di Michele Paris

Da un paio di giorni, il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, e il suo collega del Tesoro, Tim Geithner, hanno iniziato una delicata visita in Cina in occasione dei colloqui bilaterali annuali sulle questioni economiche e della sicurezza. Sul vertice di quest’anno pesano non solo le crescenti provocazioni statunitensi nel sud-est asiatico, ma anche il più recente scontro diplomatico causato dalla fuga del dissidente cinese Chen Guangcheng dagli arresti domiciliari e tenuto per sei giorni sotto protezione dell’ambasciata USA a Pechino.

Al centro delle discussioni ci saranno principalmente le questioni internazionali più calde (Corea del Nord, Iran e Siria) e quelle spinose relative ai rapporti commerciali tra le prime due economie del pianeta. La retorica di Washington su questi ultimi temi ha fatto peraltro registrare da qualche tempo un parziale abbassamento dei toni, in particolare in seguito al sensibile aumento delle esportazioni americane verso la Cina e ad una certa rivalutazione dello yuan nei confronti del dollaro decisa dalle autorità di Pechino.

Nonostante le crescenti rivalità, dettate dai divergenti interessi strategici, l’intreccio degli interessi economici dei due paesi fa in modo che il percorso intrapreso dalla leadership cinese in questo ambito sia visto con estremo favore a Washington. I vertici del Partito Comunista, impegnati tra qualche mese in un processo di ricambio all’interno degli organi dirigenti, stanno infatti lanciando svariati segnali della loro volontà di aprire ulteriormente l’economia cinese al mercato, consentendo maggiore competitività e avviando verso la privatizzazione alcune grandi aziende e colossi finanziari ancora in mano pubblica.

Questa trasformazione, che accentuerà il già enorme divario tra un’élite privilegiata e la vasta maggioranza della popolazione, ha ricevuto un forte impulso dalla recente purga ai danni del popolare membro del partito Bo Xilai, già governatore della provincia di Chongqing ed ex candidato ad entrare nel Comitato Permanente del Politburo, la cui promettente carriera è stata stroncata dal coinvolgimento con la moglie nella morte misteriosa di un uomo d’affari britannico.

La crisi politica provocata dal caso di Bo Xilai, esponente di spicco della “nuova sinistra” di ispirazione maoista, era stata innescata dal tentativo del suo collaboratore e capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, di cercare asilo politico negli Stati Uniti. In un altro caso imbarazzante per Washington, lo scorso febbraio quest’ultimo era rimasto per 24 ore presso il consolato americano della città di Chengdu, prima di venire consegnato ad agenti della sicurezza cinesi e scortato a Pechino.

Sul processo di “riforme” che intende intraprendere la leadership uscente del Partito Comunista Cinese, così come quella che ne prenderà il posto, hanno da tempo messo gli occhi le aziende statunitensi, le quali cercano ora di avviare colloqui con Pechino per un trattato bilaterale di investimento che, tra l’altro, consenta alle compagnie straniere la piena proprietà di imprese in Cina, cosa attualmente limitata ad una certa percentuale e solo in alcuni settori.

Anche se i colloqui di questa settimana non hanno all’ordine del giorno le questioni dei diritti umani, il caso dell’attivista non vedente Chen Guangcheng, fuggito dalla propria abitazione sotto il controllo delle forze di sicurezza locali in un villaggio rurale della provincia di Shandong, minaccia di complicare i rapporti tra USA e Cina.

Secondo quanto riportato dalla stampa, dopo giorni di trattative tra le due parti, mercoledì Chen avrebbe lasciato l’ambasciata americana a Pechino per recarsi in un ospedale della capitale, mentre le autorità cinesi gli avrebbero concesso di trasferirsi in un posto sicuro in Cina.

Con la sua fuga rocambolesca, Chen è riuscito a portare il proprio caso all’attenzione della comunità internazionale, suscitando la simpatia degli attivisti di mezzo mondo per la sua battaglia contro gli aborti forzati imposti dal governo cinese e limitando i margini di manovra di Pechino per mettere a tacere la vicenda.

Lo stesso Chen, in un video messaggio postato su YouTube il 27 aprile dopo la fuga avvenuta cinque giorni prima e indirizzato al premier Wen Jabao, sembrava aver offerto una via d’uscita al governo centrale, dal momento che aveva accusato proprio le autorità locali per la sua condizione, facendo invece appello a Pechino per venire in suo aiuto.

L’amministrazione Obama dovrà comunque muoversi con circospezione per chiudere definitivamente la vicenda, facendo attenzione, da un lato, a non urtare la sensibilità delle autorità cinesi e, dall’altro, a non dare motivo ai rivali repubblicani di aver mostrato eccessiva debolezza nella gestione della crisi diplomatica.

Il vertice sino-americano vedrà impegnati Hillary Clinton e Tim Geithner da giovedì, mentre mercoledì è andato in scena un prologo con dei colloqui sulle questioni militari in un clima di estrema diffidenza. Certi ambienti americani mettono in guardia da qualche tempo dall’incremento delle spese militari cinesi, anche se, a ben vedere, ciò è dovuto soprattutto alla maggiore presenza americana in Estremo Oriente per cercare di contenere la crescente influenza cinese nel continente.

Pur parlando di cooperazione e interessi condivisi, Washington sta mettendo in atto una politica aggressiva in Asia sud-orientale, rafforzando la partnership con alleati come Corea del Sud, Giappone e Filippine, in funzione anti-cinese. Questa svolta sancita fin dal 2009 dall’amministrazione Obama ha già portato a parecchi incidenti diplomatici e scontri tra le forze navali di Pechino e quelle di paesi come Filippine e Vietnam in alcune aree contese del Mar Cinese Meridionale.

Sul tema della sicurezza, durante i colloqui di questa settimana la Cina dovrebbe sollevare una serie di annose questioni, tra cui quella della fornitura di armi dagli USA a Taiwan, ma anche l’attività spionistica aerea americana sul territorio cinese e le restrizioni all’export di tecnologia militare statunitense.

Più in generale, le preoccupazioni principali di Pechino nei confronti di Washington sono però le manovre americane nelle aree del sud-est asiatico considerate vitali per la sicurezza nazionale cinese. Al di là delle dichiarazioni distensive di circostanza, gli Stati Uniti non sembrano infatti per nulla intenzionati ad invertire una politica che risulta essere la risposta al declino della propria influenza su scala globale e alla rapida ascesa di quella cinese.

Per lanciare un ulteriore messaggio al governo cinese sulla realtà sempre più minacciosa con cui dovrà fare i conti nei prossimi anni, nei giorni precedenti l’avvio dei colloqui annuali, l’amministrazione Obama ha significativamente organizzato due vertici con altrettanti rappresentati di paesi alleati in Estremo Oriente.

Lunedì, Hillary Clinton e il numero uno del Pentagono, Leon Panetta, hanno ospitato a Washington i loro omologhi filippini per riaffermare il totale sostegno degli USA alla ex colonia. L’incontro è avvenuto mentre è in corso da quasi un mese un confronto tra navi da guerra della marina delle Filippine e di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

L’impasse è l’esempio di come un incidente apparentemente di secondaria importanza possa sfociare in un conflitto ben più rovinoso, in questo caso se le Filippine dovessero fare appello al trattato di mutua difesa che obbliga gli Stati Uniti ad intervenire militarmente a fianco dell’alleato in caso di aggressione esterna.

L’altro recente summit nella capitale americana ha avuto come protagonisti il presidente Obama e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda. Nel faccia a faccia è stato ribadito l’impegno di rafforzare l’alleanza strategica tra Washington e Tokyo e di coordinare maggiormente le attività militari dei due paesi. Iniziative, queste, che nonostante le smentite da entrambe le parti sono rivolte principalmente contro la Cina e contribuiscono perciò ad appesantire l’atmosfera delle discussioni in corso a Pechino.

Senza chiedere permesso, senza autorizzazione alcuna, il Comandante Tomàs Borge Martinez, ultimo dei fondatori in vita del Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional, di cui era Presidente onorario, ha lasciato per sempre orfano il Nicaragua. Testimone vivente delle gesta sandinista, dimostrazione cogente e storica di come Davide è capace di sconfiggere Golia, Tomàs, 82 anni, ha cessato di vivere lunedì scorso, ricoverato nell’ospedale militare di Managua.

Il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale, come si deve ad un uomo che ha intrecciato così intensamente la storia del paese da rendere difficile dividerne i reciproci destini. E bene lo sanno le migliaia e migliaia di nicaraguensi che per ore hanno omaggiato in fila la salma del Comandante.

Fondatore del FSLN nel 1961, membro della storica direzione nazionale del partito, ministro dell’Interno durante la decada rivoluzionaria dei sandinisti al potere, parlamentare sandinista e, da ultimo, ambasciatore nicaraguense in Perù, il Comandante Borge è stato molte cose in una sola. Sandinista, poi ancora sandinista, irrimediabilmente e per sempre sandinista.

Fu tra coloro che sconfissero una delle dittature più feroci e truculente della storia, appoggiata dagli Stati Uniti e detestata dai nicaraguensi; la rivoluzione sandinista rese possibile credere che anche nel "giardino di casa" di Washington, ribellarsi era doveroso, vincere era possibile. A prezzo di lutti infiniti e pagine eroiche, abbatterono una dittatura e fondarono una democrazia, guadagnarono il rispetto dei loro amici e il timore dei loro nemici, insegnarono imparando e trasformarono un'entità territoriale in una nazione.

Dalle montagne dove organizzava la guerriglia alla carcere dove detenuto per tre anni venne continuamente quanto inutilmente torturato, dal Ministero dell’Interno da lui fondato alla diplomazia, Borge è stato l’uomo più carismatico del Frente. Un atteggiamento quasi messianico nei confronti degli umili e la fama di “duro” nell’agone politico, erano le caratteristiche con le quali lo si descriveva, in fondo la fedele rappresentazione di un uomo che ha segnato profondamente la storia del suo paese immergendosi completamente nelle sue vene più profonde.

Parlare diffusamente ed esaurientemente di Tomàs Borge richiederebbe uno spazio ben maggiore di quello a disposizione. Una delle numerose volte che ebbi il piacere di conversare con lui, lo intervistai per Liberazione. Ricordi, analisi, aneddoti di una vita tra le montagne a combattere la guardia nazionale somozista e molti più anni a combattere il terrorismo dei Contras e della Cia, che nelle Amministrazioni guidate da Ronald Reagan aveva inondato di armi e dollari, menzogne e complotti, il Nicaragua che cercava la sua via di emancipazione.

Alla domanda se avesse cambiato qualcosa della sua vita, potendo tornare indietro, mi disse che no, avrebbe rifatto tutto quello che aveva fatto, perché le scelte adottate non l’avevano mai visto cedere di fronte a lusinghe o paure, a calcolo o a indolenza; si rimproverava invece una certa arroganza nel periodo di governo: “Avrei dovuto avere maggiore umiltà e studiare di più”, mi disse.

Ricordando i momenti più difficili della resistenza sandinista all’aggressione statunitense, mi confessò che fu proprio la determinazione e la capacità combattente dei nicaraguensi a fermare l’invasione del Nicaragua da parte degli Usa: “Non saremmo stati come Panama o Grenada, e loro lo sapevano bene; i piani militari di reazione all’invasione che avevamo elaborati erano ben diversi da quelli che gli Stranamore del Pentagono prefiguravano. Noi non avremmo potuto contrastare i bombardamenti, ci saremmo ritirati nei bunker e in ogni luogo. Ma loro dovevano per forza scendere a terra per occupare il paese, e allora a terra li avremmo attesi".

Ma sarebbe bastato a fermarli? "Avremmo combattuto metro per metro, con una preparazione militare che loro nemmeno si sognavano e più di un milione di persone in armi. E non solo questo: ci saremmo ritirati sulle montagne dalle quali provenivamo e che conoscevamo palmo a palmo, obbligandoli a seguirci, gli avremmo portato la guerra in tutto l’emisfero. Loro attaccavano in Nicaragua? La guerra sarebbe scoppiata anche in El Salvador, Honduras, Costa Rica e Guatemala. Avremmo invaso anche i nostri vicini per portare la guerra ad un livello regionale; non avrebbero vinto mai, è per questo che non c’invasero, sapevano che avrebbero perso. E, dopo il Viet-nam, non potevano permetterselo”.

Fondatore della Polizia Sandinista e delle truppe speciali del Ministero dell’Interno, della Direzione Generale della Sicurezza di Stato (affidata al suo fido Lenin Cerna) rappresentò un vero e proprio calvario per la controrivoluzione in guayabera e in uniforme, quella che mangiava alla nicaraguense, pensava in inglese e parlava in spagnolo, che inutilmente tentò per nove anni di sovvertire il cammino scelto nel 1979. Era amato dalla sua gente e odiato dai suoi nemici, che lo etichettavano come “persecutore”, in quanto colpevole di mantenere il paese in sicurezza. Mai nessuna cellula terroristica dei contras e della CIA poterono insediarsi nelle città del paese. Gli chiesi se fosse dispiaciuto o compiaciuto dall’essere etichettato come un “duro” e lui, sorridendo, mi disse: “Inevitabile: hai mai visto un Ministro dell’Interno con una faccia da angelo?”.

Eppure quel volto e quella fama di duro si sposavano bene con la sua mistica rivoluzionaria e con l’amore nel senso più ampio del termine. Fu Tomàs Borge, dopo l’entrata trionfale dei sandinisti nella capitale, ad emanare il primo e, forse, più caratterizzante decreto del paese liberato: l’abolizione della pena di morte. E fu ancora lui che, pochi mesi dopo il trionfo rivoluzionario, di fronte ai resti della Guardia nazionale somozista arresasi ai sandinisti, ordinò all’uomo che lo aveva torturato in carcere per anni di uscire dalla fila e farsi avanti per ricevere il verdetto: l’uomo fece un passo avanti convinto di andare verso il plotone di esecuzione e Borge gli disse: “Emetto la sentenza: sei condannato ad essere libero, puoi andare”.

Perché, come amava ripetere, “i sandinisti sono implacabili nel combattimento, ma generosi nella vittoria”. Fu l’inizio di una amnistia generale che rese liberi la stragrande maggioranza di coloro che avevano collaborato con il somozismo e, a chi gli faceva notare come ciò rappresentasse un fatto inedito nella storia del suo paese, e che mai i somozisti avrebbero avuto lo stesso tratto, Tomàs rispondeva: “Tra i tanti motivi per i quali si fa una rivoluzione, c’è soprattutto quello di dimostrare di essere completamente diversi da loro”.

La storia dimostrò purtroppo come tanta generosità si rivelò in parte controproducente, visto che le ex-guardie somoziste furono i primi ad associarsi con i contras per riempire di lutti il paese, ma è pur vero che senza quei gesti la rivoluzione sandinista non sarebbe stata quella che è stata.

E da parte di Borge non vi furono mai pentimenti, al punto che, diversi anni dopo, in piena guerra d’aggressione al Nicaragua, non esitò a difendere un’ulteriore amnistia ai contras prigionieri per il raggiungimento degli accordi di pace di Esquipulas. Difese il provvedimento di clemenza non solo come strumento per il raggiungimento dell’accordo di tregua, ma anche come elemento caratteristico della cultura politica dei sandinisti.

Appena insediatosi da Ministro dell’Interno del Nicaragua ordinò che la facciata del Ministero ospitasse un’insegna che recitava: “Ministero dell’Interno, sentinella dell’allegria del popolo”. Non erano certo la fantasia e l’immaginazione che gli difettavano, insieme ad una cultura straordinaria.

Tomàs è stato anche uno straordinario oratore, capace d’infiammare le piazze come solo Fidel nel panorama latinoamericano era in grado di fare. E come scrittore ha pubblicato diversi libri, tra i quali “La paziente impazienza” (Premio Casa de las Americas 1989), “L’assioma della speranza”, “Un grano di mais”.

Aveva per Fidel Castro una venerazione totale e per la sua Cuba un sentimento di riconoscenza ed ammirazione illimitato. L’aiuto straordinario offerto da Cuba ai sandinisti, prima nella lotta per la liberazione dalla tirannide genocida dei Somoza, poi nella difesa e nella formazione ad ogni livello del paese durante la decada del governo rivoluzionario, aveva certamente segnato a fondo in tutta la direzione del Fsln. Ma per Tomàs in particolare, la relazione con Cuba era difficile da poter spiegare ad occhi più distaccati. Quando gli si chiedeva di fare i nomi dei cinque uomini più importanti della storia, rispondeva: al primo posto Fidel Castro, al secondo Fidel Castro e al terzo, quarto, quinto, Fidel Castro”.

Tomàs lascia ora a Daniel Ortega - di cui fu instancabile sostenitore - il testimone dell’eredità sandinista, in Nicaragua e ovunque. Le spoglie di Carlos Fonseca Amador, fondatore del FSLN, vedranno ora la vicinanza di quelle di Tomàs Borge Martinez. Sono, come disse Tomàs salutando i resti di Carlos Fonseca, "quei morti che non muoiono mai". Sono i padri della patria, coloro che, seguendo il cammino di Augusto Cesar Sandino, il “Generale degli uomini liberi”, hanno dato la loro vita per il loro paese, ai quali ora anche lui appartiene.

Resti immortali che hanno fecondato e feconderanno una terra di gente umile e fiera, guidata da poeti, rivoluzionari ed eroi capaci, passandosi di mano continuamente armi e poesia, di piegare il più grande impero della storia per alzare al cielo il sorriso della nuova Nicaragua. Libera, sovrana, cristiana e sandinista.

 

di Michele Paris

Dopo quasi un mese di stop, domenica scorsa gli Stati Uniti sono tornati a colpire con i droni in territorio pakistano, uccidendo quattro presunti militanti islamici. La più recente incursione è giunta nel pieno dei negoziati tra Washington e Islamabad per cercare di ristabilire i rapporti tra i due paesi, severamente danneggiati dall’assassinio di Osama bin Laden un anno fa e dalla strage di soldati pakistani da parte dei militari americani lo scorso mese di novembre.

L’attacco aereo dell’altro giorno ha avuto come bersaglio la città di Miranshah, capitale del Waziristan del Nord, dove è stata colpita una scuola femminile abbandonata, utilizzata dagli estremisti. L’operazione statunitense ha suscitato le dure proteste del governo pakistano, il quale aveva recentemente vincolato il ripristino della partnership con gli USA, tra l’altro, proprio alla sospensione degli attacchi con i droni sul proprio territorio.

Il governo di Islamabad martedì ha presentato una protesta formale ad un diplomatico americano convocato presso il ministero degli Esteri, mentre secondo alcuni il Pakistan potrebbe anche boicottare l’importante summit della NATO in programma a Chicago il 20 e il 21 maggio prossimi.

Lo stop alla campana con i droni era una delle condizioni contenute in una serie di linee giuda approvate all’unanimità dal parlamento pakistano qualche settimana fa e a cui la politica estera del governo dovrebbe attenersi, in particolare nei rapporti con gli Stati Uniti. Il documento partorito da una speciale commissione parlamentare pakistana era inteso più che altro a rispondere in qualche modo alla crescente ostilità nel paese verso gli USA e a fornire alla classe dirigente locale la possibilità di ristabilire le fondamentali relazioni con Washington nonostante i numerosi motivi di scontro.

Per trattare la rinnovata partnership, la settimana scorsa l’amministrazione Obama aveva inviato a Islamabad il proprio rappresentante speciale per l’Afghanistan, il diplomatico Marc Grossman, il quale tuttavia venerdì ha lasciato il paese senza un accordo.

Il punto non risolto, secondo i resoconti dei media, sarebbe stato il rifiuto da parte degli Stati Uniti di esprimere scuse ufficiali per la già ricordata uccisone di 24 soldati pakistani in uno scontro armato di frontiera il 24 novembre 2011.

L’amministrazione Obama e il Pentagono si sarebbero impuntati in seguito all’assedio del 15 aprile scorso condotto da militanti islamici a Kabul e in altre località dell’Afghanistan che, secondo l’intelligence a stelle e strisce, sarebbe stato opera di gruppi estremisti provenienti dal Pakistan.

Sul rifiuto di Washington influiscono anche motivi elettorali, con il presidente Obama che a pochi mesi dal voto non intende pronunciare scuse formali per non essere accusato dai rivali repubblicani di debolezza nei confronti di un paese che intrattiene rapporti ambigui con presunti terroristi.

In gioco per gli Stati Uniti c’è soprattutto la necessità di veder riaperti i valichi di frontiera con l’Afghanistan, così da permettere il transito dei convogli NATO che riforniscono le forze di occupazione. La chiusura dei passi di frontiera da parte di Islamabad era stata decisa dopo la strage del novembre scorso e, per tutta risposta, il governo americano decise di congelare gli aiuti erogati al Pakistan che ammontano a oltre un miliardo di dollari all’anno. L’importanza delle rotte attraverso il Pakistan diventerà ancora maggiore per la NATO nel prossimo futuro, in previsione cioè del ritiro di truppe e materiale militare dall’Afghanistan.

Nonostante la partenza di Grossman dal Pakistan a mani vuote, sembra che una decina di diplomatici americani siano rimasti nel paese per continuare a cercare un accordo che consenta alle parti di salvare la faccia e raggiungere un esito che entrambe auspicano.

L’ultimo attacco con i dronti rischia però di complicare ulteriormente la situazione, dal momento che il governo di Islamabad si trova praticamente costretto a criticare con fermezza gli Stati Uniti per queste operazioni militari profondamente impopolari a causa delle vittime civili che regolarmente causano.

Il governo pakistano, almeno nel recente passato, pur prendendo le distanze pubblicamente dalle incursioni condotte dai droni della CIA, ha in realtà appoggiato in pieno la campagna americana e, anzi, l’ha spesso favorita fornendo preziose informazioni per individuare i bersagli da colpire.

Gli assassini mirati contro sospetti militanti islamici sono d’altra parte considerati fondamentali per gli Stati Uniti e la loro “guerra al terrore”. Questo strumento di morte al di fuori di ogni controllo giuridico viene utilizzato sempre più da Washington, oltre che in Pakistan, in paesi strategicamente importanti per i propri interessi come Yemen e Somalia.

Significativamente, il giorno dopo la ripresa degli attacchi con i velivoli senza pilota in Pakistan, il consigliere di Obama per l’anti-terrorismo, John Brennan, in un discorso al Woodrow Wilson Center di Washington ha ammesso e difeso la legalità e l’efficacia dell’impiego di questo strumento sul territorio di vari paesi sovrani. Nonostante sia universalmente noto che gli USA conducano da anni simili operazioni, gli esponenti del governo americano ne parlano in pubblico solo in rarissime occasioni.

di Michele Paris

Le politiche di austerity profondamente anti-democratiche adottate ormai in tutta Europa come risposta alla crisi del debito, nel fine settimana appena trascorso hanno fatto una nuova vittima tra gli stessi governi che le stanno più o meno diligentemente implementando. L’ultimo esecutivo a crollare sotto l’impopolarità di simili misure è stato quello romeno di centro-destra, guidato dal primo ministro Mihai Razvan Ungureanu, battuto venerdì nel corso di un voto di fiducia in parlamento.

Il governo di Bucarest ha avuto un destino molto simile a quello a cui è andato incontro quello olandese di Mark Rutte, anch’esso sfiduciato all’inizio della scorsa settimana. Come in quell’occasione, una parte della maggioranza che lo sosteneva ha deciso di ritirare il proprio appoggio, principalmente a causa della crescente ostilità tra i cittadini alle politiche di rigore dettate dagli ambienti finanziari internazionali.

La mozione di sfiducia in Romania è stata presentata dall’opposizione, contraria al piano di privatizzazioni di Ungureanu, ed è stata votata da 235 membri della Camera dei Deputati, quattro in più del necessario per determinare la fine di un governo nato meno di tre mesi fa. Il presidente romeno, Traian Basescu, ha immediatamente assegnato l’incarico per formare un nuovo gabinetto al 39enne Victor Ponta, già ministro per i rapporti con il parlamento tra il 2008 e il 2009 nonché leader del Partito Social Democratico (PSD) e del raggruppamento di opposizione Unione Sociale Liberale (USL).

Estremamente significative dell’atmosfera che pervade l’Unione Europea in questo frangente e del carattere anti-democratico delle classi politiche che la compongono sono state le parole di Basescu dopo la crisi di governo. Il presidente, dal quale ci si sarebbe aspettato un tentativo di rassicurare i cittadini romeni, ha affermato che venerdì “non è successo nulla di drammatico, questa è la democrazia”, perciò “i mercati finanziari non hanno motivo di cedere al panico”.

Il governo Ungureanu era stato formato ai primi di febbraio, succedendo a quello dell’allora premier Emil Boc, a sua volta dimessosi in seguito a settimane di massicce proteste popolari contro l’austerity. L’avvicendamento alla guida del paese non aveva in ogni caso determinato alcun cambiamento di rotta, dal momento che Ungureanu aveva subito promesso di proseguire le “riforme” del suo predecessore, così da riportare il deficit di bilancio della Romania al di sotto del 2% del PIL entro la fine del 2012, come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Unione Europea in cambio di un prestito concordato ma non ancora erogato.

La stessa messa in scena è stata proposta ai cittadini romeni nel fine settimana dal premier in pectore Victor Ponta, autodefinitosi di “estrema sinistra” ma subito impegnatosi con l’FMI e l’UE a rispettare gli impegni presi da Bucarest. Sabato, infatti, dalla città di Brasov, Ponta ha annunciato un prossimo vertice con il Fondo Monetario per esporre “la continuità e il progetto di governo che verrà presentato la settimana prossima”.

Ponta ha anche aggiunto che il suo nuovo governo non intende ridurre l’imposta sui consumi dal 24% al 19%, né modificare la “flat tax” ad aliquota unica (16%) in vigore, nonostante il programma del suo partito preveda il ritorno ad una tassazione progressiva.

Vista l’impopolarità del percorso intrapreso negli ultimi anni dai governi romeni, si prevede più di una difficoltà nel tentativo di Ponta di mettere assieme un nuovo esecutivo nei prossimi giorni. La coalizione guidata da Ponta controlla infatti appena 227 seggi sui 460 totali delle due camere che compongono il parlamento romeno.

Oltre ai tre partiti dell’USL - il PSD più il Partito Liberale Nazionale e il Partito Conservatore di centro-destra - il nascente governo dovrebbe essere sostenuto da alcuni parlamentari che rappresentano le minoranze etniche romene e il piccolo partito UNPR (Unione Nazionale per il Progresso della Romania) che fino a pochi giorni fa appoggiava il premier uscente Ungureanu.

Se gli sforzi di Ponta dovessero essere premiati, il suo gabinetto avrà, come i precedenti, vita difficile alla luce dei ristretti margini di manovra a sua disposizione per operare, dal momento che si troverà di fatto sotto la supervisione di FMI e UE. Così, il traguardo di novembre, scadenza naturale della legislazione e mese nel quale si terranno nuove elezioni, anche se vicino potrebbe essere molto difficile da raggiungere.

Gli ambienti finanziari internazionali hanno d’altra parte già iniziato a fare pressioni su Bucarest. Il Fondo Monetario ha fatto sapere di aver congelato le procedure per il pacchetto di aiuti pari a 5 miliardi di euro concordato nel marzo 2011 in attesa di un governo pronto a mettere in atto i propri diktat.

In una dichiarazione congiunta con l’UE, i cui rappresentanti erano proprio in questi giorni nella capitale romena per valutare il l’implementazione delle “riforme”, l’FMI ha detto di attendersi dalla Romania “il rispetto degli impegni di politica economica presi con i partner internazionali”, poiché “continue riforme strutturali rimangono essenziali per la ripresa e la crescita a lungo termine” del paese.

Dall’esplosione della crisi del debito, la Romania ha messo in atto drastici tagli alla spesa pubblica, congelato le pensioni, ridotto i salari dei dipendenti pubblici, licenziato migliaia di dipendenti statali, aumentato le tasse al consumo e dato il via libera a privatizzazioni selvagge, innescando come altrove una rovinosa recessione che ha causato un grave deterioramento delle condizioni di vita di milioni di persone.

 

di Michele Paris

Il potente uomo politico giapponese Ichiro Ozawa è stato prosciolto qualche giorno fa dalle accuse di aver violato la legge locale sul finanziamento ai partiti. La sentenza emessa giovedì da un tribunale distrettuale di Tokyo getta le basi per il ritorno di Ozawa sulla scena politica nipponica e minaccia di destabilizzare ulteriormente il già impopolare governo in carica guidato dal suo compagno di partito, nonché rivale, Yoshihiko Noda.

Il 69enne Ozawa, vera e propria eminenza grigia del Partito Democratico (DPJ) al potere, nel corso di una carriera politica che dura da quattro decenni, ha frequentemente incontrato impedimenti sulla sua strada, spesso in momenti cruciali che sembravano dover segnare la sua definitiva consacrazione. Già segretario del Partito Liberal Democratico (LDP) conservatore, che ha governato il Giappone pressoché ininterrottamente dal dopoguerra al 2009, nei primi anni Novanta Ozawa formò un proprio movimento politico che sarebbe poi confluito nel DPJ di centro-sinistra nel 2003.

Le più recenti disavventure giudiziarie di Ichiro Ozawa erano iniziate nel maggio 2009, quando fu costretto a lasciare la carica di leader del Partito Democratico in seguito all’arresto di un suo collaboratore invischiato in un altro scandalo legato alla violazione della legge sul finanziamento ai partiti. Questo inconveniente giunse qualche mese prima dello storico voto del settembre 2009 che decretò la netta vittoria del DPJ, impedendo ad Ozawa di conquistare l’incarico di formare il nuovo governo. Alla carica di primo ministro venne nominato invece Yukio Hatoyama, politico facente parte della corrente all’interno del partito che fa capo allo stesso Ozawa.

Il potenziale prossimo ritorno alla politica attiva di quest’ultimo minaccia di generare nuova instabilità nella compagine di governo giapponese, proprio mentre il premier Noda è impegnato a cercare la difficile approvazione dell’aumento della tassa sui consumi all’8% nel 2014 e al 10% nel 2015 per contenere un gigantesco debito pubblico. La nutrita corrente del DPJ fedele a Ozawa, così come l’LDP che controlla la camera bassa del parlamento, è infatti contraria alla tassa e, alla luce del nuovo scenario creato con l’assoluzione di giovedì, promette di dare battaglia per farla naufragare e assestare un colpo letale a ciò che resta del prestigio del primo ministro.

Le profonde divisioni all’interno del Partito Democratico sono apparse in tutta la loro gravità anche alla luce delle differenti reazioni dei suoi leader alla sentenza. Se per il primo ministro l’assoluzione è una questione puramente giuridica, il segretario e numero due del DPJ, Azuma Koshiishi, ha subito annunciato di voler prendere provvedimenti per reintegrare Ozawa nel partito.

L’ennesima resa dei conti all’interno del DPJ è prevista per il prossimo mese di settembre, quando dovrà essere eletto il nuovo presidente del partito. Il voto ha implicazioni più ampie per il paese, dal momento che tradizionalmente in Giappone il leader del partito di maggioranza accede alla carica di primo ministro.

Il caso giudiziario risolto l’altro giorno era stato riaperto nel gennaio 2011 a carico di Ozawa, accusato di aver falsificato le dichiarazioni relative a finanziamenti al suo partito per l’importo di circa 5 milioni di dollari. Lo scorso febbraio un tribunale aveva però respinto alcune delle prove contro di lui perché raccolte illegalmente dall’accusa. Ciononostante, il procedimento, evidentemente motivato politicamente, era proseguito. Secondo molti osservatori, Ozawa era stato punito per aver cercato di riformare il sistema giapponese, in gran parte controllato da una potente burocrazia statale a scapito dei politici eletti.

Sulle disavventure di Ozawa e sulle conseguenti vicende dei governi succedutisi dal 2009 hanno pesato anche le questioni di politica estera. Ozawa e i suoi alleati nel DPJ, oltre a promuovere un’agenda economica che predilige misure di spesa per stimolare la crescita rispetto a politiche di rigore, auspicano infatti un certo avvicinamento diplomatico di Tokyo alla Cina, dal momento che rappresentano quei settori dell’élite nipponica che hanno beneficiato dei sempre più intensi rapporti commerciali tra i due paesi vicini.

Questa politica, avanzata dallo stesso ex premier Hatoyama, aveva suscitato più di una preoccupazione negli Stati Uniti, i quali proprio a partire dall’ingresso di Obama alla Casa Bianca nel 2009 hanno decretato un cambiamento delle priorità strategiche americane, con al centro dell’attenzione l’Estremo Oriente in funzione di contenimento di Pechino. Questa svolta epocale decisa a Washington presuppone perciò una partnership sempre più stretta con i tradizionali alleati asiatici, a cominciare da paesi come Corea del Sud e, appunto, Giappone.

Anche per questo motivo, dunque, il governo Hatoyama ebbe vita breve, tanto che il premier vicino a Ozawa finì per dimettersi nel giugno del 2010 in seguito al mancato mantenimento della promessa di chiudere la base militare americana di Okinawa. Dopo Hatoyama, la fazione guidata da Ozawa fu messa in minoranza all’interno del Partito Democratico e perse le due successive sfide interne per la nomina dei successori alla guida del governo, Naoto Kan e, dal settembre 2011, Yoshihiko Noda.

Il nuovo rimescolamento delle carte nel panorama politico giapponese lascia intravedere tuttavia un possibile nuovo ribaltone nel paese del Sol Levante, sul cui governo del prossimo futuro influiranno in maniera determinante i nuovi equilibri all’interno del DPJ, a loro volta determinati, sul fronte interno, dagli obiettivi contrastanti dei grandi interessi economici nipponici e, su quello estero, dalla crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti.


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