresentanti delle due parti dovrebbero ora vedersi il 3 luglio prossimo a Istanbul per verificare se sussistano le condizioni per un nuovo vertice ad alto livello, da tenersi questa volta, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Fars, a Pechino o ad Astana, la capitale del Kazakistan. La decisione di mantenere aperto un minimo canale di comunicazione sembra essere stata presa solo dopo un faccia a faccia tra la Russia e l’Iran nella giornata di martedì.

La stessa data stabilita, tuttavia, indica il sostanziale fallimento della due giorni nella capitale russa e la volontà dell’Occidente di non fare alcuna concessione, dal momento che al 3 luglio saranno già entrate in vigore le nuove sanzioni da tempo approvate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Il 28 giugno, infatti, scatteranno le sanzioni USA contro quelle compagnie che faranno affari con la Banca Centrale iraniana, mentre il primo luglio toccherà all’embargo petrolifero europeo.

Come già fatto a Istanbul ad aprile e a Baghdad un mese più tardi, l’Iran ha confermato anche a Mosca le aperture su una delle richieste cruciali dei P5+1, cioè lo stop all’arricchimento dell’uranio ad un livello del 20%. Come aveva ricordato lunedì il presidente Ahmadinejad, appunto, “fin dall’inizio la Repubblica Islamica ha affermato che non arricchirà l’uranio al 20% se i paesi le europei forniranno combustibile a questo livello”. Un diplomatico occidentale citato dalla stampa ha poi anch’egli ribadito la disponibilità degli iraniani, definendoli “molto più aperti a discutere dell’arricchimento al 20% in modo dettagliato e franco rispetto alle precedenti occasioni”.

Le aperture di Teheran in questo ambito, in ogni caso, comportano com’è ovvio la necessità di ricevere segnali concreti da parte dei P5+1, a cominciare dal riconoscimento del diritto, sancito dal Trattato di Non Proliferazione, di arricchire l’uranio per scopi pacifici, dall’allentamento delle sanzioni economiche già in vigore e dalla cancellazione di quelle che scatteranno a breve.

Gli USA, che dettano in gran parte la linea di condotta dei P5+1, si sono però nuovamente rifiutati di andare al di là di modestissime contropartite, come la ripresa delle forniture di pezzi di ricambio per aerei civili, e di vaghe promesse di alleggerire progressivamente le sanzioni nel prossimo futuro.

Secondo le testimonianze di alcuni negoziatori presenti a Mosca, l’unico segnale positivo del meeting sarebbe stata la risposta ufficiale che gli iraniani hanno fornito alle proposte presentate dai P5+1 a Baghdad. Un riscontro dettagliato, anche se inevitabilmente negativo, quello fornito da parte di Teheran che rappresenta una assoluta novità nei negoziati sul nucleare e che, se possibile, conferma ulteriormente l’insuccesso pressoché totale dell’incontro.

Le proposte dei P5+1 presentate nella capitale irachena includevano, oltre alla sospensione delle attività di arricchimento, l’invio all’estero del combustibile già arricchito al 20% e lo smantellamento dell’impianto nucleare sotterraneo di Fordow, così da facilitare un eventuale attacco militare di USA o Israele. L’offerta così formulata e senza contropartite significative intendeva peraltro suscitare precisamente un rifiuto da Teheran, in modo da aumentare ancora di più le pressioni sul governo iraniano.

In sostanza, il dato principale emerso dal vertice di Mosca sembra essere stata soltanto la volontà di discutere delle questioni più delicate senza pregiudiziali. A confermarlo è stato lo stesso capo dei negoziatori iraniani, Saeed Jalili, il quale ha definito i negoziati “più seri, realistici e ben al di là di una semplice esposizione di punti vista e posizioni”. Jalili ha anche ribadito l’ipotesi che il suo paese potrebbe considerare l’invio all’estero dell’uranio già arricchito in Iran in vista di un futuro accordo. Ciononostante, Jalili ha ripetuto chiaramente che il diritto all’arricchimento non è negoziabile e che le sanzioni che colpiscono il settore petrolifero iraniano rischiano di far saltare le trattative in corso.

Il sostanziale stallo è testimoniato anche dalle dichiarazioni finali rilasciate a Mosca da Jalili e dalla responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton. Per entrambi, infatti, dopo tre incontri tocca ora alla rispettiva controparte fare la prossima mossa e prendere le necessarie decisioni per consentire ai negoziati di continuare. Nella serata di martedì, la Ashton ha ammesso poi che “le due posizioni rimangono distanti” nella sostanza dei temi trattati.

Un altro punto controverso è inoltre la natura stessa dei negoziati, se essi debbano cioè includere pure questioni tecniche, come desiderano i P5+1, o essere allargati a più ampie questioni politiche e di sicurezza regionale, come chiede Teheran. La chiusura anche a queste richieste iraniane rafforza la sensazione di una totale mancanza di disponibilità da parte delle potenze impegnate nel dialogo ad avviare con la Repubblica Islamica un confronto serio che riconosca il legittimo ruolo di quest’ultima in Medio Oriente e in Asia centrale.

L’atteggiamento che prevale, al contrario, è quello della linea dura di Washington e di Israele che intende utilizzare i negoziati come quello appena terminato a Mosca per imporre condizioni inaccettabili e mettere all’angolo l’Iran senza offrire nulla in cambio. Una condotta che rivela come da parte occidentale, nonostante i proclami ufficiali, non ci sia alcun desiderio di giungere ad un accordo ma piuttosto di continuare a sfruttare la questione del nucleare per isolare progressivamente Teheran e giungere alla rimozione di un regime sgradito.

La stampa internazionale già da mercoledì ha perciò offerto ampia eco alle posizioni degli Stati Uniti e dei loro alleati, i quali continuano ad affermare che senza progressi durante i negoziati dovranno per forza di cose essere adottate altre sanzioni per piegare l’Iran e, alla luce delle prospettive sempre più cupe sul fronte diplomatico, risulterà sempre più difficile convincere Israele ad astenersi da un’aggressione militare per fermare la fantomatica minaccia del nucleare iraniano.

Della disponibilità USA e di Israele al dialogo con l’Iran, però, ne ha offerto testimonianza un articolo pubblicato martedì dal Washington Post, nel quale anonimi funzionari del governo americano confermano come Washington e Tel Aviv abbiano sviluppato congiuntamente il più recente virus che ha colpito il sistema informativo iraniano.

Denominato “Flame”, il nuovo e distruttivo malware è il successore di “Stuxnet”, che fece seri danni alle centrifughe iraniane qualche anno fa, e servirebbe a raccogliere le necessarie informazioni per avviare un vero e proprio cyber-sabotaggio del programma nucleare della Repubblica Islamica, del quale non esiste una sola prova che sia diretto a scopi militari.

Come se non bastasse, il Wall Street Journal ha dato notizia di un’audizione tenuta mercoledì alla commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti americana per discutere delle opzioni militari da impiegare contro l’Iran. Dopo il nulla di fatto di Mosca, infine, il Congresso di Washington sembra già pronto a discutere ulteriori sanzioni che prendano di mira la già indebolita economia iraniana.

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