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di Michele Paris
In occasione del primo anniversario dello scoppio della rivolta, in questi giorni migliaia di manifestanti sono nuovamente scesi nelle piazze del Bahrain per protestare contro la repressione spietata messa in atto dalla monarchia alleata degli Stati Uniti. I dimostranti, accolti ancora una volta con il pugno di ferro delle forze di sicurezza, continuano a chiedere la democratizzazione del regime sunnita, al cui vertice siede il sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa, e la fine delle discriminazioni contro la maggioranza sciita che rappresenta circa i due terzi della popolazione del Bahrain.
Nella giornata di lunedì sono stati registrati i primi duri scontri con la polizia dopo che gruppi di manifestanti nella capitale, Manama, avevano deciso di uscire dal percorso previsto per una dimostrazione approvata dal regime e organizzata dall’opposizione ufficiale, guidata dal partito sciita Al Wefaq. Immediatamente, sono seguite cariche delle forze di sicurezza, le quali hanno sparato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la folla, mentre sono stati messi sotto assedio molti quartieri e villaggi sciiti in tutto il paese.
Il giorno successivo, a un anno esatto dall’inizio della sollevazione, la repressione si è ulteriormente intensificata. Le strade di Manama sono state occupate da veicoli blindati, poliziotti e militari, ben decisi a impedire l’accesso dei manifestanti al Pearl Roundabout (Rotonda delle Perle), il luogo simbolo della rivolta dove lo scorso anno il regime fece abbattere un monumento rappresentante una gigantesca perla come gesto di sfida verso gli oppositori.
Le operazioni nelle strade si sono accompagnate a detenzioni preventive e irruzioni armate nelle abitazioni di numerosi critici della monarchia. Due attivisti statunitensi, inoltre, sono stati arrestati e prontamente rimpatriati. L’ONG Bahrain Center for Human Rights ha documentato un centinaio di arresti tra i manifestanti solo negli ultimi giorni, così come svariate ferite causate da armi da fuoco.
Nonostante una nuova preoccupante escalation in questi giorni, la repressione del dissenso in Bahrain prosegue senza soste, e nel pressoché totale silenzio dei media occidentali, da ormai quasi un anno. Dopo un mese di proteste ispirate ai fatti di Tunisia ed Egitto, alle quali aveva partecipato un numero enorme di partecipanti in proporzione alle ridotte dimensioni del paese, il regime della famiglia Khalifa a Marzo decise di soffocare nel sangue la rivolta con il contributo decisivo di truppe provenienti dalla vicina Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dal Kuwait.
L’intervento di militari stranieri per reprimere il movimento popolare che chiedeva riforme democratiche era stato con ogni probabilità appoggiato dagli Stati Uniti. Per Washington, il Bahrain è un alleato strategico fondamentale, anche perché ospita il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico, nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.
Questo stesso intervento, anzi, pare fosse stato concordato direttamente da Washington con l’Arabia Saudita, in cambio dell’impegno da parte di Riyadh di giungere ad un voto favorevole all’intervento NATO in Libia presso la Lega Araba.
Anche per l’Arabia Saudita, d’altra parte, la stabilità del vicino Bahrain sotto il controllo dell’attuale monarchia assoluta è di importanza vitale. Lo sconvolgimento degli equilibri in questo paese comporterebbe infatti una pericolosa espansione dell’influenza iraniana nella regione e, inevitabilmente, il contagio della rivolta alle già inquiete province saudite a maggioranza sciita che ospitano la gran parte delle risorse petrolifere del regno.
Negli scontri seguiti all’esplosione della rabbia popolare in Bahrain, in ogni caso, sono stati uccisi almeno 60 manifestanti, un numero considerevole per un paese che conta poco più di 1,2 milioni di abitanti, di cui oltre la metà stranieri. La repressione del regime si è concretizzata anche in arresti di massa, sparizioni, torture, licenziamenti indiscriminati per coloro che avevano partecipato alle proteste, chiusura dei pochi media indipendenti del paese, processi e pesanti condanne per giornalisti e dissidenti. Uno dei casi che più hanno scosso l’opinione pubblica internazionale è stato il processo davanti ad un tribunale militare di una cinquantina di medici e operatori sanitari, accusati di aver cospirato contro la monarchia solo perché avevano prestato soccorso ai manifestanti feriti dalle forze di sicurezza.
Oltre ad una serie di provvedimenti di facciata, il sovrano del Bahrain già lo scorso mese di giugno aveva creato una speciale commissione d’inchiesta, presieduta dal giurista egiziano esperto di crimini di guerra, Mahmoud Cherif Bassiouni, fondamentalmente con l’obiettivo di occultare le responsabilità e i crimini del regime nella repressione della rivolta. Anche se il rapporto finale della commissione aveva riscontrato violenze ed abusi vari, questi ultimi erano stati considerati episodi isolati, mentre piena fiducia venne assegnata alla road map del regime per pacificare il paese.
La famiglia Khalifa ha potuto procedere al soffocamento delle proteste in Bahrain principalmente grazie al sostegno degli alleati arabi e dell’Occidente, da dove le condanne della repressione, quando sono arrivate, sono risultate essere blande e generiche, nonché seguite subito dall’appoggio a quello che è stato propagandato come un piano di riforme da parte del regime.
Gli Stati Uniti e i loro alleati, in realtà, non solo hanno approvato la dura risposta della casa regnante alle richieste di democrazia dei propri sudditi, ma hanno anche fornito supporto materiale alla repressione stessa. Secondo quanto riportato da Amnesty International, ad esempio, il governo britannico ha recentemente autorizzato la vendita al Bahrain di gas lacrimogeni e altri equipaggiamenti da utilizzare contro le proteste di piazza. In precedenza, nell’estate dello scorso anno, Londra aveva anche dato il via libera alla vendita di armi al regime per un valore di due milioni di dollari.
Ancora più coinvolti sono poi gli USA, da dove a partire dal 2000 sono partite forniture di armamenti destinati al Bahrain per 1,4 miliardi di dollari. Attualmente fermo al Congresso è poi un nuovo contratto di vendita di 53 milioni di dollari che ha incontrato le proteste di parecchie organizzazioni per i diritti civili.
Come se non bastasse, un cittadino inglese, l’ex poliziotto di Scotland Yard, John Yates, è stato assunto dal regime per istruire le forze di sicurezza sui metodi di repressione dei disordini. Secondo quanto riportato dal network russo RT, infine, un altro consulente della polizia del regno risulterebbe essere un cittadino americano già a capo della polizia di Philadelphia.
La doppiezza dell’atteggiamento occidentale nei confronti della Primavera Araba è stata dunque smascherata in maniera evidente proprio con le vicende del Bahrain. L’eventuale appoggio di Washington e dei governi europei alle rivolte popolari scoppiate in questi mesi non dipende infatti da un improbabile scrupolo di natura democratica, bensì esclusivamente dalla necessità di preservare i propri interessi strategici.
A conferma di ciò, vi è ad esempio l’allerta emesso lunedì dal governo inglese per mettere in guardia da possibili minacce terroristiche in Bahrain. La presa di posizione di Londra sposa la tesi del regime che, dopo aver accusato senza alcuna prova Teheran di alimentare la rivolta nel paese, ha attribuito gli scontri di questi giorni all’opera di terroristi ed estremisti. È superfluo ricordare che quest’ultima tesi è sostenuta, con più di una ragione, anche da Bashar al-Assad per spiegare i disordini in corso in Siria, ma è ovviamente del tutto respinta dall’Occidente.
Mentre regimi sgraditi come quello siriano, e ancor prima quello di Gheddafi in Libia, sono il bersaglio di un’incessante propaganda o di aggressioni militari per provocarne la caduta, altri vengono invece premiati per la fedeltà agli interessi dei loro sponsor, indifferentemente dalla loro natura sanguinaria e anti-democratica.
Nel caso del Bahrain, infatti, gli Stati Uniti in questi mesi hanno accolto a Washington con tutti gli onori del caso membri della famiglia reale, mentre proprio la settimana scorsa l’assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente, Jeffrey Feltman, è stato ospite della famiglia Khalifa a Manama. Oltretutto, mentre è in corso una durissima repressione contro il dissenso interno, il Bahrain, in quanto membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo assieme alle altre dittature della regione, sta giocando anche un ruolo fondamentale nella Lega Araba per aprire la strada ad un intervento militare che favorisca il cambio di regime in Siria. Il tutto, come sempre, per ragioni rigorosamente umanitarie.
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di Carlo Musilli
Le riforme assassine varate domenica notte dal Parlamento greco non bastano più. Atene deve piangere ancora. Una serie di colpi scena nelle ultime 48 ore lascia intuire quali siano i nuovi progetti dell'Europa per la Grecia. Sui palcoscenici di Bruxelles e dei mercati finanziari vanno in onda le prove generali della bancarotta. La prima svolta è arrivata martedì sera, quando a borse chiuse il presidente dell'Eurogruppo, Jean Claude Junker, ha annunciato il declassamento a semplice "teleconferenza" della riunione in agenda ieri.
Doveva essere un vertice interamente dedicato ad Atene, che attendeva dai ministri Ue il via libera alla seconda tranche di aiuti da 130 miliardi di euro. Un prestito fondamentale per ripagare i bond in scadenza il 20 marzo, scongiurando così il default, e che sarebbe dovuto arrivare come contropartita agli ultimi tagli draconiani. Invece niente.
"Non ho ricevuto dai leader dei partiti della coalizione al governo le assicurazioni politiche richieste sull'applicazione del piano - ha scritto Junker - c'è bisogno di altro lavoro. E' necessario trovare altri 325 milioni". Sembra che nelle stesse ore il Consiglio dei ministri greco abbia stabilito in extremis di racimolare quei soldi colpendo per l'ennesima volta le pensioni. Ma ormai era troppo tardi per convincere Bruxelles e, forse, non sarebbe bastato comunque. Se ne riparlerà alla prossima riunione ordinaria dell'Eurogruppo, il 20 febbraio.
Per rassicurare l'Europa sul fronte politico, ieri i leader dei due maggiori partiti ellenici, il socialista George Papandreou e il conservatore Antonis Samaras, hanno garantito il loro impegno a portare avanti il piano d'austerità anche dopo le elezioni anticipate di aprile. Purtroppo per loro non è sul campo delle rassicurazioni che si gioca la partita. Ci ha visto lungo il loro ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos, che ha avuto il coraggio di rivelare una verità scomodissima: "Diversi paesi europei non vogliono più la Grecia nell'euro".
In particolare, secondo il Financial Times, sarebbero Germania, Olanda e Finlandia a premere per l'uscita di Atene dall'Eurozona. E pare che i tedeschi siano i più agguerriti. Intanto, i funzionari di vari ministeri delle finanze europei stanno studiando un'alternativa per evitare - o ritardare - la soluzione più drastica. Si tratterebbe di spezzettare o addirittura di far slittare completamente il nuovo pacchetto di aiuti, sventando però il fallimento della Grecia a Marzo. Il rinvio potrebbe arrivare fino a dopo le elezioni, in modo da avere una bella pistola carica da puntare alla tempia del nuovo esecutivo.
Ma come mai adesso nelle alte sfere si parla con tanta disinvoltura de default greco? Fino a qualche settimana fa la sola ipotesi era presentata da tutti come una tragedia, la miccia che avrebbe potuto innescare un'apocalisse finanziaria globale. Ora non più. E la ragione è che negli ultimi mesi è diminuito il rischio di contagio alle altre economie. Il fattore decisivo in questo senso è stata la Bce di Mario Draghi, che ha garantito al sistema bancario prestiti illimitati e a bassissimo prezzo.
Inoltre, le banche europee hanno avuto il tempo di depurarsi da gran parte dei titoli di Stato greci che avevano in pancia. A questo punto, in caso d’insolvenza, potrebbero sopportare le perdite con molto meno affanno di prima. Non sono poi da sottovalutare i cambiamenti di rotta di Italia e Spagna: entrambi i paesi hanno un nuovo governo che si è dimostrato in grado di fare i compiti a casa assegnati dall'Europa.
Tutto questo scenario sembra essere stato assorbito mercati finanziari. A parte qualche estemporanea tensione sugli spread, ormai da tempo le vicende greche hanno smesso di causare crolli particolarmente drammatici delle borse europee. E i titoli del comparto bancario, che ultimamente hanno vita abbastanza tranquilla a Piazza Affari, sono il miglior termometro di questa situazione.
Lo scenario più probabile è che la Grecia continui a camminare sul filo ancora per qualche mese. Alla fine però la bancarotta sarà l'unica strada praticabile. A dirlo non sono più soltanto schiere di economisti, ma anche uomini politici. Hanno capito che l'austerità non farà il miracolo e allo stesso tempo sanno benissimo che l'Europa non può sostenere il debito greco ancora per anni. Stanno allestendo la scena per l'ultimo atto, ma il sipario calerà solo quando crederanno di essere tutti più o meno al sicuro. Tutti tranne i greci.
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di Carlo Musilli
La chiamano austerity, ma quello che l'Europa sta imponendo alla Grecia è ben altro: una mattanza sociale, un colpo di grazia definitivo alla vita di milioni di persone. Con 199 voti favorevoli e 74 contrari il Parlamento di Atene ha approvato domenica notte le nuove misure reclamate dalla troika (Ue, Fmi e Bce) per sbloccare la nuova tranche di aiuti al Paese ellenico.
Il via libera al prestito da 130 miliardi di euro dovrebbe arrivare dall'Eurogruppo di domani, consentendo alla Grecia di ripagare i bond in scadenza e salvarsi dal fallimento. Atene prenderà in prestito 35 miliardi di euro dal fondo salva-stati Efsf per finanziare il piano, in cui è previsto anche che entro l'anno arrivino 4,5 miliardi di euro dalle privatizzazioni (in primis delle quote pubbliche in petrolio, gas, acqua e lotteria) e risparmi vari.
E il resto dei soldi? Facile, lo ricaveranno massacrando i greci. In particolare, il nuovo pacchetto prevede di vaporizzare il mercato del lavoro (in questo caso l'eufemismo è "deregulation"), cancellando di fatto la contrattazione collettiva. Poi giù col machete: taglio di oltre il 20% del salario minimo garantito, taglio delle pensioni, taglio alle spese in settori come la sanità e le autonomie locali.
A leggere le nuove richieste internazionali, sembrerebbe che negli ultimi tempi la Grecia abbia continuato a vivere nel lusso. Invece quello di oggi è solo l'ultimo sorso di una medicina che le viene somministrata ormai da tre anni. Ma fin qui l'austerity non ha avuto effetti benefici, tutt'altro: i disoccupati hanno di recente superato il milione (oltre il 20% della popolazione), mentre il reddito è calato del 12%. Tutto questo per scongiurare il default incontrollato, l'incubo peggiore di mezza Europa, preoccupata anche dalle elezioni anticipate annunciate ieri. I greci torneranno alle urne già ad aprile, e a Bruxelles temono che il nuovo cambio di governo possa comportare una pericolosa marcia indietro.
In effetti, quello che accadrebbe se Atene fosse costretta a dichiarare ufficialmente bancarotta non è chiarissimo. I rapporti finanziari sono troppo complessi e ingarbugliati per poter ricostruire il quadro nel dettaglio, ma l'effetto sistemico pare inevitabile. Certo, non sarebbe la fine del mondo (perfino la Commissaria europea Neelie Kroes ha detto che "l'eurozona potrebbe sopravvivere all’uscita della Grecia").
Nel lungo termine la moneta unica potrebbe anche uscire rafforzata dall'abbandono della disgraziata Grecia, ma sul breve periodo si scatenerebbe la corsa degli speculatori, una massa di avvoltoi pronti a scommettere contro chi potrebbe essere la prossima vittima. I maggiori indiziati sono (nell'ordine) Portogallo, Italia e Spagna, che dovrebbero fronteggiare una drammatica fuga di capitali.
Quanto ai diretti interessati, il ritorno alla dracma vorrebbe dire liberarsi dei debiti, ma al contempo la moneta nazionale sarebbe valutata dai mercati a meno della metà dell'euro. Con tanti saluti a chi aveva ancora due spicci in banca. Certo, per le esportazioni sarebbe una manna dal cielo, ma la Grecia non è l'Argentina. A differenza del Paese sudamericano, che si è dichiarato insolvente nel 2001 e poi ha ricominciato a crescere alla grande, Atene non può contare né su una gran ricchezza di risorse naturali né su una congiuntura economica favorevole da cavalcare.
Ora, il vero dramma è nella strada che l'Europa e il Fondo monetario internazionale hanno scelto per scongiurare questo scenario. La maggior parte del peso viene scaricata sui cittadini, il che aggraverà la recessione nei prossimi anni, senza peraltro cancellare definitivamente lo spettro del fallimento.
Intanto però vengono salvaguardati gli interessi delle banche centrali e internazionali, compresa la reggia di Francoforte. Sanno tutti benissimo che - nei fatti - la Grecia è già insolvente, non potendo in alcun modo rimborsare con mezzi propri il debito pubblico (salito ormai al 170% del Pil). I creditori dovranno quindi necessariamente accettare un taglio di ciò che avrebbero dovuto incassare. L'ultima bozza di accordo prevede una riduzione del 70%, ma la firma non arriva.
Anche quando l'intesa sarà raggiunta, tuttavia, riguarderà solo il settore privato, tutelando gli istituti pubblici e la Bce dalle perdite. E nessuna banca privata si azzarderà a fare un fiato, perché nel frattempo dall'Eurotower è arrivato (e continuerà ad arrivare) un fiume di liquidità a buon mercato.
Il taglio viene poi falsamente presentato come "volontario" per evitare che scattino i rimborsi dei famigerati Cds. Si tratta di strumenti finanziari derivati che funzionano come assicurazioni sulla vita di altre obbligazioni (i titoli di Stato greci, in questo caso). Il premio arriva con la dichiarazione d'insolvenza. Cresciuto nella più totale anarchia, oggi il mercato dei Cds è talmente confuso che nessuno sa prevedere quale sarebbe l'effetto domino scatenato da un default "tradizionale" di Atene. Insomma, ancora una volta per risolvere una crisi nata dalla finanza non si tiene conto delle esigenze dell'economia reale, ma di quelle della finanza stessa.
E intanto si prende in giro chi ci va di mezzo. Nel discorso televisivo di sabato sera con cui ha cercato di convincere i greci della "inevitabilità" delle nuove misure, il premier (tecnico) Lucas Papademos ha fatto terrorismo psicologico, paventando "la catastrofe, il caos economico e l'esplosione sociale". Forse non si era accorto che fuori dal suo ufficio l'esplosione era già avvenuta. Mentre migliaia di greci protestavano mettendo a fuoco mezza Atene, Papademos è riuscito a dire che grazie al nuovo piano il Paese potrà tornare a crescere già dalla fine del prossimo anno. Stavolta non sembra che qualcuno sia disposto a credergli.
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di Michele Paris
L’ennesimo summit della Lega Araba per cercare di risolvere la crisi siriana si è risolto domenica nella prevista richiesta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di autorizzare una missione congiunta di “peacekeepers” sotto il patrocinio delle due organizzazioni. La risoluzione approvata al Cairo chiede l’invio di circa tre mila uomini in Siria, ufficialmente per monitorare l’implementazione di un cessate il fuoco, così da porre fine alle violenze tra il governo di Bashar al-Assad e l’opposizione armata e sostenuta finanziariamente dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo.
La Lega Araba ha anche sollecitato i propri membri a “interrompere qualsiasi forma di cooperazione diplomatica” con il governo siriano, dopo che nei giorni precedenti alcuni paesi arabi avevano ritirato i loro rappresentati nel paese in seguito alla chiusura dell’ambasciata americana a Damasco. Le decisioni partorite dal vertice dell’organizzazione panaraba sono giunte mentre in Siria proseguono le violenze, soprattutto nella città di Homs, dove la resistenza armata alle forze del regime risulta particolarmente intensa.
Per mantenere alta la pressione su Assad e convincere l’opinione pubblica occidentale dell’urgenza di un intervento esterno, il solito Osservatorio per i Diritti Umani in Siria, con sede a Londra, ha di nuovo elencato una serie di scontri con decine di morti in episodi impossibile da verificare in maniera indipendente. A sottolineare la confusione attorno alle vicende relative alla Siria e la scarsa attendibilità dei resoconti pubblicati dai giornali ci sono i dati diffusi da un altro gruppo di opposizione che opera però in territorio siriano, i Comitati di Coordinamento Locale, i quali risultano ben diversi da quelli dell’Osservatorio per i Diritti Umani anche per le stesse località prese in considerazione.
Dietro la richiesta di una missione congiunta ONU-Lega Araba c’è in realtà il desiderio di alcuni paesi all’interno della stessa Lega - a cominciare da Arabia Saudita e Qatar - di aprire la strada ad un intervento armato dall’estero per rovesciare il regime di Assad. Le basi per il meeting del Cairo di domenica, e per le risoluzioni approvate, erano state fornite d’altra parte proprio da una precedente riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, di cui fanno parte Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar.
Comprensibilmente, la proposta della Lega Araba è stata fermamente respinta già nella serata di domenica dal governo di Damasco. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale del regime, SANA, l’ambasciatore presso la Lega (da cui peraltro la Siria è stata sospesa), Yousef Ahmad, ha affermato che il suo governo “non è interessato in nessuna decisione presa dall’organizzazione”, le cui mosse “riflettono l’isteria e la confusione” di alcuni paesi arabi.
Sempre nella giornata di domenica, poi, il capo della missione degli osservatori della Lega Araba, inviata in Siria a dicembre e cancellata qualche settimana fa, ha rassegnato le proprie dimissioni. Il generale sudanese Muhammad Ahmad Mustafa al-Dabi ha criticato la decisione di Arabia Saudita e Qatar di ritirare i propri osservatori nonostante fossero emersi significativi miglioramenti nel paese e il regime stesse conformandosi alle richieste della stessa Lega.
La soppressione della precedente missione è stato un passo cruciale per giungere al coinvolgimento delle Nazioni Unite così da legittimare un intervento per rovesciare Assad. Il fallimento forzato della missione alla quale Damasco aveva dato il via libera, è stato voluto precisamente da Arabia Saudita e Qatar, con l’OK di Washington, in quanto da simili iniziative questi paesi intendono accettare unicamente le prove delle repressioni del regime siriano, al di là della realtà sul campo, in modo da sfruttarle per promuovere l’abbattimento dell’attuale governo.
Le manovre dei paesi Occidentali e dei loro alleati nel Golfo Persico ricalcano sempre più quelle messe in atto lo scorso anno alla vigilia dell’aggressione militare contro la Libia. Anche in quel caso, la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU venne preceduta da un voto della Lega Araba che chiedeva l’intervento della comunità internazionale in appoggio ai “ribelli” libici. Con il pretesto dell’intervento “umanitario”, la NATO diede così inizio alle operazioni militari per sostituire Gheddafi con gli esponenti del Consiglio Nazionale di Transizione, causando, al termine della campagna, oltre 50 mila morti e gettando il paese nordafricano in un caos nel quale a dominare sono ora le varie milizie armate che si fronteggiano tra loro macchiandosi di ripetute violazioni dei diritti umani.
Dal summit di domenica non è arrivato invece l’atteso riconoscimento del Consiglio Nazionale Siriano (CNS) come unico rappresentante legittimo del governo di Damasco, anche se questa mossa giungerà con ogni probabilità nel prossimo futuro. Ciononostante, la Lega Araba si è espressa a favore “dell’apertura di canali di comunicazione con l’opposizione siriana e della fornitura di supporto politico e finanziario”.
Quest’ultima decisione sanziona, in effetti, una realtà già evidente da tempo. Il CNS e l’Esercito Libero della Siria (FSA), oltre ad essere stanziati in Turchia, godono, come già ricordato, del sostegno materiale di vari governi occidentali e arabi. Secondo recenti rivelazioni, inoltre, membri delle Forze Speciali di Gran Bretagna e Qatar starebbero addestrando combattenti dell’FSA in territorio turco, mentre personale specializzato di questi ed altri paesi sarebbero già presenti in Siria per fornire “consigli di natura tattica” all’opposizione armata impegnata contro il regime.
Forse anche grazie a questo sostegno, l’opposizione siriana nelle ultime settimane ha incrementato le proprie azioni, facendo ricorso sempre più spesso ad assassini e atti di terrorismo. Proprio sabato scorso, ad esempio, la stampa ufficiale ha diffuso la notizia dell’assassinio a Damasco del generale Issa al-Kholi, noto medico militare proveniente da una potente famiglia alauita legata ai vertici del governo siriano. Nei giorni precedenti, poi, due esplosioni nella città di Aleppo - roccaforte del regime e finora relativamente risparmiata dalle proteste - due esplosioni contro edifici governativi avevano fatto almeno 28 morti.
Per quest’ultimo attentato terroristico, la stampa internazionale ha puntato il dito contro gruppi vicini ad Al-Qaeda provenienti dal vicino Iraq. Qualche giorno fa, infatti, il leader di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, aveva elogiato in un video-messaggio i ribelli siriani che si battono contro Assad. Singolarmente, come già avvenne in Libia, dove tra i ribelli c’erano molti fondamentalisti islamici legati all’organizzazione che fu di Osama bin Laden, anche in Siria l’agenda di Al-Qaeda sembra coincidere con quella degli Stati Uniti.
Come ha descritto ieri un articolo del New York Times, inoltre, da qualche tempo è attivo un traffico di armi dalle province occidentali a maggioranza sunnita dell’Iraq - in particolare dalla città di Mosul, quartier generale di Al-Qaeda in Iraq - e destinato ai ribelli in Siria. L’appello alle armi e alla guerra santa da parte di ambienti estremisti è giunta anche dai Fratelli Musulmani della Giordania, secondo i quali “sostenere la popolazione siriana e l’FSA è un dovere, dal momento che essi stanno subendo le ingiustizie e l’oppressione del regime”.
Il progetto degli Stati Uniti e dei loro alleati di rovesciare Assad per sostituirlo con un regime più malleabile rientra nella strategia più ampia tesa ad estendere in maniera pressoché incontrastata l’influenza americana dalle sponde del Mediterraneo al Mar Caspio, un’area sconfinata che conserva la maggior parte delle riserve energetiche del pianeta. Questo disegno, che prevede come successiva e fondamentale tappa il cambio di regime in Iran, di cui Damasco è il principale alleato, va di pari passo con il declino degli stessi USA su scala globale e rischia di trascinare in un conflitto rovinoso potenze come Russia e Cina che vedono minacciati i propri interessi vitali.
Oltre al veto di due settimane fa all’ONU alla risoluzione sulla Siria, Mosca sta reagendo in maniera ferma alle minacce americane contro Damasco, confermando l’appoggio all’alleato Assad attraverso, tra l’altro, l’invio di proprie navi da guerra al largo delle coste del paese e la firma di nuovi accordi di fornitura di armamenti al regime.
Nonostante i rischi di alimentare nuove tensioni, l’offensiva da parte dei governi che vogliono la fine di Assad non conosce soste. Dopo il summit della Lega Araba, la palla è passata ancora alle Nazioni Unite dove ieri è iniziata un’altra trattativa per giungere ad una nuova risoluzione di condanna contro la Siria, questa volta basata su una proposta saudita. La nuova risoluzione, che non avrebbe alcuna possibilità di superare l’esame del Consiglio di Sicurezza per l’opposizione di Russia e Cina, dovrebbe essere sottoposta all’esame dell’Assemblea Generale. Per ottenerne l’approvazione sarà così sufficiente una maggioranza semplice, anche se il documento che ne potrebbe uscire non sarà comunque in nessun modo vincolante.
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di Michele Paris
Le conseguenze del colpo di stato di settimana scorsa alle Maldive continuano a farsi sentire nel panorama politico dell’arcipelago nell’Oceano Indiano. Mentre il deposto presidente, Mohamed Nasheed, insiste nel chiedere elezioni anticipate e il nuovo regime sta dando vita ad un governo di unità nazionale per consolidare il potere, nella capitale Malé sono giunti in questi giorni inviati delle Nazioni Unite e delle potenze con i maggiori interessi nell’arcipelago (India e Stati Uniti) per fare chiarezza sulla situazione e negoziare un’uscita pacifica dalla crisi.
A precipitare le Maldive nel caos erano state le dimissioni forzate martedì scorso del presidente Nasheed, eletto democraticamente nel 2008 dopo 30 anni di governo autocratico di Maumoon Abdul Gayoom. Nasheed era apparso in diretta TV annunciando la sua intenzione di farsi da parte in seguito alle insistite proteste di piazza organizzate da alcune settimane dall’opposizione. Il giorno successivo, tuttavia, Nasheed ha dichiarato alla stampa internazionale di essere stato costretto alle dimissioni dalle forze di polizia fedeli a Gayoom. Lo stesso vice-presidente che ha preso il suo posto alla guida del paese, Mohamed Waheed Hassan Manik, è stato accusato di aver cospirato contro di lui assieme all’ex uomo forte maldiviano, in questi giorni impegnato in un viaggio in Malaysia.
In risposta al golpe, a Malé sono scesi in piazza centinaia di sostenitori di Nasheed e del suo Partito Democratico delle Maldive (MDP), contro i quali le forze di sicurezza hanno risposto con cariche e gas lacrimogeni. Giovedì, poi, il Tribunale Criminale delle Maldive ha emesso un ordine di arresto per Nasheed e per il suo ormai ex ministro della Difesa. Il nuovo regime non ha però manifestato l’intenzione di applicare l’ordine di arresto, così che l’ex presidente continua a rimanere in libertà nella capitale e, anzi, sempre giovedì ha guidato una nuova manifestazione di piazza.
Venerdì, inoltre, Nasheed ha puntato nuovamente il dito contro la polizia e l’esercito, accusandoli di aver picchiato e arrestato parlamentari e sostenitori del suo partito nel corso delle proteste. Negli ultimi giorni, in ogni caso, nella capitale è sembrata prevalere la calma, anche se alcuni scontri sono stati segnalati nella città meridionale di Addu.
Già attivista per i diritti umani, Mohamed Nasheed aveva trionfato nelle prime elezioni multipartitiche della storia maldiviana nel 2008, conquistando la presidenza con quasi il 54% dei consensi ed estromettendo Maumoon Abdul Gayoom, al potere dal 1978. Durante il regime di quest’ultimo, Nasheed era stato più volte imprigionato, nonché costretto a vivere per parecchi anni in esilio in Gran Bretagna e Sri Lanka.
Le Maldive sono un arcipelago composto da quasi 1.200 isole nell’Oceano Indiano e contano poco meno di 400 mila abitanti, a larga maggioranza musulmani sunniti. Nonostante le isole siano una famosa meta per il turismo di lusso, la gran parte della popolazione vive in condizioni di povertà.
A partire dalla metà di gennaio, i principali partiti dell’opposizione maldiviana - tra cui il Partito Progressista delle Maldive (PPM) di Gayoom e il partito islamico DQP (Dhivehi Qaumee) - avevano indetto una serie di manifestazioni di protesta dopo che il presidente Nasheed aveva ordinato l’arresto del giudice Abdulla Mohamed, accusato di corruzione. Il giudice Mohamed aveva in precedenza ottenuto la scarcerazione del vice-presidente del partito DQP, Mohamed Jameel Ahmed, a sua volta accusato di diffamazione nei confronti del presidente.
Sia la Corte Suprema che il Procuratore Generale delle Maldive avevano dichiarato illegale l’arresto del giudice Mohamed, innescando di fatto una crisi costituzionale. Membri del governo di Nasheed, peraltro, hanno poi sostenuto che lo stesso giudice era più volte intervenuto nel recente passato per far naufragare procedimenti legali contro membri dell’opposizione. A novembre, ad esempio, Mohamed avrebbe fatto uscire dal carcere il figlio di Gayoom, Gassan Maumoon, arrestato per tentato omicidio.
Già a dicembre, in realtà, alcuni partiti islamici maldiviani avevano cercato di mobilitare i propri sostenitori contro Nasheed, accusato a loro dire di non aver rispettato a sufficienza i principi religiosi. Da tempo, negli ambienti religiosi si chiede un’interpretazione più rigorosa dell’Islam nel paese, una tendenza emersa con l’arrivo nell’arcipelago di predicatori fondamentalisti dal Medio Oriente. La diffusione dell’Islam nelle Maldive va fatta risalire probabilmente al dodicesimo secolo, quando i sovrani buddisti decisero di convertirsi, anche se l’applicazione dei principi religiosi è sempre stata piuttosto blanda.
Le origini del malcontento nel paese sono però da ricercare principalmente nelle mancate promesse elettorali del presidente Nasheed. Dal 2008 a oggi il livello di inflazione è salito vertiginosamente, mentre dure misure di austerity sono state implementate su richiesta del Fondo Monetario Internazionale. Le opposizioni, soprattutto islamiche, hanno così sfruttato i malumori diffusi nei confronti del presidente, cercando di mobilitare la popolazione. Quando alle proteste dell’opposizione si sono unite le forze di polizia e alcune sezioni dell’esercito, per il presidente Nasheed è stata la fine.
Insediato alla guida del paese già martedì scorso, l’ex vice-presidente Waheed domenica ha così inaugurato un governo di unità nazionale per ristabilire l’ordine nel paese in vista delle elezioni presidenziali del 2013, mentre, su richiesta della comunità internazionale, il giorno precedente aveva annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta per fare luce sui fatti delle ultime settimane che hanno portato alla rimozione di Nasheed. Quest’ultimo, da parte sua, non solo ha respinto l’offerta di entrare nel nuovo governo ma continua a chiedere elezioni anticipate.
Le Maldive sono situate in una posizione strategica nell’Oceano Indiano, al centro di rotte marittime commerciali fondamentali per gli interessi delle potenze regionali (India e Cina) e degli Stati Uniti. Soprattutto l’India ha tradizionalmente un’influenza particolare sull’arcipelago, come dimostra il fatto che Nasheed ha fatto appello proprio a Nuova Delhi quando sono iniziate le protese contro il suo esecutivo. Il governo indiano, però, si è rifiutato di fornirgli appoggio e settimana scorsa ha invece riconosciuto come legittimo il nuovo regime di Waheed. Anche da Washington era giunto l’immediato riconoscimento del golpe ma il Dipartimento di Stato ha fatto poi marcia indietro, sostenendo che andava fatta maggiore chiarezza sulla situazione nel paese.
Che le Maldive non siano un angolo di Oceano Indiano del tutto trascurabile per gli equilibri geo-strategici del continente asiatico è confermato anche dal fatto che l’amministrazione Obama ha inviato a Malé l’assistente al Segretario di Stato, Robert Blake, il quale sabato ha incontrato sia il nuovo presidente Waheed che il deposto Nasheed e altri leader politici locali. Al termine della sua vista, Blake ha confermato che gli USA non sono nella posizione di stabilire se Nasheed sia stato vittima di un golpe e, in ogni caso, ha affermato che le Maldive non sono pronte per elezioni anticipate, di fatto fornendo il proprio sostegno al neo-presidente Waheed.
Anche a Nuova Delhi sono ampiamente diffuse le preoccupazione per il caos nel paese e, soprattutto, per la radicalizzazione della società e della scena politica maldiviana. In un susseguirsi sui media indiani di editoriali che esprimono le apprensioni per l’incapacità di Nuova Delhi di risolvere una crisi politica in un paese d’importanza apparentemente secondaria, anche il governo di Manmohan Singh ha inviato un proprio rappresentante alle Maldive.
Per il loro interesse strategico, anche le Maldive sono così al centro delle rivalità delle varie potenze della regione. Nonostante il tradizionale ascendente dell’India, la Cina negli ultimi anni ha ad esempio intensificato i legami con Malé. Pechino ha infatti costruito il palazzo del Ministero degli Esteri nella capitale, così come il Museo Nazionale. I rapporti commerciali tra i due paesi sono inoltre aumentati di oltre il 50% tra il 2009 e il 2010, mentre una serie di importanti accordi di cooperazione sono stati siglati durante la presidenza dell’ormai deposto Mohamed Nasheed.