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di Michele Paris
Al termine del summit andato in scena domenica al Cairo per fare il punto sulla situazione della propria missione in Siria, la Lega Araba ha approvato una nuova improbabile proposta per cercare di risolvere la crisi in corso nel paese mediorientale. La soluzione promossa da un’organizzazione panaraba profondamente divisa al proprio interno include le dimissioni del presidente siriano, Bashar al-Assad, il trasferimento dei poteri ad un suo vice e l’avvio di negoziati per giungere ad una transizione pacifica. Le scadenze indicate dalla Lega Araba prevedono la formazione di un governo di unità nazionale entro sessanta giorni ed elezioni entro cinque mesi per scegliere l’assemblea incaricata di scrivere una nuova costituzione.
In un clima sempre più teso e con un paese sull’orlo della guerra civile, la proposta della Lega Araba non ha praticamente nessuna possibilità di essere accettata a Damasco, anche se è stata ovviamente salutata positivamente dai rappresentanti del cosiddetto Consiglio Nazionale Siriano presenti nella capitale egiziana. Il CNS ha comunque confermato che non intende aprire trattative con Assad finché il presidente non lascerà il potere. Il governo siriano, da parte sua, ha già respinto la proposta. Un esponente del regime, citato dall’agenzia di stampa ufficiale SANA, ha bollato il piano stilato al Cairo come una chiara violazione della sovranità della Siria.
Dietro alla nuova road map della Lega Araba ci sono soprattutto le monarchie del Golfo alleate degli Stati Uniti e, in particolare, l’attivissimo regime del Qatar. È stato infatti il ministro degli Esteri del piccolo emirato, Sheikh Hamad bin Jassim al-Thani, a spiegare alla stampa internazionale il contenuto della proposta. “Abbiamo chiesto al regime siriano di farsi da parte e cedere il potere”, ha dichiarato alla Reuters al-Thani, il quale ha poi fatto appello al pretesto di difendere i diritti democratici delle masse arabe - come già era avvenuto in Libia per rovesciare Gheddafi - affermando che la Lega Araba sta “con il popolo siriano e sostiene le sue aspirazioni”.
La proposta in questione è stata paragonata dai media di mezzo mondo a quella adottata in Yemen e che sembra essere in fase di implementazione in queste settimane. Quest’ultimo accordo tra il regime e l’opposizione ufficiale prevede l’abbandono del potere da parte del presidente, Ali Abdullah Saleh, la sua sostituzione con il vice-presidente e nuove elezioni entro la fine di febbraio. Al presidente Saleh, in viaggio verso gli Stati Uniti proprio in queste ore per ricevere cure mediche presso un ospedale newyorchese, è stata inoltre garantita la totale immunità da eventuali incriminazioni per aver represso nel sangue le proteste in corso nel suo paese.
Le due proposte, sebbene siano state promosse dalle stesse monarchie assolute del Golfo che garantiscono gli interessi americani in Medio Oriente, hanno in realtà diverse finalità strategiche. Mentre in Yemen l’obiettivo è quello di sacrificare Saleh per mantenere in vita un regime invariato nella sostanza e che continui a garantire la partnership con Washington, in Siria si tratterebbe di rimuovere un presidente sgradito all’Occidente - per il quale, com’è ovvio, non si parla di alcuna immunità - così da spianare la strada verso il potere ad un’opposizione legata a doppio filo con l’Occidente e ai regimi sunniti della regione, possibilmente cercando un accomodamento con quei membri del regime di Damasco pronti a scaricare Assad. Ciò che accomuna le due proposte, nonostante la retorica, è invece il totale disinteresse per le aspirazioni dei popoli yemenita e siriano nel cui nome si sostiene di agire.
La risoluzione partorita domenica al Cairo, oltre a rappresentare un altro modo per puntare il dito contro il regime siriano per non aver accettato una proposta che rappresenterebbe un suicidio, è in ogni caso un compromesso, dal momento che i paesi del Golfo chiedevano misure più incisive contro Assad.
L’Arabia Saudita ha infatti annunciato nella giornata di domenica il ritiro dei propri osservatori che fanno parte della missione lanciata dalla Lega in Siria il 26 dicembre scorso. Lo stesso ministro degli Esteri del Qatar, a sua volta, in un’intervista diffusa qualche giorno fa aveva prospettato per la prima volta l’ipotesi di impiegare soldati dei paesi arabi in Siria.
La sorte della missione era stata affrontata in precedenza dal summit della Lega Araba, in apertura del quale il capo degli osservatori, il generale sudanese Mohammed Ahmed Mustafa al-Dabi, aveva descritto qualche miglioramento della situazione in Siria e chiesto un rafforzamento del suo mandato.
Anche la stessa Lega, nonostante le richieste di alcuni paesi di richiamare gli osservatori, ha alla fine ammesso qualche piccolo passo avanti, decidendo di prolungare la missione per un altro mese perché Damasco non ha ancora implementato tutte le misure a cui aveva dato l’OK nel mese di dicembre (ritiro delle forze armate dalle città assediate, liberazione dei prigionieri politici, avvio di un dialogo con l’opposizione).
Il rapporto di al-Dabi e la decisione della Lega sul prolungamento della missione sono stati al contrario criticati dal Consiglio Nazionale Siriano, il quale già sabato aveva chiesto di rimettere la soluzione della crisi nelle mani del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questo tentativo è appoggiato anche dai paesi del Golfo, dagli USA e dai loro alleati in Occidente, poiché rappresenterebbe il primo passo verso una soluzione simile a quella libica, dove l’aggressione militare della NATO era stata resa possibile grazie alla manipolazione di una risoluzione dello stesso Consiglio di Sicurezza nel marzo 2011.
Negli ultimi giorni, intanto, alcuni segnali provenienti dalla Siria sembrano indicare un’espansione delle operazioni condotte dall’opposizione, finanziata e armata da quegli stessi paesi vicini che chiedono ad Assad di fermare le violenze. Almeno secondo i resoconti delle varie organizzazioni vicine all’opposizione, ad esempio, la città di Zabadani sarebbe finita sotto il controllo dei ribelli e risulterebbe temporaneamente pacificata in seguito ad un cessate il fuoco siglato con le forze del regime. A Douma, poi, dopo aspri scontri armati, domenica scorsa i soldati che hanno defezionato avrebbero conquistato per alcune ore il controllo di alcuni quartieri della città situata a pochi chilometri da Damasco
Le pressioni esterne sul governo siriano hanno fatto segnare infine un altro passo avanti nella giornata di lunedì, quando l’Unione Europea ha annunciato nuove sanzioni che andranno a colpire altri 22 membri del governo Assad. In questo scenario, le tensioni prodotte dalla crisi siriana rischiano di innescare un conflitto che potrebbe coinvolgere le potenze minacciate dallo sconvolgimento degli equilibri mediorientali causato dall’eventuale caduta di Assad, a cominciare dalla Russia.
Che il Cremlino sia determinato a resistere sanzioni ONU e interventi militari contro Damasco appare chiaro anche dall’appoggio che continua a garantire all’alleato siriano. A confermarlo è stata, tra l’altro, una recente rivelazione apparsa sul quotidiano russo Kommersant, secondo il quale Mosca avrebbe appena stipulato un contratto da 550 milioni di dollari con il regime di Assad per la fornitura alla Siria di 16 aerei da guerra Yakovlev Yak-130.
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di Alessandro Iacuelli
Il titolo dell'intervista al giornale tedesco Bild era certamente una provocazione: “Orban, Lei é una cattiva persona?” Fatto sta che la risposta del premier ungherese è stata: “L'Ungheria è e resta democratica. Noi siamo un paese di combattenti per la libertà. Io rivendico questa tradizione. Combatteremo aspramente chi non ci riconosce di volere la democrazia e lo stato di diritto''.
Se queste sono le parole pubblicate in Germania, non sono affatto somiglianti a quelle che raccoglie in patria, dove il giornale liberarl Nepszabadsag, riferendosi al dibattito infuocato al Parlamento europeo sulla politica del governo ungherese, scrive: “Dopo aver spaccato la società ungherese, istigando l’odio, il premier conservatore Viktor Orban è riuscito ieri a spaccare anche l’Europa”.
L’Europarlamento infatti continuerà a monitorare l’Ungheria, e non sarebbe esclusa nemmeno una procedura per l’infrazione dell’art.7 del Trattato dell’Ue per mancato rispetto dei valori fondamentali, con tutte le relative sanzioni non solo economiche ma anche politiche annesse. Dal conto suo Orban continua la sua recita di fronte al suo popolo, interpretando il ruolo del “difensore” dell’Ungheria dai suoi nemici esterni, e minimizza la portata delle critiche che sono piovute contro i suoi cambiamenti costituzionali.
Di procedure d'infrazione contro Budapest, a Bruxelles ce ne sono già tre, tutte per le leggi varate di Orban. Una riguarda l’indipendenza della Banca centrale, una seconda quella dell’età pensionabile dei giudici e la terza è quella sull’indipendenza dell’Autorità per la privacy. La portavoce dell’esecutivo UE, Pia Ahrenkilde, ha ribadito che sussisterebbero dei problemi costituzionali nella legislazione che la Commissione sta esaminando e che andrebbero ben aldilà delle norme transitorie, contraddicendo quindi quanto dichiarato dal premier Orban, che aveva cercato di minimizzare la portata della vicenda.
Nei prossimi giorni, già a partire da lunedì, sono previsti alcuni incontri tra il commissario agli Affari economici e monetari Olli Rehn e il capo negoziatore ungherese per la richiesta di assistenza finanziaria, Tamas Fellegi. Rehn aveva già in passato sottolineato come la modifica della legislazione ungherese sulla Banca centrale nazionale, che ne mette in dubbio l’indipendenza, sarebbe una “precondizione necessaria” per avviare discussioni sull’apertura di una linea di credito con il Fmi. Dulcis in fundo, l’Ue comincerà nei prossimi giorni anche la procedura per deficit eccessivo contro Budapest, che secondo Bruxelles non avrebbe fatto sin qui assolutamente nulla per ridurre il disavanzo pubblico.
All’interno del disegno autoritario di Orban c'è l’inclusione nella Carta Costituzionale di disposizioni sui temi etici (come l’aborto) e la riduzione della libertà di stampa. Il che causa il timore che le misure adottate dal governo populista e conservatore dell'Ungheria possano in qualche modo essere imitate altrove, in Europa.
Del resto Orban per alcuni movimenti neofascisti, anche italiani, è già un eroe senza macchia, rappresentando colui che ha sfidato i potentati dell’Ue per proteggere il suo popolo. Peccato che nemmeno il popolo magiaro sembra appoggiare Orban in modo incondizionato, come dimostrato dall’oceanica manifestazione indetta contro di lui dalle forze democratiche del paese nei giorni scorsi. E anche i sondaggi non lo premiano: stando agli istituti di ricerca, se si votasse ora Orban non arriverebbe al 25% dei voti.
In risposta ai timori, alle lamentele ed alle procedure d’infrazione di Bruxelles, in queste ultime ore è apparsa la possibilità che l’Ungheria si pieghi ai voleri dell’Ue. Infatti, Viktor Orban si è detto certo di poter raggiungere un accordo sulle controversie con l’Ue e sui procedimenti d’infrazione avviati dall’Unione nell’incontro che avrà martedì prossimo a Bruxelles con il presidente della commissione José Manuel Barroso.
Il primo ministro magiaro ha dichiarato, in un’intervista alla radio pubblica magiara MR1-Kossuth, di sperare di raggiungere un “accordo politico” con Barroso che spiani la strada a nuovi finanziamenti comunitari. Il governo ungherese da parte sua intende abbandonare il progetto di prevista fusione tra banca centrale e “Pszaf”, autorità di vigilanza dei mercati finanziari, duramente criticato dall’esecutivo comunitario, che ha annunciato martedì scorso un’azione legale contro Budapest.
Viktor Orban sembra aver fatto il passo più lungo della gamba ed ora pare voler procedere a fare di gran carriera un passo indietro nello scontro legale con l'Unione europea, affermando che il suo governo è pronto a cambiare le leggi che non piacciono all'Ue, anche se non è convinto delle obiezioni. D'altronde, l'Ungheria sta cercando di ottenere il sostegno finanziario di Europa e Fondo monetario internazionale, che hanno sollevato forti dubbi sulle nuove leggi, viste come una limitazione all'indipendenza della banca centrale. E quando si ha bisogno smodato di soldi, è bene non irritare chi dovrebbe prestarli.
Viktor Orban e il suo partito, il Fidesz, hanno in mano il Parlamento grazie alla schiacciante vittoria elettorale dell’aprile 2010, e poco alla volta hanno esteso il loro controllo sulle istituzioni democratiche, approvando leggi il cui scopo ultimo è farli restare al potere per i decenni a venire. Creando anche un pericolosissimo “precedente: la trasformazione di un paese membro dell’Unione europea in un regime sempre più autoritario.
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di Michele Paris
Al termine di una settimana che ha sconvolto gli equilibri nella corsa alla nomination repubblicana, l’ex speaker della Camera dei Rappresentanti, Newt Gingrich, ha conquistato una netta vittoria nelle terze primarie dell’anno, riaprendo inaspettatamente una competizione che sembrava ormai chiusa dopo il voto del New Hampshire.
In Carolina del Sud, Gingrich ha staccato il favoritissimo Mitt Romney e la sorpresa dei caucus dell’Iowa, Rick Santorum, capitalizzando i consensi degli evangelici e dei conservatori, più che mai decisivi per l’assegnazione dei delegati in palio nel primo appuntamento elettorale nel sud degli Stati Uniti.
La campagna di Gingrich per la Casa Bianca è stata dunque resuscitata sabato almeno per la seconda volta a partire dallo scorso anno. Dato per finito in partenza, l’ex leader repubblicano di maggioranza negli anni Novanta era stato protagonista di un imprevisto recupero nei sondaggi, per poi finire vittima del fuoco incrociato dei rivali che fin dalla vigilia delle primarie lo avevano bersagliato con un’ondata di messaggi televisivi negativi.
A fermare l’ascesa di Gingrich in Carolina del Sud non sono riusciti, nell’ultima settimana, nemmeno un’intervista rilasciata alla ABC della sua seconda moglie, Marianne, la quale ha raccontato delle infedeltà del marito durante il loro matrimonio, né l’appoggio ufficiale dato a Rick Santorum dai leader evangelici americani nel corso di un meeting in Texas. Secondo i dati ufficiali, Newt Gingrich ha così ottenuto il 40,4% dei suffragi espressi, contro il 27,8% di Mitt Romney, il 17% di Santorum e il 13% del deputato libertario del Texas, Ron Paul.
Nella settimana precedente il voto in Carolina del Sud, il campo degli sfidanti in casa repubblicana si era ridotto a quattro. L’ex governatore dello Utah e già ambasciatore di Obama in Cina, John Huntsman, e il governatore del Texas, Rick Perry, avevano infatti abbandonato la corsa a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, contribuendo a veicolare una parte del voto moderato e conservatore sui candidati rimasti in gara.
Il risultato di sabato della Carolina del Sud potrebbe in realtà rappresentare solo un ostacolo temporaneo nel percorso verso la nomination di Romney, il quale rimane di gran lunga il candidato meglio finanziato e con l’organizzazione più solida in vista di una possibile sfida prolungata. Oltre al fatto che dal 1980 il vincitore delle primarie repubblicane in questo Stato ha sempre finito per conquistare la nomination, la vittoria di Gingrich può aver determinato una dinamica temuta dal team di Romney, cioè la convergenza del voto conservatore su un unico candidato, mettendo fine alle divisioni nell’ala destra del partito di cui aveva appunto beneficiato il miliardario mormone.
Anche se i sondaggi subito dopo le primarie del New Hampshire lo davano con un chiaro margine sui rivali in Carolina del Sud, Romney è andato incontro a una serie di contrattempi che hanno finito per essergli fatali in uno Stato nel quale l’elettorato repubblicano risultava già di per sé cauto nei confronti del suo messaggio relativamente moderato. A contribuire al suo declino sono stati poi altri fattori, a cominciare dall’agguerrita prestazione di Gingrich nei due dibattiti televisivi che hanno preceduto il voto.
Un paio di giorni prima, inoltre, il Partito Repubblicano dell’Iowa aveva rivelato che il riconteggio delle schede dei caucus del 3 gennaio aveva dato un risultato diverso, privando Romney della vittoria - inizialmente annunciata con un margine di appena otto voti - e consegnandola a Rick Santorum.
La retorica populista adottata dai rivali ha poi contribuito a dipingere Romney come un candidato lontano dai bisogni delle classi più disagiate. Pressato soprattutto da Gingrich a rivelare la propria dichiarazione dei redditi, Romney si è limitato a valutare attorno al 15% il carico fiscale gravante sulle sue entrate milionarie, mentre in un’altra occasione ha definito “non molto” il compenso ricevuto per i suoi discorsi pubblici nel corso del 2010 e pari a 374 mila dollari.
Con la sfida repubblicana almeno parzialmente riaperta, i candidati sposteranno ora la loro attenzione verso il prossimo appuntamento, previsto per il 31 gennaio in Florida, il primo grande Stato americano a tenere le primarie repubblicane. Qui, dove il mercato pubblicitario televisivo è estremamente costoso e dove lunedì andrà in scena un nuovo dibattito, si stanno già riversando svariati milioni di dollari, soprattutto delle Super PAC affiliate in maniera non ufficiale ai candidati, come quella di Romney che ha speso 4 milioni ancora prima dell’inizio ufficiale della campagna elettorale nello Stato. E anche qui, Gingrich sembra essersi portato avanti, grazie alla manifestazione tenuta alcuni giorni orsono a Miami dove la lobby cubanoamericana gestita dalla FNCA ha già promesso il suo sostegno in cambio delle promesse di "mano dura contro Cuba" offerte dall'ex speacker del Congresso. Un'ulteriore segno di una candidatura all'insegna del bellicismo reazionario che conferma l'indirizzo elettorale dei fan repubblicani.
Anche se sconfitti nettamente, Rick Santorum e Ron Paul hanno annunciato infine di voler rimanere in corsa. Se per il 76enne Paul il risultato negativo in Carolina del Sud era ampiamente previsto (il suo staff è già concentrato nelle primarie e caucus negli USA occidentali che seguiranno la Florida) Santorum sperava in una prestazione migliore dopo le notizie positive dei giorni precedenti. Lo spostamento dei voti conservatori verso Gingrich non preannuncia perciò nulla di buono per l’ex senatore della Pennsylvania, il quale oltretutto non può contare sulle finanze e sull’organizzazione dei suoi rivali.
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di Michele Paris
Il celebre giudice spagnolo Baltasar Garzón è stato chiamato ad apparire qualche giorno fa in un’aula di tribunale a Madrid per la prima udienza di uno dei tre procedimenti legali nei quali si trova coinvolto a causa della sua attività di magistrato. I tre casi hanno motivazioni esclusivamente politiche e sono stati sollevati nei suoi confronti per porre fine alle indagini su questioni ritenute scomode dalle élite politiche di Spagna, a cominciare da quella sulle responsabilità nei crimini dell’era franchista.
Nel processo aperto questa settimana, Garzón è accusato di aver disposto intercettazioni illegali in carcere durante alcuni incontri tra gli indagati e i loro legali nel cosiddetto caso Gürtel. In esso sono coinvolti, tra gli altri, esponenti del Partito Popolare (PP) di governo, implicati in un giro di corruzione, riciclaggio ed evasione fiscale.
Nel secondo procedimento, per il quale il 56enne giudice andaluso dovrà apparire in aula il 24 gennaio, le accuse sono invece di abuso di potere in merito ad un’inchiesta sui crimini commessi durante la Guerra Civile (1936-1939) e la successiva dittatura franchista fino alla morte del Caudillo nel 1975. In questo processo, Garzón sarà alla sbarra per aver provato ad indagare sulle responsabilità di crimini come omicidi, abusi, torture e la sottrazione di decine di migliaia di neonati alle detenute politiche per affidarli a membri del regime.
Il terzo caso, per il quale non è stata ancora fissata la data della prima udienza, riguarda infine presunti pagamenti che Garzón avrebbe ricevuto dal Banco Santander durante un soggiorno negli Stati Uniti per tenere dei seminari presso la New York University. Alla luce di questi compensi, peraltro smentiti dall’università americana, il giudice spagnolo avrebbe dovuto ricusare se stesso in un caso che vedeva coinvolto lo stesso Banco Santander.
Riassumendo il fuoco incrociato al quale è sottoposto Garzón nel proprio paese, il suo legale, Gonzalo Martinez-Fresnada, l’altro giorno ha definito una “tempesta perfetta” quella che il suo assistito si trova ad affrontare. Se condannato, Garzón potrebbe essere escluso dalla magistratura spagnola fino ad un periodo di vent’anni.
Il caso più controverso e che ha suscitato maggiormente i malumori della classe dirigente iberica è senza dubbio quello relativo ai crimini del franchismo. Gli altri due appaiono invece studiati a tavolino per screditare Garzón agli occhi dell’opinione pubblica. Dopo la morte di Franco e l’avvio della transizione democratica, nel 1977 la Spagna approvò un’amnistia che andava a coprire tutti i crimini del regime. A tutt’oggi nel paese non è stata perciò emessa alcuna condanna per le atrocità commesse durante la dittatura fascista.
In questa situazione, nel 2008 Garzón aprì un procedimento su richiesta dei familiari delle vittime del regime. Quasi subito, gli ambienti di estrema destra, tra cui il sindacato fascista Manos Limpias, chiesero però di fermare l’inchiesta e accusarono Garzón di aver abusato delle sue facoltà. Quest’ultimo, da parte sua, ha sempre sostenuto che l’indagine non contrasta con il dettato della legge sull’amnistia. Ciononostante, l’indagine è stata successivamente fermata e Garzón sospeso dal proprio incarico.
Le critiche più dure verso l’azione intrapresa da Garzón erano giunte dal Partito Popolare, nato proprio dalle ceneri delle formazioni di destra del dopo-Franco e i cui esponenti non desiderano vedere riaperte le “vecchie ferite”. Anche da sinistra, tuttavia, le reazioni non sono state tenere. L’ex segretario del Partito Comunista Spagnolo (PCE), Santiago Carrillo, uno dei protagonisti della transizione, aveva ad esempio denunciato Garzón, il quale a suo parere aveva commesso un errore e la sua indagine non era il modo migliore per ristabilire la memoria storica del periodo segnato dalla dittatura franchista.
In due decenni di carriera giudiziaria, Baltasar Garzón si è distinto per numerosi casi eclatanti, primo fra tutti quello che portò all’arresto e alla richiesta di estradizione dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet durante un suo soggiorno in Inghilterra. Facendo affidamento sul principio della “giurisdizione universale” per perseguire i crimini contro l’umanità, il magistrato spagnolo ha anche aperto procedimenti riguardanti le torture subite da connazionali detenuti nel lager di Guantánamo, la collaborazione del governo di Madrid nelle “rendition” della CIA e l’uccisione a Baghdad di un cameraman spagnolo finito sotto il fuoco americano. Nel 2009 inoltre, Garzón tentò di mettere sotto processo sei membri dell’amministrazione Bush - compreso lo stesso ex presidente - per crimini contro l’umanità.
L’intraprendenza del giudice della Corte Nazionale spagnola ha comprensibilmente sollevato molte inquietudini non solo in patria. Come hanno rivelato alcuni cablo pubblicati da Wikileaks, l’amministrazione Obama aveva fatto più di una pressione sul governo di Madrid per tenere a freno Garzón. Dopo l’apertura della già citata indagine sulle torture a Guantánamo, in particolare, i diplomatici statunitensi presero contatti sia con l’allora Procuratore Generale, Cándido Conde-Pumpido, che con il superiore di Garzón alla Corte Nazionale, Javier Zaragoza.
Sotto pressione da Washington, il governo Zapatero decise così di limitare il principio della giurisdizione universale per i magistrati spagnoli e di lasciar procedere le inchieste ai danni di Baltasar Garzón. Il Partito Socialista (PSOE) non ha infatti espresso alcun commento ufficiale circa la vicenda giudiziaria di Garzón, forse anche perché quest’ultimo aveva già messo sotto accusa alcuni esponenti del partito nell’ambito di un’indagine sulle squadre della morte che negli anni Ottanta avevano assassinato membri dell’ETA.
I processi farsa contro Baltasar Garzón hanno prodotto una situazione paradossale in Spagna, per cui colui che intende indagare su crimini atroci commessi durante i decenni della dittatura franchista finisce per essere perseguito legalmente, mentre i complici e i responsabili degli stessi reati godono della totale impunità e, anzi, hanno spesso potuto arricchirsi o avere accesso a posizioni di potere dopo la transizione alla democrazia.
Solo per citare il caso più clamoroso, la famiglia di Franco, cui il re di Spagna ha tra l’altro conferito titoli nobiliari, secondo un articolo del novembre 2011 del quotidiano El País, ha accumulato enormi ricchezze anche grazie alla posizione di capo di Stato del defunto dittatore. Malgrado l’evidenza, non solo nessuna indagine è mai stata aperta dalle autorità spagnole, ma, ad esempio, fino alla sua morte nel 1988, lo Stato ha addirittura garantito alla vedova del “Generalissimo”, Carmen Polo, una cospicua pensione, ben superiore allo stipendio previsto per la carica di primo ministro.
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di Michele Paris
In un clima di crescenti minacce e aperte provocazioni verso l’Iran, gli Stati Uniti stanno intensificando lo sforzo diplomatico con i loro alleati per aumentare le pressioni sul governo di Teheran e, ufficialmente, convincerlo a rinunciare al suo discusso programma nucleare. Pur mantenendo aperta ogni ipotesi, compresa quella militare, è l’arma dell’embargo sulle esportazioni di petrolio che Washington sta promuovendo in questo inizio d’anno per colpire l’economia iraniana e destabilizzare il regime.
La campagna diplomatica anti-iraniana è in pieno svolgimento in questi giorni con delegazioni americane inviate in vari paesi per spingere i rispettivi governi a sottostare al dettato delle sanzioni unilaterali firmate dal presidente Obama lo scorso 31 dicembre. Le nuove disposizioni USA prevedono l’esclusione dal mercato americano di qualsiasi entità - pubblica o privata - che faccia affari con la Banca Centrale iraniana, la quale gestisce appunto le transazioni relative alle esportazioni di greggio.
Le attenzioni dell’amministrazione Obama si stanno concentrando in particolare sugli alleati asiatici. Martedì, il consigliere speciale del Dipartimento di Stato, Robert Einhorn, e l’assistente al Segretario al Tesoro per i crimini finanziari, Daniel Glaser, hanno incontrato a Seoul il vice ministro degli Esteri sudcoreano, Kim Jae-shin, al quale hanno manifestato la richiesta di ridurre sensibilmente le importazioni di petrolio dall’Iran. Secondo il quotidiano locale Dong-A Ilbo, gli Stati Uniti vorrebbero vedere dimezzate le forniture di petrolio dall’Iran alla Corea del Sud, mentre quest’ultima sarebbe disponibile a valutare al massimo un taglio del 30 per cento.
Seoul paga tramite la Banca Centrale iraniana le forniture di greggio, che ammontano a circa il 10 per cento del totale del proprio fabbisogno energetico. Nonostante la promessa di collaborare con Washington, i sudcoreani si sono mostrati piuttosto cauti, poiché temono per la propria sicurezza energetica e per una possibile impennata del prezzo del petrolio che farebbe lievitare l’inflazione, con conseguenze nefaste per le chances di rielezione del presidente conservatore, Lee Myung-bak, a pochi mesi dal voto. Dopo la visita in Corea del Sud, la delegazione americana si recherà in Giappone, altro importatore di greggio iraniano cui verrà chiesto di sottostare alle nuove sanzioni USA.
Le resistenze di altri paesi a limitare i rapporti commerciali con Teheran appaiono decisamente più esplicite. L’India, ad esempio, tramite il ministro degli Esteri Ranjan Mathai, ha fatto sapere martedì di voler continuare ad acquistare il petrolio iraniano senza chiedere alla Casa Bianca di essere esentata dalle sanzioni, come prevede la legge licenziata a dicembre dal Congresso. In sostanza, Nuova Delhi ha deciso di ignorare del tutto le misure decise a Washington, anche perché, malgrado alcune dispute sui pagamenti nel recente passato, l’Iran è per l’India il secondo fornitore di petrolio dopo l’Arabia Saudita.
Ancora più ferme nella loro opposizione a qualsiasi misura contro l’Iran sono poi Cina e Russia. Pechino è il primo partner commerciale di Teheran, da cui riceve il 22 per cento delle proprie importazioni di petrolio e, come previsto, ha respinto le sanzioni americane. Il governo cinese vuole proseguire la collaborazione con la Repubblica Islamica, nonostante abbia recentemente ridotto le importazioni di greggio dall’Iran a causa di una contesa sul prezzo.
La sicurezza energetica per la Cina viene prima di tutto e Pechino, per assicurarla, intende mantenere rapporti cordiali sia con l’Iran che con i paesi alleati degli USA in Medio Oriente, come dimostra la visita in corso nella regione del premier, Wen Jiabao, il quale ha appena siglato una serie di accordi in ambito petrolifero e nucleare con il regime saudita.
Mosca, da parte sua, appare anche più esplicita nel condannare integralmente la politica USA nei confronti dell’Iran, come ha confermato mercoledì il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov. In una dichiarazione riportata dalla Associated Press, il capo della diplomazia russa si è detto seriamente preoccupato che un attacco militare contro Teheran possa innescare una “reazione a catena” che finirebbe per destabilizzare l’intero pianeta. Lavrov ha anche criticato l’imposizione delle sanzioni, le quali penalizzano l’economia iraniana colpendo soprattutto la popolazione.
Se Cina e Russia pongono al primo posto i rispettivi interessi riguardo la questione iraniana, l’atteggiamento dell’Unione Europea sembra al contrario privilegiare l’alleanza con gli Stati Uniti a scapito degli interessi di molti paesi membri. L’UE sta infatti valutando l’adozione di un embargo totale sul greggio iraniano e la decisione definitiva dovrebbe essere presa nel corso di un summit in programma il prossimo 23 gennaio. Alcuni paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna, appoggiano in pieno il provvedimento, mentre altri - tra cui Italia e Grecia, le quali importano quantitativi importanti di petrolio da Teheran a prezzi vantaggiosi - hanno posto delle condizioni.
Come ha fatto notare qualche giorno fa in un’intervista diffusa dall’agenzia di stampa Mehr il rappresentante iraniano all’OPEC, Seyyed Mohammad Ali Khatibi, “uno scenario nel quale le esportazioni di petrolio verso l’UE vengono bandite corrisponderebbe ad un suicidio economico per i paesi membri”. Secondo alcune statistiche, l’Iran esporta verso l’Europa circa 800 mila barili di petrolio al giorno e un eventuale embargo provocherebbe un ulteriore aumento del prezzo del greggio, peggiorando la crisi economica in atto. A confermare l’autolesionismo dei governi europei è stato il ministro degli Esteri di Madrid, José Manuel Garcia-Margall, il quale mercoledì ha affermato che il suo paese potrebbe appoggiare le sanzioni anche se esse causeranno “gravi danni” ai due principali importatori spagnoli di petrolio iraniano.
Per far fronte al possibile venir meno del petrolio iraniano sul mercato internazionale - circa 2,2 milioni di barili al giorno - il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, Ali Naimi, l’altro giorno in un’intervista alla CNN ha promesso di aumentare la produzione di greggio del proprio paese fino a 2,7 milioni di barili al giorno, portandola complessivamente a 11,8 milioni di barili. L’uscita di Naimi ha suscitato le ire di Teheran, da dove il ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, ha invitato i sauditi a “riflettere e a riconsiderare la proposta”. Per Salehi, quelli che provengono da Riyadh sono “segnali poco amichevoli” e potrebbero creare problemi tra l’Iran e l’Arabia Saudita.
Oltre alla campagna diplomatica e alla guerra economica, gli USA e i loro alleati continuano a portare avanti anche operazioni segrete contro Teheran, i cui effetti si sono visti solo pochi giorni fa con l’assassinio nella capitale dell’ennesimo scienziato nucleare iraniano, Mustafa Ahmadi Roshan.
Come ha messo in luce un’indagine del Sunday Times pubblicata il 15 gennaio, l’operazione è con ogni probabilità da attribuire al Mossad israeliano, verosimilmente con la collaborazione dell’organizzazione terroristica sunnita attiva in Iran, Jundallah. Azioni simili, ovviamente non commentate o smentite da Washington e Tel Aviv, sono mirate a provocare una reazione da parte iraniana, così da giustificare un’aggressione militare.
Un attacco preventivo contro le installazioni nucleari iraniane non sembra in ogni caso imminente. Qualche segnale di cautela da parte di Israele è giunto negli ultimi giorni. Non solo è stata rimandata un’esercitazione militare congiunta tra USA e Israele che avrebbe potuto alimentare le tensioni con Teheran, ma anche il ministro della Difesa Ehud Barak nel corso di un’intervista alla radio militare israeliana mercoledì ha affermato che la decisione da parte del suo governo di attaccare l’Iran è ancora “molto lontana”.
Queste rassicurazioni contribuiscono in ogni caso ben poco a dissipare i timori di un nuovo conflitto in Medio Oriente dalle conseguenze rovinose. Stati Uniti e Israele sembrano infatti disposti a tutto pur di spezzare l’asse di resistenza nella regione che si fonda precisamente sulla Repubblica Islamica. Minacce, sanzioni e operazioni segrete di stampo terroristico rimarranno così all’ordine del giorno fino a quando a Teheran non verrà installato un regime meglio disposto verso i loro interessi.